Domenica tornano i castelli aperti, i nostri consigli per una sosta golosa

È un’iniziativa di successo quella organizzata dallo Iat Bassa Bergamasca con l’aiuto delle Pro Loco. Una giornata al mese in cui ben otto castelli, palazzi e borghi – Brignano Gera d’Adda, Cologno al Serio, Malpaga, Martinengo, Pagazzano, Romano di Lombardia, Torre Pallavicina e Urgnano – aprono i battenti al pubblico, che si può facilmente immergere in epoche passate e apprezzare una programmazione ricca e variegata, con molti eventi collaterali. L’ultima data del calendario primaverile è fissata domenica 5 giugno, una bella occasione per passare una giornata diversa con gli amici o la famiglia, senza tralasciare il piacere di sedersi attorno a una buona tavola.

Malpaga - Locanda Nobli Viaggiatori - Alice e Bruno Ferrari
Alice e Bruno Ferrari – Locanda Nobili Viaggiatori – Malpaga

Si può partire con Malpaga, nel comune di Cavernago, facilmente raggiungibile da Bergamo. Un bellissimo borgo antico, un luogo bucolico immerso nelle fertili campagne, diversamente da molti altri castelli e fortezze, costruite sulla cima delle colline. La figura che ha reso grande la struttura è quella di Bartolomeo Colleoni, che il 29 aprile 1456 acquistò il castello ormai in stato di abbandono dal Comune di Bergamo. Il condottiero vi si stabilì con la moglie, ospitando personaggi di grande calibro e importanza. Ora è di proprietà della Malpaga spa e l’obbiettivo è quello del far rivivere il borgo medievale, con attività economiche artigianali. Ecco che nel luglio del 2013 apre la “Locanda dei Nobili Viaggiatori”, il nome subito celebra gli importanti ospiti che Bartolomeo Colleoni accolse al castello. «Il ristorante è stato ricavato in una struttura del 1400, nei locali adiacenti il castello – racconta Alice che, con il papà Bruno, gestisce il ristorante –. Lo stile è moderno, nordico, con la cucina a vista ed è proprio questo che crea un contrasto di gusto con la struttura antica, bello da vedere e da vivere». Alice lavora in sala e si occupa dell’accoglienza e dei servizi di banqueting, mentre Bruno è lo chef. «Tutte le nostre paste sono preparate in casa – continua Alice –, la nostra cucina è un mix tra la creatività di mio padre e la cucina tradizionale bergamasca. Mia nonna aveva un hotel a Castione della Presolana».

Malpaga locanda nobili viaggiatori - Filetto Garronese 180g con polenta di Malpaga e patate al rosmarinoIl consiglio è di assaggiare i piatti preparati a partire dalle materie prime locali: la polenta di Malpaga, preparata con la farina di mais prodotta dall’azienda agricola Malpaga, nei terreni del borgo, e i cappellacci dello chef ripieni di ricotta e Surfin dei Quattro Portoni con carciofi e ristretto di birra Orobia. I giorni di chiusura sono il lunedì e la domenica sera. Il ristorante è aperto in pausa pranzo. Il prezzo medio per una cena è va dai 30 ai 45 euro. La Locanda dispone anche di cinque stanze, chiamate con i nomi dei nobili e passati ospiti del castello.

Se ci si sposta verso sud, lungo il corso del fiume Serio, si arriva a Martinengo, altro comune con un borgo storico fortificato che è stato denominato “castello”. Anche in questo caso Bartolomeo Colleoni fu un personaggio importante, infatti è attribuita a lui la paternità della grande torre a pianta quadrata. L’interno della torre è praticamente vuoto, fatta eccezione della parte basale di forma ovoidale che ospitava una ghiacciaia.

Tre Lanterne - Martinengo
Tre Lanterne – Martinengo

La sosta golosa consigliata a Martinengo è al ristorante “Tre Lanterne”, nato nel 1962 da Vincenzo Nozza e Anita Vecchiarelli. «Poi nel 1974 – ricorda Gianpietro Nozza, nipote di Vincenzo e attuale gestore – continuarono lo zio Giuseppe e la zia Marisa, con mio padre Angelo e mia madre Rita e poi sono arrivato io: la terza generazione. Il fascino del mondo culinario mi ha spinto a continuare con passione e dedizione questo mestiere servendo nel mio ristorante una cucina mediterranea raffinata, con l’aggiunta di prodotti bergamaschi. Serviamo inoltre pizze rigorosamente schiacciate preparate a partire da lievito madre, con la possibilità di scegliere tra un impasto classico, kamut e di avena con germe di grano». Il ristorante possiede un grande spazio esterno.

«La portata per cui molti vengono nel nostro ristorante – svela Nozza – è il nostro piatto unico: gli spaghetti allo scoglio. Buoni e golosi!». La proposta è ben descritta nel vasto menù alla carta, in cui è possibile scegliere tra piatti ricercati a base di pesce oppure carne. Il prezzo medio, bevande escluse, si aggira attorno ai 35-40 euro.

Proseguendo lungo la sponda ovest del fiume, si incontra Romano di Lombardia, caratterizzata dalla rocca viscontea in centro al paese, composta da quattro torri e un cortile interno. Prima utilizzata solo come struttura di difesa, poi adibita a scopo abitativo, è molto suggestiva, soprattutto di sera, grazie all’illuminazione esterna. All’interno del cortile invece riemergono alcuni affreschi, mentre la torre di sud-est porta la testimonianza del passaggio del Colleoni, che vi fece aprire una loggetta che conserva delle decorazioni geometriche realizzate ad affresco.

ROMANO hotel mariet (2)
Hotel Mariet – Romano di Lombardia

ROMANO hotel mariet (1) Dopo la visita alla rocca, una tappa all’Hotel “Mariet” è d’obbligo. L’hotel e il ristorante si trovano nel centro storico di Romano di Lombardia. «L’insegna deriva dal soprannome di mia bisnonna, la signora Mariet – spiega Andrea Giassi, attuale gestore – perché aveva vissuto come emigrante in Francia. Io sono arrivato qui dopo aver studiato alla scuola alberghiera e dopo alcuni anni di esperienza in giro per il mondo, lavorando come barman, poi in sala e in cucina. Per questo motivo, conoscendo bene tutto ciò che ruota attorno alla realtà ristorativa, coordino il ristorante dalla cucina alla sala». Il menu è basato sulla stagionalità delle materie prime e sull’utilizzo di alcuni prodotti considerati “fusion” come il miso, le alghe kombu, il mirin o il sake, senza però stravolgere la grande tradizione culinaria Italiana. Molti i piatti in carta, tutti da assaggiare, ma il consiglio di Andrea è di non perdere la tartare di ricciola con avogado, cipolla rossa e pomodoro e, successivamente, l’insalata di astice al vapore e salsa citronette. È possibile farsi guidare dal menù degustazione di carne oppure pesce a 35 euro, compresi i vini in abbinamento. Mentre il prezzo medio di una cena alla carta è di 65-70 euro.

TORRE PALLAVICINA Trattoria dell'Angelo (3)Ora ci si sposta ai confini della provincia di Bergamo, per arrivare a Torre Pallavicina, una zona agricola limitrofa alla sponda est del fiume Oglio. Il paese possiede un piccolo gioiello architettonico: il Palazzo Barbò, tutt’ora di proprietà dei Conti Barbò, costruito in seguito alla Pace di Lodi del 1453 tra il Ducato di Milano e la Repubblica Veneta. Il Palazzo è inserito in un parco immenso costellato da alberi secolari, silenziosi testimoni della storia di questi posti. Visitando il palazzo è facile lasciarsi affascinare dai bellissimi soffitti a cassettoni, dai preziosi affreschi e dai camini in marmo sparsi nelle numerose stanze e nei saloni.

TORRE PALLAVICINA Trattoria dell'Angelo (2)
Simona Consolandi e lo staff della Trattoria dell’Angelo

La storia e la tradizione di questa zona è facile percepirla anche alla “Trattoria dell’Angelo”, aperta da prima del 1865 e sempre gestita dalla famiglia di Simonetta Consolandi, che oggi porta avanti l’attività con l’aiuto del marito Andrea Bonetti e del figlio Claudio, entrambi al lavoro in cucina. «Qui cucinavano i piatti caserecci della tradizione rurale come i ravioli, preparati abitualmente a Ferragosto – afferma Simonetta – oppure il lesso o la gallina bollita. È possibile assaggiare dei salumi nostrani locali, prodotti e selezionati da noi, così come i formaggi». Un posto sincero, una vera trattoria, in cui ritrovare i sapori di casa, con i bolliti e gli stufati che, nel periodo estivo, lasciano il posto a piatti come le carni alla brace. Simona consiglia di non perdere i ravioli, preparati rigorosamente in casa con il ripieno di stufato. Nulla a che vedere con i classici casoncelli. È una ricetta tramandata di generazione in generazione, più simile al raviolo mantovano. Il prezzo medio per un pasto è va da 25 a 40 euro, in relazione alla scelta del vino.

Ritornando verso il fiume Serio, oltrepassandolo e risalendo verso la città, si raggiunge Cologno al Serio, con il suo borgo antico ricco di fascino. Stradine strette da percorrere a piedi, vicoli e scorci mozzafiato. La fortezza è stata ricostruita nel 1200 e attualmente è stata oggetto di un restauro conservativo. Il borgo antico è circondato dal fossato e dalle mura, dalle quattro torri e dalla rocca. Tutt’ora l’accesso è consentito attraverso i quattro portoni, non più muniti com’è ovvio che sia dal ponte levatoio. Internamente il castello ha perso le caratteristiche originarie, convertito attualmente in una struttura residenziale.

Cologno dista pochi chilometri di castelli di Brignano Gera d’Adda e di Pagazzano, anch’essi tappe del circuito delle “giornate aperte”. Dopo le visite a questi siti, una tappa consigliata è il “Convento dei Neveri” di Bariano, un’altra struttura storica che da poco più di sei anni è diventata un ristorante molto particolare. «I tavoli – chiarisce la signora Antonella, proprietaria e gestrice – sono disposti nelle vecchie cellette dei frati, abbiamo celle da 2 a 8 posti. Inoltre, c’è un soppalco e vi sono altre sale per l’accoglienza dei nostri ospiti». L’offerta del ristorante è di due tipologie: “Il Braciere”, in cui vengono servite principalmente carni alla brace, ma anche bruschette, taglieri e piatti della tradizione, preparati con cura e ricercatezza. «Nel convento – dice Antonella – diversi decenni fa c’era una signora che si chiamava Ninì che aveva una trattoria. Abbiamo voluto richiamare questa cosa, offrendo una cucina simile a quella delle vecchie osterie e trattorie». Il prezzo di un menù va da 30 a 50 euro.

BARIANO convento neveri
Convento dei Neveri – Bariano

“Il Ristorante” è caratterizzato invece da una cucina mediterranea che punta sulla stagionalità delle materie prime, sulle verdure fresche e su una proposta gastronomica orientata principalmente al pesce e ai prodotti ittici. Qui il prezzo è compreso tra 70 e 100 euro, con la possibilità di scegliere un menù degustazione da cinque portate a 60 euro e da sei portate a 75 euro.

Infine, risalendo ancora verso Bergamo, si incontra Urgnano che ospita il Castello Albani, nato strategicamente all’incontro di due importanti vie di comunicazione: la strada “Francesca”, proveniente da Milano verso Brescia, e la strada “Cremasca”, che unisce Bergamo e Crema. Un castello a pianta quadra e con le tipiche quattro torri, costruito interamente in cotto come vuole la tradizione viscontea. Al suo interno è possibile visitare il cortile e il giardino pensile, che contiene nove statue nane caricaturali, tipiche del grottesco del Settecento. Sono molti gli eventi organizzati nella rocca.

URGNANO Il frate (2)Per proseguire in bellezza, merita un pranzo o una cena al ristorante “Il Frate” di Urgnano: «È un ristorante storico ubicato nel centro del paese – esordisce Lorenza Sala – aperto dai miei genitori Elia e Mariuccia e io sto continuando questa attività. Mio padre faceva il fornaio, quindi ha iniziato con la pizzeria. All’epoca non ce n’erano molte, poi negli anni Ottanta abbiamo ristrutturato in modo importante il locale ed è diventato solo ristorante. Siamo conosciuti perché proponiamo una cucina tradizionale piacentina, viste le nostre origini». Pane e focacce sono fatte in casa, ma anche le paste fresche tipiche della tradizione emiliana. Dove mangiare dei buoni Pisarei e fasò? Questo è il posto giusto! Il prezzo per un pasto è di 35–50 euro.

Per le informazioni sui castelli e le iniziative www.bassabergamascaorientale.it


Tutte le forme del caprino

caprini Via Lattea

Ci sono caprini al naturale che conquistano per la loro semplicità; aromatizzati alle spezie che attirano per i loro colori vivaci; grana stagionati e blu di capra che colpiscono per l’odore pungente e il gusto deciso. E poi c’è la ricotta, delicata e pastosa al palato; la robiola, fresca e spalmabile; lo yogurt, dolce e digeribile. Insomma, elencarli tutti non è facile. Già, perché di prodotti realizzati con il latte di capra ne esistono almeno una trentina. Da sempre punta di diamante dei piemontesi e dei nostri cugini d’Oltralpe, anche nel massiccio delle Orobie i formaggi di capra vantano oggi una consolidata cultura casearia.

I nuovi allevamenti realizzati con le più moderne tecnologie garantiscono un alimento sicuro nel rispetto della tradizione. Inoltre, abitudini e stili di vita sempre più sani stanno orientando il mercato verso cibi di qualità a scapito della quantità. In Bergamasca non sono soltanto il Branzi o il Taleggio a farla da padrone ma anche stracchini, erborinati, formaggelle a pasta molle, tutti rigorosamente di capra. Per non parlare della Roviöla della Valle Brembana realizzata con latte di capra Orobica, una specie protetta che tuttavia continua a mantenere viva una produzione autoctona di formaggi. Merito di una quarantina di allevatori di Valsassina, Valtellina e Bergamasca che da anni lavora alacremente per tutelare questa biodiversità alimentare di qualità che dal 2015 è presidio Slow Food. In generale i più gettonati, soprattutto da bambini e anziani, restano i classici caprini freschi al naturale. Le nuove tendenze in fatto di cibo spingono molto anche sugli aperitivi finger food a base di chèvre, magari aromatizzati con erbe, spezie, frutta secca e persino petali di fiori. Ecco qualche consiglio su come orientarsi tra le ormai numerose tipologie di caprini presenti sul mercato.

FRESCHI E COLORATI

Per attirare la clientela molti produttori puntano su formaggi aromatizzati, gradevoli all’occhio oltre che al palato. E così sempre più spesso nelle piccole botteghe sotto casa spunta qualche caprino variopinto, con colori che vanno dal rosso al verde, passando attraverso un più sobrio nero carbone. Merito delle diverse spezie, dal peperoncino all’origano, con cui i produttori si dilettano a vestire i loro caprini freschi. Tra i più richiesti spiccano i finger food da aperitivo, gli aromatizzati con semi stagionati al carbone vegetale, oppure all’anice, alla paprika, allo zafferano o all’erba cipollina. «Il caprino è il più semplice da produrre – spiega Lorenzo Facchetti, cotitolare dell’azienda familiare Via Lattea di Brignano Gera d’Adda –, è un formaggio da spalmare sul pane, un companatico che molti accompagnano al prosciutto. Spesso però in passato era fatto con il latte di mucca. Nel boom economico era più comodo perché le mucche rendevano di più producendo una maggiore quantità di latte rispetto alla capra. Così, la produzione di formaggi caprini avveniva solo in aree altrimenti non sfruttabili. Solo quando gli allevatori di capre si sono resi conto che il mercato si era appropriato di un nome che non gli competeva si è cominciato a produrre veri e propri caprini con latte di capra».

«Al momento vanno molto i formaggi di capra freschi, colorati, raffinati e trasformati – evidenzia -. Prima mangiavamo per nutrirci, ora le persone sono più attente all’alimentazione, sono più sedentarie, necessitano di meno calorie ma di più qualità. Quindi anche un mercato di nicchia come quello della capra negli ultimi vent’anni è aumentato. Il Piemonte e la Francia hanno fatto da apripista, ma non è stato semplice. I bergamaschi sono un po’ chiusi, abitudinari, per loro il must è il Taleggio. Piano piano i palati orobici si sono raffinati. Certo è ancora difficile convincerli a provare formaggi di capra decisamente puzzolenti, magari meno appaganti dal punto di vista visivo ma più gustosi, come una chèvre semi stagionata o il blu di capra. Gli aromatizzati, invece, vanno per la maggiore perché il colore delle spezie aromatiche rende i caprini invitanti spingendo anche il cliente più scettico al primo assaggio».

I SAPORITI

Gusto pungente con punte piccanti, l’erborinato o blu di capra viene prodotto con lo stesso procedimento del gorgonzola. Tuttavia non è cremoso come il classico zola ma è più saporito. È ottimo accompagnato a miele di robinia o con un passito dolce e corposo. Un unico difetto: l’odore. Un dettaglio non da poco per uno zoccolo duro di bergamaschi che a questo tipo di formaggio proprio non riesce ad avvicinarsi: «La barriera più difficile da superare è il pregiudizio – spiega Chiara Cazzaniga che insieme al marito Alberto Gargani gestisce la Cascina Ombria di Caprino Bergamasco –. Tutti sono abituati al formaggio classico di mucca e quando sentono parlare di capra storcono il naso a prescindere. Si fanno influenzare anche dall’odore talvolta sgradevole che hanno questi prodotti. Quando si parla di formaggi genuini c’è ancora chi ha in mente la stalle puzzolenti di una volta. Oggi invece non è più così. Tutto viene prodotto con maggior attenzione alle regole sanitarie, ci sono più controlli e un’adeguata preparazione da parte dei produttori che si mantengono costantemente aggiornati attraverso i corsi. I bergamaschi dovrebbero quindi dimenticare i luoghi comuni anche perché ho notato che quando si decidono ad assaggiare il formaggio di capra ne rimangono piacevolmente colpiti e si ricredono». Molto saporito è anche il grana di capra. È un prodotto per estimatori sottoposto a una lunga stagionatura e per questo viene distribuito soprattutto nei periodi natalizi.

MISTO CAPRA-MUCCA

Formaggio orobico realizzato in modo artigianale nei pascoli d’alta quota, il Bitto storico è un presidio Slow Food. È prodotto con latte di vacca appena munto a cui va aggiunta una percentuale di latte caprino (dal 10 al 20%) ottenuto dalla capra Orobica. «Oggi le capre si alimentano nelle stalle con il fieno – racconta Marco Del Bono dell’azienda agricola Prat di Büs di Ardesio –, una volta invece pascolavano nei boschi e mangiavano foglie e germogli in montagna. Così il formaggio di capra aveva un gusto troppo intenso. Per questa ragione non si facevano formaggi di capra puri, si mischiava il latte vaccino. È il caso del Bitto la cui ricetta originale prevede un misto di latte di capra Orobica e mucca. Una nicchia apprezza e stima il formaggio di capra più saporito anche se in passato era considerato di seconda scelta. Oggi, invece, è molto ricercato anche perché non è un mercato saturo come quello della mucca. Gli allevatori di capre producono formaggi per sé o per qualche negozietto, difficilmente per la grande distribuzione. Questo perché la resa di un ovino è di gran lunga inferiore rispetto a quella di una mucca».

I PRESÍDI

I formaggi prodotti con latte di capra Orobica intero e crudo vengono suddivisi in: pasta cruda, semicotta, molle e semidura; formaggi grassi a stagionatura breve (freschi tre giorni e stracchini 15 giorni) e grassi a stagionatura medio-lunga (minimo 30 giorni per le formaggelle). Oltre al Bitto storico, che prevede l’utilizzo di latte di mucca con una percentuale di latte di capra Orobica, ci sono altri tre formaggi tipici ricavati dal latte crudo di questo animale. C’è il Formagìn della Valsassina, un caprino fresco presente anche nella variante a crosta fiorita detto “Fiorone” il cui sapore, molto più intenso e piccante, richiama l’aroma dei funghi freschi. La formaggella di capra Orobica, invece, è chiamata Matüscin ed è prodotta solo nelle province di Bergamo, Sondrio e Lecco. Si distingue dai caprini della Bergamasca realizzati con il latte di qualsiasi tipologia di capra ed è tutelata dal marchio di garanzia della Camera di Commercio “Bergamo Città dei Mille sapori”. Infine c’è la Roviöla della Valle Brembana, uno stracchino che ha forma di parallelepipedo con faccia quadrata.

I ritrovamenti archeologici dimostrano che l’allevamento di capre era già praticato sulle Orobie intorno al 7000 a.C. Alla fine del Settecento, però, con lo sviluppo industriale si creò un conflitto tra l’allevamento di ovini e l’utilizzo di boschi per fare legna da carbonella per le aziende. Ma la capra Orobica a pelo folto e corna lunghe riuscì a sopravvivere alla cosiddetta “guerra delle capre”. Oggi di questi esemplari in via di estinzione ne sono rimasti poco più di 2.000. E proprio per tutelare questa specie, nel 2015 è nata l’associazione capra Orobica composta da una quarantina di allevatori di Valsassina, Valtellina e Bergamasca: «L’abbandono del territorio montano e la scarsa produzione di latte hanno contribuito a rendere la capra Orobica una razza in via d’estinzione – spiega il presidente Ferdinando Quarteroni, titolare dell’Agriturismo Ferdy di Lenna –. Lo scorso anno abbiamo quindi cercato di riunire all’interno di un’unica associazione i pochi produttori di capra Orobica che fanno parte del massiccio delle Orobie. La nostra speranza è quella di far conoscere questo animale e motivare i giovani ad allevarla in modo professionale. È una produzione di nicchia che tuttavia deve destare interesse anche in un mondo globalizzato. La capra pascola, mangia l’erba in zone non contaminate, fa formaggi sani ricchi di Omega 3. La sopravvivenza di questa razza è fondamentale per le aree montane con pendii molto impervi. La sua grande capacità di pascolare nelle zone più difficili da raggiungere permette di mantenere e sfruttare ettari di pascolo tutt’oggi inutilizzati».

IL LATO DOLCE

Se trasformato in formaggio stagionato ha un gusto deciso, ma sotto forma di yogurt o gelato il latte di capra assume un’inedita dolcezza adatta anche a chi è intollerante al lattosio o è attento alla linea. «Il latte di capra è più digeribile ed è quindi un prodotto ideale per chi soffre di intolleranze – ricorda Paola Peracchi dell’azienda agricola a gestione familiare Il Faggio di Albino –. Il gelato di capra non è più magro di quello di mucca, ha solo un tasso di colesterolo più contenuto e quindi risulta migliore dal punto di vista dietetico. La base è la stessa del gelato tradizionale. Gli ingredienti principali sono latte e panna di capra a cui si aggiungono i gusti più svariati lasciando libero spazio alla fantasia: lamponi, more, cioccolato, nocciola, insomma tutto. Il gelato di capra in generale è apprezzato. È molto richiesto nelle fiere soprattutto quella di Sant’Alessandro che si tiene a settembre a Bergamo oppure alla mostra zootecnica di Clusone».

IN TAVOLA

I caprini freschi si possono utilizzare come ingredienti per mousse, ripieni per ravioli, torte salate, gnocchi, crespelle e salse per carni bianche o rosse. La chèvre è ottima scaldata nel forno su un crostino di pane e una spolverata di rosmarino. C’è anche chi, con il caprino fresco, realizza salse aromatiche da accostare al pesce d’acqua dolce. Se invece preferite gustare appieno il sapore rotondo e appagante di questi formaggi è bene accompagnarli con miele e confetture, come spiega Sante Roberto Tessarolo, titolare dell’azienda agricola Al Maso di Camerata Cornello: «Tanti sono gli accostamenti che si possono ipotizzare. Il caprino, per esempio, è ottimo con un confettura di cipolla oppure di lamponi. Una marmellata mora e menta oppure una salvia e limone sono più sgrassanti quindi meglio con prodotti leggermente più grassi. Sui formaggi più saporiti sta bene una giardiniera, oppure consiglierei confetture agrodolci come la mela passata in grappa e miele. Una confettura di pera e cannella o quella di prugna e zenzero sono invece perfette con la robiola. Infine il miele, è ottimo con il blu di capra, un formaggio molto saporito simile al gorgonzola, che però ha un odore più intenso ed è solo per estimatori. In questo caso consiglio il tarassaco oppure il miele aromatizzato con mele o castagne affumicate».

GLI ESTROSI

Si chiama “Formaggio della sposa” e al suo interno contiene una moneta dorata fatta di zafferano. È l’ultima trovata in fatto di formaggi di capra partorita dal caseificio Via Lattea e che verrà messa in vendita proprio a partire dal mese di maggio. L’idea si ispira a un’antica tradizione che, attraverso l’uso di una moneta d’oro, augurava ricchezza e prosperità alla sposa. L’allevamento di Brignano Gera d’Adda sa come stupire i propri clienti. Già a San Valentino aveva infatti dedicato a tutti gli innamorati un formaggio a pasta molle a forma di cuore con un ripieno di caprino fresco ai frutti di bosco. Per non parlare delle perle di formaggio in crosta di cioccolato bianco. Anche Paola Peracchi, nel suo agriturismo Il Faggio di Albino, ogni giorno cerca di creare nuovi combinazioni, dai caprini con noci, erba cipollina e paprika al fagottino con fontanella di capra e asparagi. Particolari anche i caprini stagionati di Cascina Ombria soprattutto quelli avvolti nelle foglie di castagno, di radicchio e di porri, oppure aromatizzati alla birra, al sale e pepe o alle nocciole e uvetta.

Capre


«Vi racconto cosa significa lavorare in un ristorante stellato»

Aimo e Nadia è uno di quegli indirizzi dai quali non si può prescindere se si vuole entrare in contatto con la storia della ristorazione italiana. Perfino oggi che Aimo ha superato gli ottanta anni di età, che si mostra un po’ meno nel ristorante ed ha passato il timone di comando a una formidabile coppia di giovani e brillanti cuochi, capaci idealmente (e non solo) di unire a tavola l’intera penisola, visto che Alessandro Negrini è un valtellinese Doc, mentre Fabio Pisani arriva dalla lontana Puglia.

Uno degli aspetti più sorprendenti di questo inevitabile avvicendamento nel locale di via Montecuccoli a Milano è stato certamente l’approccio soft, da parte del duo Negrini/Pisani, e la volontà di mantenere lo stile e l’impronta tradizionale della cucina storica, pur con interessanti accorgimenti che hanno saputo portare il ristorante verso uno stile più moderno e lineare. Anche quando si è trattato di presentare i classici della casa o, invece, di stimolare la curiosità del cliente verso nuovi prodotti e delizie del Bel Paese.

L’esperienza a tavola qui diventa un vero e proprio Gran Tour italiano come dicono delizie quali la cicerchia, i calamaretti spillo, i mandarini di Calabria o il bergamotto che spuntano puntualmente dal menù. In attesa di scoprire quali saranno le novità che riguardano Aimo e Nadia per le prossime stagioni, visto che si parla di un restyling della sala e di un dehors esterno tutto ancora da realizzare, abbiamo incontrato uno dei due cuochi, Alessandro Negrini, per capire, tra le altre cose, dove sta andando la cucina italiana e come lavorano ai fornelli i giovani che escono dalle scuole alberghiere. Un discorso curiosamente affrontato proprio nel momento stesso in cui dalla porta d’ingresso del locale faceva capolino un cinese di quindici anni che, prendendo a due mani il coraggio, ha chiesto ai due cuochi di poter fare uno stage presso il ristorante.

Cosa sta accadendo di questi tempi nei ristoranti? Quali sono i trend del momento, le principali novità e cosa chiedono i clienti?

«Non è difficile da dire. Perché se vogliamo è anche quello che ci aspettiamo quando varchiamo la soglia di un ristorante. Si tratta dell’emozione, della capacità di trasmettere attraverso il cibo un’immagine, una persona, un luogo, un pensiero felice. In fin dei conti sono quelle stesse sensazioni che noi abbiamo codificato nel tempo e nella nostra memoria gustativa e che ci piace poi ritrovare nel piatto. Anche per questo la storia e la tradizione qui da Aimo e Nadia sono un valore imprescindibile. Se invece si vuole fare il gioco di quale potrebbe essere l’ingrediente più in voga per il 2016, io dico che saranno le cozze. E in realtà non è un’ affermazione dettata da certezze incrollabili, se non per il fatto che le vedo sempre più presenti in molti menù. Poi sai, tutto accade ciclicamente e come la vita anche la cucina è una ruota che gira. Non dimentichiamo il successo che, ad esempio, hanno avuto le acciughe o l’aceto balsamico nel recente passato».

Da parte del cliente c’è anche un approccio più salutista e attento verso quello che si mangia?

«Sicuramente, e non è una questione di opportunità da parte del ristoratore, come molti pensano. In realtà le porzioni nel corso degli anni sono decisamente diminuite ed è un dato di fatto che chi si siede al tavolo fa fatica a mangiare in quantità. Non a caso si tende a star meno seduti al ristorante rispetto a un tempo».

Veniamo a un tasto che in Italia a volte è dolente, quello della formazione dei giovani che escono dalle scuole e vengono catapultati nelle cucine.

«Come sempre in questi casi, conta molto la provenienza del giovane. Ci sono scuole che lavorano bene e altre meno bene. In realtà andrebbe fatta una rigorosa selezione già all’ingresso delle scuole, per scremare chi vede la professione come un bel gioco del momento, grazie anche al successo mediatico di tutto ciò che riguarda il food. In questo modo avremmo dei giovani vogliosi e pronti ad affrontare nel migliore dei modi il mondo del lavoro. Poi c’è da dire che non tutti gli istituti alberghieri possono contare su insegnanti validi e che fanno loro stessi una continua formazione e si aggiornano sulle novità della ristorazione; e questo è un grandissimo problema. Infine manca il lato pratico delle scuole alberghiere, un po’ per questione di investimenti è un po’ perché queste istituzioni sono spesso mosse da meccanismi burocratici che non aiutano. Così il giovane si ritrova da un giorno all’altro a passare dal lato teorico della cucina a quello pratico, con gravi difficoltà. In un mondo che, in qualche modo, è un po’ militaresco».

Da Aimo e Nadia cosa chiedete ai giovani che bussano alla vostra porta?

«Innanzitutto la serietà. Poi un pizzico di curiosità ma sempre restando fermi al proprio ruolo. Negli ultimi anni ho visto troppo spesso da parte di giovani di talento perdere il senso delle proporzioni, voler a tutti i costi correre verso il futuro, quando invece andrebbe prima studiato e conosciuto meglio il passato. C’è sempre la tendenza a voler fare i fenomeni e a non restare umili. Invece se c’è una cosa che ci insegna la cucina di Aimo è l’assoluta grandezza della cucina di tradizione, dell’italianità, di un pensiero genuino da diffondere e interpretare in modo da incuriosire anche le nuove generazioni di clienti che magari si affacciano per la prima volta alla grande ristorazione».

Qual è il lavoro fondamentale per un ristorante che, come Aimo e Nadia, vanta due stelle Michelin?

«Innanzitutto l’accoglienza e l’attenzione per il cliente che deve vivere i suoi momenti nel ristorante come un’esperienza unica. Poi c’è anche la creatività della cucina, ma senza lasciarsi prendere la mano. Altrimenti ci si perde. Invece, la costanza, il rigore, la serietà, la passione permettono di durare più a lungo. Il progetto è sempre quello di migliorarsi, di avvicinare clienti nuovi».

Una bella sfida per due cuochi così diversi per provenienza e background…

«Sì, ma io e Fabio in qualche modo ci completiamo a vicenda. È sempre stimolante e divertente questo dualismo nord/sud che si avverte in cucina anche se poi per entrambi la missione è quella di preservare il gusto primario e il “bambino” creato da Aimo. Con l’idea di riattivare la memoria gustativa attraverso piatti in parte nuovi. Noi percepiamo Il Luogo di Aimo e Nadia come un ristorante che ha una sua forza essenziale e in fin dei conti non ci sentiamo dei traghettatori. Infatti i clienti storici continuano a tornare e a rivivere certe sensazioni. Per assurdo, un giorno io e Fabio potremmo perfino non essere più in cucina, eppure il ristorante continuerebbe a vivere da protagonista».

Non a caso molti sono piatti della memoria…

«Certo, basti pensare alla Zuppa etrusca, con verdure dell’orto, legumi e farro della Garfagnana alle erbe aromatiche e fiori di finocchio selvatico. Con tutte le verdure che vengono cotte separatamente e assemblate solo all’ultimo. Oppure gli Spaghetti al cipollotto fresco e peperoncino, che risale, nella sua prima versione, all’anno 1965. E in mezzo a tutto questa storia c’è anche qualche tocco di Valtellina e di Puglia. Il ricordo delle mie valli lo si incontra subito a inizio pasto, visto che utilizzo il grano saraceno in una cialda croccante con burro e arancia, mentre il sud esce con tutta la sua prepotenza nella Cicerchia con marasciulo, lampascioni e olive, oppure nel raviolo di baccalà con pasta di pane di Matera».


Dal cibo alle stoviglie, anche a Bergamo la tavola si colora di viola

Quest’anno sulle tavole dei bergamaschi trionferà il viola. La nuova tendenza in fatto di cibi si chiama “Purple food” e arriva direttamente dall’Inghilterra dove già nel 2015 si è registrato un aumento del 10% nelle vendite di frutta e verdura con sfumature dal violetto al porpora. Non solo radicchio, melanzane e barbabietole ma anche broccoli, patate e persino carote viola si sono insinuate nella carta di moltissimi ristoranti orobici. Merito delle loro molteplici proprietà benefiche. I cibi che contengono questo pigmento – nato dall’unione virtuosa dei colori primari blu e rosso – sono infatti potenti antiossidanti, aiutano a combattere le malattie cardiovascolari, a prevenire il cancro e l’invecchiamento. Un vero toccasana, insomma. E in un’epoca in cui l’attitudine vegana-salutista va tanto di moda, anche gli chef di casa nostra si stanno scervellando per rendere questi ortaggi sempre più appetibili. Così anche frutti non propriamente amati dai più schizzinosi come prugne, bacche di sambuco e cavoli si sono trasformati in inedite delizie. I primi a lanciare il trend del “purple food” sono stati Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi che nel sontuoso menù del loro matrimonio hanno inserito una sella di capriolo alle bietole, con dressing di nocciole e gocce di ribes realizzata da Norbert Niederkofler. Lo stesso chef pluristellato che lo scorso autunno ha mandato in estasi i palati sopraffini del ristorante Da Vittorio con i suoi gnocchi alla rapa rossa, durante una serata benefica organizzata al noto locale di Brusaporto dei Cerea.

«Quest’anno dovrò cominciare a coltivare qualche cavolo nero e viola in più – conferma Martino Bonacina che, insieme al fratello Giancarlo, gestisce un’azienda agricola in via San Martino della Pigrizia sui Colli di Bergamo –. Per il momento si tratta ancora di prodotti di nicchia, tuttavia i bergamaschi stanno imparando a conoscerli e a richiederli. Merito, o colpa, della Clerici che nel suo programma “La prova del cuoco” propone spesso ricette con ortaggi alternativi». Fabio Eustachio dell’Orticola Eustachio di Levate, invece, preferisce la tradizione: «Che finiscano in tavola o vengano utilizzati con finalità ornamentali, gli ortaggi viola o blu ultimamente vanno molto. Attirano l’attenzione per il loro colore ma il sapore è più o meno lo stesso di quelli classici. Io personalmente preferisco non seguire mode che poi tramontano».

Forma oblunga, buccia spessa di colore scuro e polpa viola intenso, le patate Vitelotte sono soprannominate “viole del benessere” proprio per la loro ricca concentrazione di antocianine e antiossidanti. Questi tuberi, diventati un marchio di fabbrica dell’azienda agricola Gatti di Martinengo, sono particolarmente indicati per la preparazione di piatti di grande effetto. Se fritte, le vitelotte si mantengono viola, mentre lessate danno un purè di una insolita tonalità azzurrina. È possibile assaggiarle al ristorante Carroponte di Bergamo dove lo chef Alan Foglieni ama abbinarle, morbide e croccanti, al polpo arrostito oppure, sotto forma di chips, insieme alla tartare di salmone.

Da qualche tempo, accanto alle familiari carote arancioni che, con la loro tonalità brillante spiccano da sempre tra i bancali del supermercato, sono disponibili anche varietà viola intenso, quasi nere. Nel 16esimo secolo questa specie era molto diffusa. Con gli anni, però, è sparita dalle tavole occidentali ed è stata relegata a mangime per animali. In un’epoca in cui la curiosità per le biodiversità si riaccende, anche la carota viola è tornata a farsi viva. Ne sa qualcosa il ristorante Cece e Simo di via IV novembre a Bergamo che propone un intrigante risotto alla carota viola con cuori eduli al profumo di lime.

E a proposito di viola, c’è chi usa la lavanda non solo per profumare armadi e decorare la casa, ma anche come ingrediente per pasta e dolci. È il caso della Bottega della Lavanda di via San Lorenzo, in Città alta, che oltre a creme per il corpo, detergenti e servizi di tazzine lillà vende barattoli di miele, muffin ma anche maltagliati, fettuccine e strozzapreti, tutti rigorosamente aromatizzati con una delicata essenza alla lavanda. In tema di pasta, il purple food ha contagiato anche l’agriturismo Polisena di Pontida, dove si mangiano i tagliolini viola di bietola al ragù d’agnello, mentre l’osteria La Trisa di Valmaggiore propone nel suo menù le penne al farro con verze viola, salsiccia e scaglie di bagoss.

Gettonatissimi anche i frutti di bosco: da segnalare il risotto mirtilli e funghi porcini servito in alcuni locali di Città alta tra cui la Dispensa di Arlecchino e il ristorante San Vigilio. Quest’ultimo offre, in alternativa, anche un risotto mantecato alle fragole con carpaccio di spada affumicato.

Per gustare al meglio queste leccornie tra le mura domestiche, durante un allegro pranzo in famiglia o un tè con le amiche, anche la tavola dev’essere in tinta. E allora via libera a decorazioni, dettagli, stoviglie e fiori porpora. Basta dare un’occhiata al catalogo della TreP di Osio Sotto per scoprire un universo di accessori per la casa, tutti in tema con la moda del momento. Non solo piatti e bicchieri con delicate violette disegnate su sfondo bianco ma anche posate, salini e persino caffettiere color viola. Insomma, tante combinazioni per una tinta che, con il suo nome poetico, celebra un delicatissimo fiore.

 

 


Cacciagione, un mese di proposte nei ristoranti bergamaschi

Per gli amanti della selvaggina e dei sapori di terra torna la rassegna “Caccia in cucina”, organizzata dall’Ascom di Bergamo e dall’Anuu (associazione di cacciatori che a livello provinciale conta più di 5.000 iscritti) in collaborazione con il Consorzio di Tutela del Valcalepio e giunta alle 14esima edizione. Per un mese, dal 20 febbraio al 20 marzo, 26 ristoranti (2 in città e 24 in provincia) propongono nel proprio menù piatti a base di cacciagione con l’obiettivo di valorizzare una tradizione culinaria diffusa sul territorio.

La manifestazioncaccia in cucina - logoe, che negli anni scorsi aveva respiro regionale e si svolgeva in diverse province lombarde, quest’anno, complici le difficoltà delle Amministrazioni provinciali nel garantire il sostegno, viene portata avanti solo in Bergamasca, dove ha sempre riscosso grande successo in termini di adesioni e gradimento.

Rispetto al passato ci sarà più tempo per gustare le diverse proposte, l’iniziativa dura infatti un mese, anziché una settimana, in tutti i locali. La mappa è ampia e va dalla montagna alla pianura al lago, senza dimenticare la città e l’hinterland. Anche i piatti spaziano e interpretano le diverse carni in abbinamenti e cotture classiche o innovative. Alcuni ristoratori hanno anche scelto di condividere le proprie ricette con gli appassionati, che potranno trovarle pubblicate sulla rivista dell’Anuu.

I locali aderenti

  • BERGAMO
Ristorante Il Circolino – vicolo S. Agata 19 – tel. 035 218568

Pasta fresca al ragù di lepre; Stufato di cinghiale con polenta (fino all’8 marzo)

Ristorante Ol Giopì e la Margì – via Borgo Palazzo 25/g – tel. 035 242366 (chiuso il lunedì)

Trofiette alla lepre tartufate; Cosciotti di cervo al Valcalepio

  • ALBINO
Ristorante Isola Zio Bruno – via Serio 24 – tel. 035 751687 (chiuso il lunedì)

Risotto con pernice al profumo di tartufo; Stufato di capriolo al Valcalepio

  • ALZANO LOMBARDO
Trattoria del Brugo – località Burro snc – tel. 327 503032

Tortelli al cinghiale in salsa di verdure brasate; Bocconcini di cervo in salmì con polenta “rustida”

  • AMBIVERE
Trattoria Visconti – via A. De Gasperi 12 – tel. 035 908153 (chiuso il martedì e mercoledì)

Pappardelle al ragù di fagiano; Polenta con cinghiale

  • BOTTANUCO
Ristorante Villa Cavour – via Cavour 49 – tel. 035 907242 (chiuso la domenica sera)

Terrina di fagiano con misticanza e aceto di mele; Lepre in salmì con polenta

  • BRANZI
Ristorante Corona – via San Rocco 8 – tel. 0345 71042 (chiuso il martedì e mercoledì)

Tortelli di selvaggina ai mirtilli; Polenta taragna con capriolo in salmì e cervo alle erbe alpine

  • CAPRIATE SAN GERVASIO
Osteria Da Mualdo – via Privata Crespi 6 – Frazione Crespi – tel. 02 90937077 (chiuso la domenica sera e il lunedì)

Bottoni di pasta fresca ripieni al cinghiale selvatico, bietola appassita, Strachitunt fondente e melograno; La quaglia: coscette brasate lentamente con polenta rustica e petto arrostito, servito con zucca e sedano appena cotto allo zafferano

  • CASTIONE DELLA PRESOLANA
Ristorante La Teglia – via Papa Giovanni XXIII 20 (chiuso il martedì)

Capriolo in salmì; Filetto di cervo al vino rosso; Cinghiale in umido

  • FINO DEL MONTE
Ristorante Garden Hotel – via Papa Giovanni XXIII 1 – tel. 0346 72369 (chiuso il lunedì)

Lasagnette al salmì di lepre con formaggio piccante; Petto d’anatra con mele caramellate e uvetta

  • FORESTO SPARSO
Ristorante Il Platano da Gira – via Franzi 5 – tel. 035 930118 (chiuso martedì sera e mercoledì)

Farfalle al ragù di lepre

  • GAVERINA
Ristorante K2 – Località Moletti 1 – tel. 035 814262 (chiuso il lunedì)

Cucina casereccia e pasta fresca con cacciagione

  • GRUMELLO DEL MONTE
Ristorante da Ubaldo – via Fontana Santa snc –tel. 035 830243 (chiuso il sabato a pranzo)

Gnocchi di polenta con ragù di selvaggina; Stracotto di cinghiale con polenta di Rovetta

  • MAPELLO
Trattoria Bolognini – via Divisione Alpina Tridentina 11 – tel. 035 908173 (chiuso il martedì)

Tagliatelle con la lepre; Bocconi di cinghiale al rosmarino

  • PIAZZATORRE
Albergo Ristorante Piazzatorre – via Centro 21 – tel. 0345 85033 (chiuso il mercoledì)

Pappardella fresca all’uovo con ragù di camoscio; Sminuzzato di cervo alle erbe di montagna

  • PONTERANICA
Ristorante da Tandy – via 8 marzo 15 – tel. 035 5292072 (chiuso il mercoledì)

Risotto alla fagianella e timo limonato; Bocconcini di capriolo al cioccolato amaro e composta di mirtilli

Trattoria Del Moro – via Castello 42 – tel. 035 573383 (chiuso il lunedì)

Foiade al sugo di lepre; Polentina con cinghiale e verdurine

  • RIVA DI SOLTO
Ristorante Bellavista – via Gargarino 23 – tel. 035 986034 (chiuso il martedì)

Cinghiale con polenta

  • SCHILPARIO
Hotel Ristorante S. Marco – via Pradella 3 – tel. 0346 55024 (chiuso il lunedì)

Le Pappardelle fresche al nostro ragù di cinghiale al coltello; I Bocconcini di cervo stufati alle bacche di ginepro e polenta grezza

  • SERIATE
Ristorante Al Centro – corso Roma 1 – tel. 035 4235467 (aperto venerdì, sabato e domenica sera)

Tagliatelle di castagne e ragù di cinghiale; Polenta taragna con bocconcino di cervo

  • SERINA
Ristorante La Fenice – via Dante Alighieri, 14 – tel. 0345.66315

Bocconcini di cervo panna e noci; Ravioli di cinghiale con stufato di cipolle

  • SPINONE AL LAGO
Ristorante Da Pacio – via G. Verdi 5 – tel. 035 810037 (chiuso le sere di martedì e mercoledì)

Tris di selvaggina con polenta taragna; Cervo, canguro, antilope, cinghiale

  • TRESCORE BALNEARIO
Ristorante della Torre – piazza Cavour 26/28 – tel. 035 941365 (chiuso domenica sera e lunedì)

Terrina di fagianella ai profumi del bosco in pasta sfoglia su Porto rosso ristretto; Costoletta di cervo alla Maria Stuarda con spuma di castagne e topinambur

  • URGNANO
Ristorante Quadrifoglio – via D. Alighieri 780 – Fraz. Basella tel. 035 894696

Tagliatelle di pasta fresca al salmì di lepre; Polpa scelta di cinghiale con funghi porcini e polenta

  • VILLONGO
Ristorante Cadei – via Roma 9 – tel. 035 927565 (chiuso il lunedì e martedì sera)

Brasato di cinghiale con polenta; Bocconcini di cervo alla boscaiola

  • ZOGNO
Ristorante Da Gianni – via Tiolo 37 – tel. 0345 91093 (chiuso il lunedì)

Polenta taragna con bocconcini di cervo


Claudia, la regina delle formaggelle col computer in stalla

C’è la tradizione e c’è l’innovazione: non sempre queste due componenti fondamentali riescono ad andare d’accordo, specie in agricoltura: Claudia Riccardi di Gromo non solo è riuscita in questa quadratura del cerchio, ma l’aiuto della tecnologia ha contribuito ad elevare la qualità dei suoi formaggi.

Ormai nel paese seriano dove è nata e dove ha sede l’azienda agricola che porta avanti con i fratelli Angelo e Giovanni, Claudia tutti la riconoscono come colei che “ha portato il computer in stalla”. In effetti, pur non amando questa etichetta-tecno, Claudia mostra di saper stare al passo con i tempi e non si sposta mai senza il suo pc, anche quando produce le sue quattro tipologie di formaggio molto richieste («Meglio farne poche, ma bene, mi ha insegnato un vecchio casaro»): la formaggella che l’ha resa famosa per i premi vinti (con pasta semicotta da latte crudo di due mungiture); lo stracchino a pasta cruda d’alpeggio tipico della Bergamasca; il formaggio di monte a pasta semicotta e il primosale, fresco, leggerissimo, all’occorrenza anche erborinato.

Claudia, quando è nata la sua passione per il formaggio?

Claudia Riccardi - casara - Gromo«Essendo nata in una famiglia di agricoltori di montagna, dove l’amore, la dedizione e lo spirito disacrificio per il proprio lavoro sono i valori fondamentali, fare il formaggio è stato uno sbocco naturale. Produrlo in montagna e venderlo direttamente al consumatore è l’unico modo per mantenere in vita micro-imprese come la mia in un contesto avverso, sia per la globalizzazione dei mercati sia per le condizioni molto svantaggiate rispetto a chi lavora in pianura».

La vita di una casara è diversa da quella dei suoi coetanei? Trova il tempo per divertirsi, andare in giro con amici, in vacanza?

«Prima di essere casara sono un’imprenditrice agricola: essere titolare di una piccola impresa comporta tanti impegni e responsabilità. Essere bravi casari non basta in una azienda come la mia, bisogna saper far quadrare i conti, essere dei buoni venditori del proprio prodotto e avere competenze su materie burocratiche e fiscali. Ciò non toglie che si possa avere una vita sociale simile a quella dei propri coetanei».

La definiscono un po’ casara hi-tech, perché si fa aiutare dalla tecnologia. Come questa può incidere nel suo lavoro?

«Essere definita così è un po’ strano, perché il mio lavoro richiede soprattutto manualità ed esperienza: è un’arte antica e cerco di farlo rispettandone le tradizioni. Certo, poi c’è la tecnologia moderna e io utilizzo sempre il Pc, per la gestione economica ed amministrativa della mia azienda. La rete offre opportunità di conoscenze ed informazioni indispensabili per qualsiasi realtà; inoltre consente di aprire nuovi orizzonti, conoscere realtà diverse e potersi confrontare».

Ci racconta la sua giornata tipo?

«Sveglia alle 6,30, alle 7 sono in caseificio dove arriva il latte appena munto direttamente dalla stalla (gli animali sono seguiti da due miei fratelli, contitolari dell’azienda). Il latte viene messo nella caldaia e incomincia la caseificazione. Finita la lavorazione del latte, pulizia delle attrezzature e dei locali; prosegue poi con il locale di stagionatura, salatura, con rivoltamento delle forme. Cambio i teli di asciugatura, spazzolatura dei formaggi già stagionati, pulizia locale e bucato. Alle 8 apro lo spaccio attiguo al caseificio per la vendita diretta al consumatore dei miei prodotti. Settimanalmente trascorro una buona parte del mio tempo negli uffici Coldiretti, Asl, posta, banca, per pratiche burocratiche. Quando produco lo stracchino, la caseificazione avviene anche la sera, perché è un formaggio fatto con il latte appena munto. Questo impiega almeno due ore, dalle 18 alle 20. Poi finalmente posso rilassarmi».

Lei è ritenuta soprattutto la “regina delle formaggelle”, peraltro un prodotto molto inflazionato, presente quasi in ogni valle: cos’è che può distinguerla e farle veramente fare il salto di qualità?

«La differenza la fanno la capacità del produttore e la volontà del consumatore di non fermarsi al primo prodotto che trova. Se quest’ultimo non si accontenta e vuole conoscere la provenienza del prodotto, chi lo produce, come lo produce, come vengono nutriti e trattati gli animali, avrà tutti gli elementi necessari a valutarne le qualità. Il produttore, da parte sua, deve garantire la salubrità e la genuinità del prodotto venduto».

Di quali premi vinti lei va più orgogliosa?

«Un po’ tutti. Nel paese in cui vivo, a inizio estate viene organizzata la sagra “Gromo sempre in forma” con il concorso per la miglior formaggella. Diciamo che una grande emozione l’ho provata nella prima edizione del 2011 quando ho vinto il secondo e terzo premio con due formaggelle di diversa stagionatura. Nel 2012 ho migliorato ancora, vincendo il primo e il secondo premio sempre con due formaggelle, una di 30 giorni e una di 90. Nel 2014 ho vinto il primo premio con una formaggella di 30 giorni. Nel 2015 ho vinto il secondo premio per la formaggella e il secondo per lo stracchino».

Quando i produttori uomini si vedono superare nei concorsi da una giovane casara donna, cosa nutrono: invidia o ammirazione?

«Spero ammirazione. Personalmente non ho mai nutrito invidia verso bravi casari: anzi, ho sempre cercato di imparare soprattutto dagli anziani con tanta esperienza e tradizione. Peraltro, quando frequentavo il corso di casaro, il mio insegnante mi consigliò di imparare a fare pochi prodotti, ma di farli bene, soprattutto prodotti locali. Ho sempre seguito questo consiglio e mi sono resa conto che aveva perfettamente ragione: oggi in tanti richiedono i miei prodotto e questo mi riempie di soddisfazione».


Sommelier Ais, il tesserato numero uno si racconta

jean valenti - ritA Jean Valenti sono servite 76 pagine di un elegante libretto per scrivere l’autobiografia. Difficile quindi condensare la fitta serie di aneddoti, episodi, avventure persino, oltre che l’intensa storia professionale. Ma ci si può provare, cominciando dalla presentazione, che può sembrare ad effetto e invece altro non è che la semplice realtà: Jean Valenti è il numero uno dei sommelier. Sua infatti è la tessera numero uno dell’Ais, l’Associazione Italiana Sommelier, di cui è stato cofondatore a Milano insieme a Giancarlo Botti, al commercialista Leonardo Gerra ed al sommelier Ernesto Rossi. «Era il 7 luglio del 1965 – racconta Valenti con estrema lucidità dall’alto dei suoi 93 anni compiuti – ed avevamo lavorato più di un anno per dare il nome all’associazione. C’era stato chi aveva suggerito coppieri, chi aveva proposto cantinieri e poi il vocabolo sommelier ha finito per convincere di più, per la sua valenza internazionale. Il primo congresso dell’Ais si svolse nel 1967 e fu l’evento che segnò l’affermazione definitiva dell’associazione».

tessera Ais - n.1Ma a livello istituzionale l’attività di Jean Valenti non si è fermata qui. Nel 1969 infatti, raccogliendo l’invito del marchese d’Aulan, rampollo di una nobile famiglia proprietaria dello Champagne Piper-Heidsieck, è stato tra i cofondatori de l’Association de la Sommellerie International (Asi) nata a Reims il 4 giugno. «In quanto segretario generale dell’Ais ero anche delegato ai rapporti internazionali – ricorda – ed ebbi modo di incontrare sommelier francesi, inglesi, portoghesi e belgi. L’Asi si proponeva di consigliare ed aiutare gli altri Paesi di entrare a far parte della sommellerie internazionale fornendo adeguati supporti, soprattutto ai giovani».

La vita e la professione l’hanno portato in giro per il mondo, ma questo pioniere dell’associazionismo enoico, che oggi risiede in Brianza, ha anche un legame speciale con Bergamo. «Sono nato a Casazza per caso, il 25 aprile del 1922, ma la stirpe è bergamasca», precisa. Il papà Francesco, originario di Casazza appunto, era emigrato nell’hinterland parigino e per un lungo periodo aveva avuto un’azienda di coltivazione di funghi champignon che funzionava bene ed aveva una ventina di dipendenti, quasi tutti bergamaschi. La mamma, Josephine Zinetti, anch’ella di origini italo-francesi, quando era in attesa del piccolo Jean era stata consigliata di recarsi a Casazza, dove risiedevano ancora dei parenti, per riposarsi. Ma Jean aveva fretta e nacque prima del previsto.

Un socio acquisito da poco fece poi fallire l’attività paterna e questo cambiò, in senso professionale, il destino di Jean che i genitori vedevano già nelle vesti di avvocato. All’età di 17 anni la necessità di mettersi al lavoro gli offre il primo contatto con il vino. In realtà non si trattava di un lavoro molto qualificato: cavista o cantiniere si potrebbe tradurre. Il ristorante era il Grand Veneur a Barbizon nei pressi della foresta di Fontainebleau, luogo di caccia dei reali francesi. Il compito di Jean era quello di lavare, etichettare di nuovo e tappare le bottiglie che venivano riempite con vino prelevato dalle barrique che provenivano da quasi tutte le regioni francesi. Solo i grandi Borgogna, Bordeaux e Champagne venivano venduti già imbottigliati. Per quanto umile fosse la professione, Jean impara a conservare le bottiglie, a distinguere pregi e difetti del vino e a scegliere i tappi di sughero giusti.

Ed è a questo punto che le vicende della seconda guerra mondiale si intersecano con la sua vita, con elementi di grande drammaticità: la campagna di Russia negli Alpini, il ferimento, la prigionia in un campo di concentramento a Tambov, vicino a monti Urali. Alla fine della guerra Jean ritorna in famiglia e riprende da dove aveva lasciato. Al Grand Veneur viene promosso aiuto sommelier in sala. L’avventura nel mondo del vino stavolta comincia davvero, ma per questioni politiche gli italiani non erano molto ben visti in Francia nel ’47 e quindi, di fatto, è costretto ad emigrare. La meta questa volta è l’Inghilterra: un posto al Savoy Hotel di Londra dove Whiston Churchill aveva il suo angolo per fumare il sigaro, seguono poi Baden Baden (la capitale termale europea per eccellenza) e Saint Moritz, nel ’56, con un posto di sommelier al Palace Hotel e poi ancora in un paio di ristoranti in Europa sempre della medesima proprietà.

Il Savini, in galleria a Milano, rimane il centro nel quale si concretizzano tutta la sua esperienza e meticolosità nel conoscere i vini e sul modo in cui servirli e abbinarli. «Sono arrivato al Savini nel ’56, su richiesta specifica del patron, il commendator Angelo Pozzi, e ci sono rimasto per dodici anni. All’inizio erano i tempi in cui il cliente chiedeva bianco o rosso oppure domandava che cosa era quel posacenere che portavamo appeso al collo (il tastevin, ndr.). Le richieste prevalenti riguardavano vini francesi ma siamo riusciti nel tempo a far apprezzare anche i prodotti italiani. C’era sempre un po’ di magia quando si versava il vino nel decanter e si aspettava riprendesse vita. Clienti famosi? Il Savini aveva una clientela anche internazionale di alto livello. Ho servito da bere a cinque presidenti della Repubblica: Segni, Leone, Saragat, Pertini e Cossiga, al commendator Bialetti, l’inventore della moka, a Edoardo De Filippo, a John Waine, che però beveva solo whisky, a Jacqueline Kennedy, a Maria Callas e all’armatore Onassis del quale ricordo un curioso aneddoto. Una banconota di 100 dollari fatta scivolare discretamente nelle mie mani in occasione del saluto e la raccomandazione che anche agli uomini della sua scorta non mancasse da bere». E chissà quanto è lungo ancora questo elenco.

L’avventura al Savini finisce nel 1972 quando Alberto Alemagna gli propone un’offerta economicamente rilevante per passare al ristorante Gourmet in piazza Duomo. Qui vi rimane fino al ’76 poi il ristorante chiude e si riapre una parentesi internazionale. Quattordici mesi in a Tokio e nel sud Corea per far conoscere e spiegare i vini piemontesi in quella parte di mondo per conto di un consorzio di vini coordinato dalle cantine Bersano e poi, nell’84, tre mesi a Los Angeles in occasione delle Olimpiadi. E proprio in California il figlio Duilio ha aperto un ristorante, vicino a San Francisco, che si chiama Valenti and Co.

Fino all’età di 85 anni ha continuato la sua attività di consulenza in Italia e in Francia cercando di trasmettere nel miglior modo possibile la sua grande esperienza. Ora, con il traguardo dei 94 anni poco distante, segue ancora con attenzione i movimenti delle diverse associazioni di sommelier, poi proliferate, con il cuore chiaramente legato alla sua creatura e cioè l’Ais. Accento francese, grande presenza ed eleganza, occhio vigile e massima attenzione, non ha di certo perso la sua professionalità, al punto di esprimere un giudizio tecnico calibrato quando in occasione del nostro incontro avvenuto all’Enoteca al Ponte di Ponte San Pietro il patron Luca Castelletti ha voluto aprire in suo onore una bottiglia di Rioja del 1922, l’anno appunto di nascita di Jean Valenti.


Insetti in tavola, «sono gli chef che possono fare la differenza»

Brodo di grilli dello chef sardo Roberto Flore

Il brodo di grilli dello chef sardo Roberto Flore

Fino a ieri trovare un insetto nel piatto era solo il segno del peggior livello di un locale, oggi può anche essere la proposta gastronomica più trendy e corretta in termini di sostenibilità alimentare. Basti pensare che nella cucina con cavallette e larve di scarabeo si cimenta niente meno che René Redzepi, del Noma di Copenaghen, giudicato a più riprese il miglior ristorante al mondo. Non si tratta solo di provocazioni o virtuosismi culinari, ma di una precisa linea di ricerca e sviluppo inquadrata a partire dagli anni Novanta dalla Fao, che nel consumo di insetti vede una delle risposte a quella che è stata anche la domanda dell’Expo: come sfamare un pianeta sempre più affollato che chiede cibo sicuro e nutriente e, nello specifico, dove trovare fonti di proteine a minore impatto ambientale, disponibili per tutti.

Osservata da un punto di vista è globale, l’entomofagia (è il termine con cui si indica il mangiare insetti), in realtà, non è poi questa gran stranezza, essendo pratica diffusa in Oriente, in Africa e in Sud America. Ed ora è molto più che un’ipotesi nei Paesi sviluppati. L’esposizione milanese è stata teatro del primo evento ufficiale in Italia in cui si sono mangiati insetti (nel padiglione del Belgio, Paese dove è stata autorizzata la commercializzazione di una decina di specie per uso alimentare umano, che si possono trovare anche al supermercato), convegni e pubblicazioni si sono moltiplicati e a pochi giorni dalla chiusura dell’evento è arrivato il sì del Parlamento europeo alla semplificazione delle procedure di autorizzazione del cosiddetto novel food, ossia tutto ciò che non è mai stato considerato cibo prima, comprese meduse, nuovi coloranti e cibi costruiti in laboratorio.

Marco Ceriani - ItalbugsPer saperne un po’ di più ci siamo rivolti a chi da tempo si dedica allo studio degli insetti per fini alimentari, Marco Ceriani, esperto in nutrizione e fondatore, sei anni fa, di Italbugs, che si occupa di ricerca e sviluppo di matrici alimentari sicure da insetti, per realizzare materie prime e nuovi alimenti. È insediata nel PTP Science Park di Lodi, primo parco tecnologico in Italia dedicato all’agroalimentare.

Cosa comporta la recente mossa dell’Europa sul novel food?

«Non che si possono produrre, vendere e consumare insetti. La normativa Europea non lo permette, anche se in alcuni paesi, come Belgio, Olanda e Francia, questo avviene già grazie a delle leggi nazionali, ma solo per il mercato interno. Ora il Parlamento ha dato un parere positivo sul novel food, significa che non ha ravvisato rischi o problematiche. È un passo che ormai ci si aspettava e che dà un’accelerata agli studi e alle ricerche».

Quanto passerà, quindi, prima di sgranocchiare cavallette?

«Bisognerà costruire delle leggi che dicano in che modo gli insetti potranno essere allevati e venduti. Si tratta in pratica di introdurre un nuovo elemento nella catena alimentare, prodotti che non sono mai stati commercializzati né consumati prima, dei quali occorre sapere cosa contengono e quali pericoli comportano, un percorso del tutto legittimo e normale, come per qualsiasi altra novità, fatto di analisi e verifiche. Nessuno ce l’ha con l’insetto…».

Dovrà però ammettere che non sembra una prospettiva golosa…

«Il gap europeo sul consumo di insetti è dato dal fattore disgusto, ma si può superare, come insegna la storia alimentare. Le patate ci hanno impiegato un po’ prima di essere apprezzate e la melanzana a passare da “insana” a regina del cucina mediterranea. Oggi però il processo è molto più rapido, basti pensare al successo del kebab e del sushi, molto distanti dalla nostra tradizione, e l’Expo ha ulteriormente accelerato il confronto e gli scambi».

In che modo gli insetti possono essere resi meno disgustosi?

«Credo che un ruolo fondamentale possa recitarlo l’alta gastronomia. Che li propongano un locale del calibro del Noma o Carlo Cracco significa che hanno una valore gastronomico e sensoriale. Più in generale passa dagli chef la capacità di elaborarli in forma di brodi o estratti, di creare del cibo destrutturato come hamburger, polpettoni. Parlare di insetti commestibili non vuol dire mangiarli così come sono – è l’ipotesi più lontana nel nostro contesto -, ma utilizzarli per realizzare oli o farine perché no. Prima di tutto però c’è il grande capitolo dell’alimentazione degli animali nel quale gli insetti andrebbero a sanare alcuni problemi come l’estensione sproporzionata delle coltivazioni di soia per realizzare mangimi, o veri e propri controsensi come il fatto ai polli si danno sfarinati di pesce, mentre al pesce d’acquacoltura la soia, che mai in natura avrebbe occasione di mangiare».

Perché gli insetti sono il cibo del futuro?

«Perché la popolazione aumenta e sta cambiando dieta. Cina e India oggi vogliono nutrirsi di proteine ma non sarà possibile averle con l’allevamento tradizionale. Gli insetti hanno un ottimo indice di conversione nutrizionale, significa che con un meno di due chili di mangime vegetale si ottiene un chilo di proteine, per ottenere la stessa quantità nei bovini servono dieci chili di mangime. Questo accade perché non sprecano energia per mantenere la temperatura del corpo. E poi necessitano di poca acqua, di poco terreno, hanno deiezioni minime e producono pochi gas serra, insomma un impatto ambientale limitato a fronte di un importante apporto nutrizionale».

tabella insetti - proteineQuali nutrienti contengono?

«Soprattutto proteine, ma anche grassi polinsaturi, come gli Omega 3, alcuni sono pure ricchi di ferro e minerali. Sono inoltre poveri d’acqua, il che li rende un vero concentrato di elementi, con valori superiori rispetto a carne e pesce. I contenuti nutrizionali possono poi variare in base a come vengono alimentati e questo è uno dei temi allo studio ».

Ma sono sicuri?

«Quelli individuati come più interessanti per essere introdotti nella catena alimentare non contengono veleni per l’uomo. Anche la possibilità che trasmettano malattie infettive è remota, visto che hanno un dna molto diverso dal nostro. I rischi sono più che altro legati agli allergeni e alle contaminazioni ambientali, nello stessa esatta maniera per la quale una mela, riconosciuta come commestibile, può essere diventare pericolosa se piena di pesticidi. L’aspetto da mettere a punto è proprio questo, trovare le modalità migliori per una produzione sicura».

Con Italbugs su quali specie sta lavorando?

«Una nostra peculiarità è lo studio del baco da seta, di cui l’Italia era il secondo produttore al mondo. È interessante anche perché riprendere l’allevamento comporterebbe un recupero del territorio, visto che si nutre solo di gelsi, e della produzione della seta. Ci occupiamo anche di grilli, cavallette e di un insetto simile al baco da seta, il Mopane Worm, presente e consumato nel Sud dell’Africa. L’obiettivo è mettere in commercio degli estratti, ovviamente con una produzione realizzata all’estero».

Il legislatore italiano ha già posto attenzione all’allevamento e alla commercializzazione di insetti?

«Al momento no, neanche sul versante dell’alimentazione animale. Ma dovrà confrontarsi con questo tema perché il mercato si sta aprendo e le spinte sono sempre maggiori, tra Stati che li hanno già autorizzati e le posizioni dell’Europa. Occorrerà farlo per non essere tagliati fuori».

Insomma la strada è segnata…

«Con le dinamiche demografiche in atto, direi di sì. Non significa, si badi bene, che si dovranno mangiare per forza insetti, né che sostituiranno ogni altra fonte di proteine, sono però delle alternative, come del resto alghe, meduse e carne in provetta…».

Lei quali insetti ha avuto modo di assaggiare? Come sono?

«Ho mangiato grilli, cavallette, camole, il casu marzu cioè il formaggio trasformato da larve di mosca, mopane worm e pulce d’acqua, in Oriente sono proposti prevalentemente fritti, che è anche una modalità che offre maggiore igiene. Il paragone più calzante è quello con i crostacei, in generale si può dire che hanno un gusto che non disturba, niente di acido o strano. A tutti, del resto, è capitato di trovarsi in bocca un vermetto dopo aver addentato un’albicocca e, a parte la diversa consistenza, al palato non ha dato sensazioni sgradevoli. Il resto, come dicevo, lo possono fare gli chef. Recentemente ho mangiato una zuppa di zucca, panna e cavallette niente male».

 


Val Brembana, quante specialità regala lo zafferano!

Dietro a un piccolo fiore c’è una grande ambizione: il rilancio della montagna e della collaborazione tra chi la vive. Accade con il progetto Zafferano Oltre la Goggia, parte di una più ampia azione, stimolata dal Vicariato di Alta Valle Brembana, per ricreare il tessuto sociale che man mano si è perso. È un’iniziativa relativamente giovane, l’idea risale infatti solo a un paio di anni fa. «Zafferano Oltre La Goggia – dice Maria Calegari, una delle coordinatrici – nasce all’interno del progetto “Buone prassi” che mira all’abitare la montagna in modo diverso, stimolando così un ritorno al territorio e alle sue forme di sussistenza».

Diverse sono le famiglie e le aziende agricole coinvolte nel progetto, dalla presenza femminile decisiva e vasta. Nell’ambito specifico della coltivazione dello zafferano, si è cercato con successo di dar vita a un processo che va oltre la semplice coltivazione, ma che con azioni su più versanti ha permesso di ricreare una piccola economia locale. Questa sfida è stata sostenuta dall’Associazione Gente di Montagna che, mettendo in campo la conoscenza e l’esperienza dei suoi soci, ha saputo concretizzare l’intuizione. «Circa due anni fa – spiega Davide Torri, responsabile dell’associazione – il Vicariato dell’Alta Valle Brembana ha chiesto alla nostra associazione di fare un convegno e trattare il tema. Dopo esserci incontrati con alcune persone del posto, siamo giunti alla conclusione che un’azione sarebbe stata meglio di un convegno». Ecco che la macchina organizzativa si è messa in moto e, dopo alcuni incontri e dopo la formazione dei futuri coltivatori, nel 2014 sono stati impiantati i primi bulbi che hanno dato il primo raccolto nell’autunno del 2014. Raccolto che è stato utilizzato poi da alcune piccole realtà artigianali locali per delle preparazioni uniche. Sono stati prodotti la birra allo zafferano dal Birrificio Via Priula di San Pellegrino, il pane allo zafferano dal panificio Midali di Branzi e, successivamente, sono stati elaborati alcuni dolci dall’Officina del Dolce di Bergamo della pasticciera Camilla Beltramelli, originaria della Valle Brembana.

Diverse sono quindi le famiglie che hanno potuto mettere in produzione terreni inutilizzati, con vantaggi che vanno dall’integrazione del reddito grazie alla vendita dello zafferano alla ricostruzione di relazioni sociali, nell’interesse comune.

Esiste solo una varietà botanica di Crocus sativus al mondo. «Le sue caratteristiche – sostiene Sara Boroni, una delle coltivatrici – dipendono dal territorio in cui viene coltivato e da come vengono essiccati i fiori. È una coltura che richiede molta fatica e pazienza, anche perché i bulbi vanno costantemente monitorati e protetti, ma è anche una coltivazione piacevole e imprevedibile». Ogni mattina all’alba non manca una supervisione nei terreni per raccogliere i fiori pronti. Da questi vengono poi sfilati i tre stigmi e, successivamente, fatti essiccare: questa è un’operazione delicata infatti il rischio di bruciarli o, viceversa, di non essiccarli abbastanza predisponendoli alla marcescenza è sempre in agguato.

La stagione del raccolto 2015 è arrivata e nei prossimi mesi saranno disponibili i nuovi stigmi. Obiettivi per il futuro? «L’autosufficienza nella produzione dei bulbi e l’aumento della quantità dello zafferano prodotto e delle persone coinvolte – afferma Maria Calegari -, sia per quanto riguarda i coltivatori che eventuali realtà che utilizzeranno questo interessante prodotto».

La produttrice: «Una coltivazione che dà soddisfazioni»

Sara Boroni - zafferano Zogno«Mi sono trasferita in montagna circa 10 anni fa», inizia così la sua presentazione Sara Boroni, una delle giovani coltivatrici di zafferano. Classe 1981 e originaria di Bonate Sopra, abita con i suoi tre figli a Castegnone, una piccola frazione di Zogno, sopra Poscante. L’amore per la montagna l’ha portata ad allontanarsi dall’Isola bergamasca con il sogno di aprire un’azienda agricola, anche se la sua formazione è legata al mondo dell’arte, con un’esperienza di lavoro al fianco di un pittore. Le difficoltà in montagna sono tante, «una delle principali è stata  – racconta  – trovare dei terreni da coltivare, ma poi ho saputo che vendevano l’attuale mia abitazione, con dei terreni e ne ho subito approfittato». Due anni fa nasce quindi l’azienda agricola InCanto dove Sara coltiva ortaggi da specie antiche, di cui ha recuperato i semi grazie a scambi con altri contadini. La sua coltivazione si basa sull’autoproduzione dei semi e per il futuro programma di trasformare in loco i suoi prodotti e offrire ospitalità. Oltre che dalla frutta e dalla verdura, si è però lasciata coinvolgere dal progetto Zafferano OLG «perché è una specie che dà molta soddisfazione e poi, dal momento che mi trovo in montagna, non posso coltivare tutto quello che vorrei. Il mio obbiettivo è quello di arrivare ad autoprodurre i bulbi, capire come si potrebbero adattare a questa zona, anche se il rischio di perdita dei bulbi è molto alto, sino al 30-40% all’anno».

Una vera chicca, il pane allo zafferano di Midali

Baldovino Midali - pane zafferano ridBaldovino Midali tutte le mattine si alza e prepara il pane, è un panettiere. Un panettiere tuttofare perché nella sua vita coltiva tante passioni e attività. È anche fotografo naturalista e regista. «Un bel giorno – racconta – mi è arrivata una richiesta dai coltivatori di zafferano e ho aderito al progetto perché mi interessava far sapere che nella nostra valle si coltiva lo zafferano e che può essere utilizzato anche per fare il pane. Sono convinto che l’unità fa la forza». Midali ha presentato recentemente questo pane in occasione della giornata mondiale del pane a Expo Milano 2015. È un prodotto di nicchia nel vero senso del termine, perché non è il pane a cui siamo abituati, ma anche per il suo costo, non certo economico. «Per realizzarlo – spiega Baldovino – prendo gli stigmi, li pesto e li lascio in ammollo in acqua per circa 12 ore. Poi utilizzo l’acqua con lo zafferano per preparare l’impasto».

Il birrificio Via Priula ha creato “Safrà”

Anche nel piccolo birrificio artigianale Via Priula di San Pellegrino la coltivazione dello zafferano ha suscitato interesse. «Stavamo sperimentando per la produzione di una birra in stile saison, un tipo di birra che mi ha sempre interessato – spiega Giovanni Fumagalli, uno dei soci – e un giorno, frequentando il consorzio agrario, mi viene mostrato lo zafferano locale. Ecco l’idea». Lo zafferano è arrivato nel momento giusto ed è stato motivo di ulteriore sperimentazione. È nata quindi una birra in stile Saison belga con radici ben salde in Valle Brembana. «È il risultato di decine e decine di esperimenti – sottolinea Fumagalli – fatti per raggiungere un adeguato equilibrio sia in termini aromatici che di costo». Infatti il rischio era quello di ottenere una birra eccessivamente colorata, speziata e, da non sottovalutare al fine della sostenibilità economica, onerosa. Ma il risultato è stato raggiunto, si chiama Safrà.

Officina del Dolce, le proposte stagionali della pasticciera Camilla

Camilla Beltramelli - pasticciera - officina del dolceCamilla Beltramelli, originaria della Valle Brembana, è l’anima della pasticceria L’Officina del Dolce di Bergamo. Il suo percorso lavorativo vanta diverse e importanti collaborazioni, dallo chef patissier Ernst Knam alle cucine di alcuni dei più rinomati ristoranti bergamaschi e milanesi. Concorsi internazionali e collaborazioni televisive la portano del 2010 ad aprire il suo piccolo laboratorio di pasticceria in via San Tomaso.

«Ho iniziato a sperimentare un dolce con lo zafferano prima dell’estate – ricorda Camilla –. Siamo abituati ad associare lo zafferano a dei prodotti caldi come i risotti, quindi non è stato semplice, ma l’idea è stata quella di preparare una mousse di yogurt con il frutto della passione e lo zafferano. Quest’ultimo è riconoscibile, ma molto delicato, l’importante è non sovrastarlo con altri aromi e sapori». Ma anche per l’autunno Camilla ha pensato ad un dolce particolare per celebrare lo zafferano prodotto nelle valli bergamasche, sperimentando un abbinamento con la pera, delicata e dolce, e creando un contrasto con il cioccolato al latte, più delicato di altri cioccolati.

«In futuro – racconta Camilla – gli abbinamenti e le proposte saranno sempre secondo stagionalità, uno dei cardini della mia pasticceria. Non è detto che proporremo ancora una mousse, ma ad esempio…perché non potrebbe essere una pralina?». Una pralina allo zafferano, che bontà. Via alle sperimentazioni!


Mele, ora la Val Brembana rilancia una varietà autoctona

È un bel progetto di recupero territoriale che cresce e si consolida di anno in anno. Quello della coltivazione delle mele in Val Brembana, che ha uno dei suoi momenti clou nella Sagra organizzata a Piazza Brembana dall’Associazione Frutticoltori Agricoltori Val Brembana (Afavb) in collaborazione con Altobrembo, Comune e Pro Loco Piazza Brembana.

L’appuntamento è sabato 17 e domenica 18 ottobre con un ricco programma che unisce alla promozione dei frutti e alla vendita del nuovo raccolto la valorizzazione del territorio e dell’enogastronomia, coinvolgendo numerosi ristoranti della Valle con menù a tema a prezzo convenzionato.

Le mele sono coltivate da centinaia di appassionati che nel 2007 hanno costituito l’Afavb. «Chi coltiva un albero da frutto – sottolinea il presidente Davide Calvi – segnala la volontà di restare in Valle, dimostra di crederci. Il nostro impegno ha reso possibile il recupero di molti terreni, altrimenti abbandonati. La consulenza di tecnici esperti ci ha consentito di selezionare una qualità di alto livello, ottimizzando la resa dei frutteti e valorizzando al meglio le proprietà dei terreni. Le analisi hanno confermato che la Valle Brembana ha ottime peculiarità, addirittura superiori a quelle di zone più rinomate».

Mela Val Brembana (3)I soci Afavb partecipano ogni anno a viaggi di studio in zone dove sono operative aziende frutticole. Per segnalare la qualità e la genuinità delle Mele della Val Brembana, è nato uno specifico marchio di tutela, che mette in evidenza i colori della natura e quelli delle varietà coltivate: Golden, Gala, Red Delicious, Renetta e Topaz. «Sono anche i colori – sottolinea il vicepresidente Pinuccio Gianati – della maschera di Arlecchino, biglietto da visita della Val Brembana e del territorio bergamasco. Stiamo anche lavorando alla selezione di una varietà autoctona, rintracciata a San Giovanni Bianco, che mostra particolari doti di qualità e resistenza».

A livello didattico l’Afavb promuove attività specifiche presso il Campo Scuola “Arcobaleno delle Mele”, attivo dal 2012 a Moio de’ Calvi e per la campagna 2016 annuncia la creazione di un campo biologico certificato. Dallo scorso agosto l’associazione ha una nuova sede a Moio de’ Calvi ed il 4 ottobre ha ufficialmente presentato il proprio progetto nell’ambito di Expo Milano 2015, occasione nella quale hanno debuttato anche due nuovi dolci a base di mele e Mais Nostrano Orobico, un’ulteriore riscoperta del territorio.

La Sagra darà naturalmente l’opportunità di assaggiare e comprare le mele, ma anche prodotti del territorio, gastronomici e d’artigianato locale. Sabato alle 9 è in programma l’apertura ufficiale dell’area espositiva nel centro di Piazza Brembana, mentre alle 10 si aprirà il laboratorio didattico “La merenda sana: mele e sapori del territorio”, dedicato alle scuole locali. Alle 10.30 verrà inaugurato il “Tour gastronomico” che offre ai visitatori la possibilità di assaggi guidati alle eccellenze in mostra.

Alle 11.30 lo chef Andrea Midali presenterà preparazione e degustazione di risotto con le mele. Nel pomeriggio, alle 15.30, il tecnico Adriano Gadaldi illustrerà per i neofiti la possibilità di avviare un frutteto, mentre alle 16.30 degustazione di dolci di mele direttamente da Expo. Alle 17 il biologo nutrizionista Paolo Paganelli guiderà un incontro sul tema “Le Mele della Val Brembana, frutti della salute”.

Domenica 18 ottobre sarà interamente dedicata alla mostra-mercato delle Mele e dei prodotti tipici, con decine di stand. Alle 10 i tecnici Afavb proporranno una dimostrazione pratica di coltivazione, mentre alle 11 grazie alla collaborazione con Slow Food Valli Orobiche verrà proposto un Laboratorio del Gusto per abbinare mele e formaggi. Alle 14.30 partiranno le attività di animazione per bambini nell’area MeLaGIOCO, mentre alle 15 le torte in gara per lo specifico concorso verranno proposte all’assaggio del pubblico dagli allievi dell’Istituto Alberghiero di San Pellegrino Terme. Alle 16 la premiazione dei migliori frutti e dei dolci più gustosi chiuderà la due giorni di festa.