Gori replica alla Lega: “Io candidato in Regione? Non ci ho mai pensato”

Giorgio Gori
Giorgio Gori

“Faccio il sindaco con piacere e con il massimo impegno, come credo chiunque possa testimoniare. Non ho quindi mai pensato di candidarmi ad altri ruoli”. Così il sindaco di Bergamo ha risposto oggi, in modo lapidario, alle voci che si susseguono su una sua possibile candidatura alle elezioni regionali del 2018. All’attacco è partita anche la Lega con un’interrogazione urgente del capogruppo a Palafrizzoni, Alberto Ribolla, che sottolinea: “Nelle ultime settimane viene sempre più frequentemente rilanciata, su quotidiani di tiratura anche nazionale, la possibilità che il sindaco di Bergamo sarebbe pronto a candidarsi come presidente della Regione Lombardia per il Partito Democratico nel 2018. Queste notizie non sono mai state smentite dal diretto interessato”. Considerato che “dalle elezioni comunali del 2014 son passati solo 2 anni e mezzo e che qualora il sindaco di Bergamo si candidasse in Regione, la legislatura comunale si interromperebbe immediatamente, venendo meno, tra l’altro, alle promesse fatte ai suoi elettori”, Ribolla si rivolge a Gori chiedendogli se “corrisponda o meno a verità il fatto che, a soli 2 anni e mezzo dall’inizio del mandato, abbia pensato di candidarsi in Regione”.


Referendum, il gioco perverso di chi punta al catastrofismo

Ci mancava solo l’ambasciatore americano. “Se vince il No meno investimenti in Italia” la sua infelice uscita che ha provocato un sussulto di sdegno, quirinalmente trattenuto, perfino dell’ingessato presidente Mattarella. Non bastavano i toni eccitati del premier Renzi che ad ogni pie’ sospinto indica nella vittoria del referendum sulla riforma costituzionale la svolta storica che dovrebbe segnare il trionfo delle magnifiche sorti del Belpaese. Né erano sufficienti le discese in campo di associazioni di categoria, ordini professionali e confraternite varie. No, evidentemente la paura (di perdere) fa novanta e allora anche Oltreoceano hanno sentito il bisogno di invitare i tapini italiani a riflettere su quali nefaste conseguenze potrebbero patire se solo osassero non approvare fra scene di giubilo le modifiche della Carta partorite dalla coppia di consumati costituzionalisti Renzi-Boschi.
Le menti più avvertite hanno già compreso come queste entrate a gamba tesa non fanno altro che determinare una reazione uguale e contraria a quella desiderata. Perché c’è troppa enfasi, troppo catastrofismo, troppa smania di liquidare con sarcasmo chi non s’allinea alla vulgata (ipoteticamente) dominante. Razionale o no che sia, scatta il desiderio di mettersi di traverso. Senza per questo sentirsi dei gufi o degli antisistema. Sgombriamo il campo dalla propaganda. Per stessa ammissione dei suoi patrocinatori, la riforma che sarà sottoposta agli elettori non è “la migliore possibile” né risolverà i tanti e complessi problemi del Paese. In alcuni punti segna dei passi avanti, in altri le modifiche sono più di forma che di sostanza, in altri ancora rischiano di provocare ancora più confusione. Quel che è certo è che la sua eventuale bocciatura non determinerà in alcun modo la caduta nel baratro. E tantomeno sarà impossibile, se lo si vorrà, ripartire con altri tentativi di riforma.
E’ stato Renzi per primo a mettere il referendum su un piano sbagliato. Lo ha trasformato in una sorta di ordàlia sul suo destino politico, commettendo un macroscopico errore strategico che ora gli si sta ritorcendo contro. Ma non è l’unico che non ha compreso che evocare scenari da tregenda, prescindendo dal merito, è controproducente. Come per la famigerata Brexit, il rischio alla fine è che le prime vittime della consultazione popolare siano proprio quelli che le hanno volute caricandole di significati impropri. Anche l’ambasciatore americano ha dato la sua spintarella.  Avanti così, non ci sarà nemmeno bisogno dei comitati per il No.

 

 


Maroni: “Alla Lombardia servono 10 miliardi. Li chiederemo al premier”

“Calcolando che Milano è circa un quarto della Lombardia e che al Comune di Milano con questo accordo vengono destinati 2 miliardi e mezzo di euro, significa che alla Lombardia servono 10 miliardi. Li chiederò al presidente Renzi. In Lombardia c’è Milano ma non solo: ci sono tanti Comuni, tante città che meritano la stessa attenzione che il Governo ha dedicato al Sud, alle Regioni e, al Nord finora solo a Milano. Non ho dubbi che ci sarà anche il Patto per la Lombardia”. Lo ha detto il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, oggi, a Palazzo Marino, a margine della presentazione del ‘Patto per Milano”.


Gori bacchetta Renzi: “Non pensi solo a Milano”

 

“Bene il Patto per Milano, ma il Governo deve pensare a tutta la Lombardia”: nel giorno in cui il presidente del Consiglio Matteo Renzi è a Milano per la firma con cui il Governo promette misure per lo sviluppo e investimenti per 1.5 miliardi a favore della città, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori chiede di guardare a tutta la regione. “Il Patto per Milano è certamente un fatto positivo – afferma Gori – ma la Lombardia non è solo Milano. La Lombardia ha 12 province e 10 milioni di abitanti, ed è di gran lunga – nel suo insieme – la regione che maggiormente contribuisce ai bilanci dello Stato. Pensare solo a Milano sarebbe quantomeno riduttivo”. “Non c’è contrapposizione – prosegue il sindaco di Bergamo -: così come negli scorsi mesi il presidente Renzi ha firmato i Patti per Palermo e per Catania, per poi siglare il Patto per la Sicilia, così come ha impegnato il Governo per lo sviluppo di Bari, e ha poi firmato il Patto per la Puglia, allo stesso modo è importante che il Patto per Milano sia rapidamente seguito da un impegno di investimenti per tutta la Lombardia. Non mancano infatti ragioni per un intervento straordinario del Governo. Qualche esempio? Il sistema del trasporto ferroviario regionale lombardo, su cui viaggiano ogni giorno 700 mila pendolari, è in condizioni di assoluta arretratezza, tanto dal punto di vista delle infrastrutture che del materiale rotabile; la Pedemontana è un’opera fondamentale lasciata a metà; la manutenzione delle strade provinciali è ferma da anni per mancanza di fondi; le zone montane rischiano lo spopolamento e gravi fenomeni di dissesto idrogeologico senza adeguati investimenti sulla viabilità e la permanenza di attività produttive. E si potrebbe continuare. La Regione fa poco o nulla. E’ dunque auspicabile che il Governo, dopo aver posto attenzione alle legittime aspirazioni di sviluppo del capoluogo, sappia cogliere le necessità e le potenzialità dell’intero territorio lombardo”.

 

 

 


Martina: “Agricoltura in una fase delicata. Più sostegno ai giovani”

Fiera sant'alessandroLa Fiera di Sant’Alessandro bissa le 50mila presenze Con ingressi record nella giornata inaugurale e in quella conclusiva di domenica, la rassegna regionale dedicata alla filiera agroalimentare bissa il risultato dello scorso anno influenzato positivamente dall’Expo milanese. La manifestazione è stata visitata anche dal ministro delle Politiche Agricole, Maurizio Martina, che, domenica, ha raccolto in presa diretta il sentiment degli operatori. Martina conosce molto bene l’appuntamento di Bergamo, e il mondo dei contadini in generale, da ben prima che fosse nominato ministro. “ Le imprese presenti a Bergamo – dice il ministro – trasmettono segnali forti per la ripresa del settore, ma nello stesso tempo evidenziano le difficoltà di alcuni settori”. Martina sottolinea che “ci sono aspetti positivi che vanno valorizzati, intere filiere che hanno fatto un bel salto di qualità in questi anni (cito per tutti il vitivinicolo), ma ci sono ancora tante criticità che stanno mettendo a dura prova parte del nostro sistema agricolo. Parlando con gli operatori della Fiera di Sant’Alessandro – prosegue il ministro – ho avuto l’ennesima conferma di quanto il settore zootecnico, tallone d’Achille in Italia e in Europa, sia in crisi e stia subendo un cambiamento di pelle radicale. Bisogna riorganizzarsi, aggregarsi, sapere che il trasferimento generazionale tra padri e figli è fondamentale. Abbiamo fatto scelte non banali, come destinare 80 milioni di euro all’anno alle imprese agricole condotte da giovani, con la maggiorazione del 25% degli aiuti diretti per cinque anni, proprio per invogliare il passaggio tra padri e figli. Dai giovani arrivano segnali positivi, molti di loro aprono imprese in questo settore”. Si tocca poi il capitolo dell’agricoltura in montagna, così presente nella Bergamasca. “In questo caso non si tratta solo di competitività – osserva Martina ‐ ma anche e soprattutto del presidio del territorio. Abbiamo introdotto interventi che premiano chi sceglie di continuare a produrre in montagna, ma non basta, dobbiamo moltiplicare le iniziative a supporto del mondo rurale. Altri temi scottanti riguardano “il calo vertiginoso dei prezzi; il fatto che su latte, frumento e grano, ad esempio, ci sia un grave problema di remunerazione. Per me – dice deciso Martina ‐ il tema numero uno continua a essere quello della tutela del reddito di chi vive di agricoltura oggi, in un passaggio competitivo dove ci sono variabili esterne al sistema che spesso incidono in maniera molto radicale. Per il ministro una delle chiavi per il futuro sta nell’investire su strumenti preventivi, che possano tutelare il reddito degli agricoltori prima che l’evento accada. Che si tratti di una crisi determinata dal mercato o dal maltempo. “Come assicurare le produzioni a cielo aperto è un tema fondamentale e lo sarà sempre di più – chiosa Martina ‐. In tal senso, a livello nazionale abbiamo messo sul tavolo oltre 1.600 milioni di euro per le assicurazioni. Questo strumento va esteso, perché anche in provincia di Bergamo, una delle più avanzate anche in tema di prevenzione, i coltivatori e gli agricoltori assicurati sono ancora troppo pochi. Visto che il 65% della polizza assicurativa è coperta da risorse pubbliche, è fondamentale che gli operatori capiscano quanto siano importanti tali strumenti per la copertura dei rischi e per la tutela del loro reddito. Si chiude con il ministro che parla della lotta alla contraffazione del made in Italy. “Siamo in prima linea per tutelare i nostri marchi dell’agroalimentare – spiega Martina ‐, in particolare per quanto concerne l’e‐commerce; senza dimenticare la tutela internazionale sui canali tradizionali. Ho voluto il recente accordo per la protezione del vero Made in Italy agroalimentare sulle piattaforme online. Accordo che ci ha consentito di bloccare recentemente un falso Parmigiano Reggiano venduto da turchi sul web”.  Per Stefano Cristini, direttore dell’Ente Fiera Promoberg ‐ al di là del dato numerico, la Fiera di Sant’Alessandro ha il merito di unire alle antiche tradizioni le innovazioni più tecnologiche, per una rappresentazione completa della filiera agroalimentare: una proposta ricca, variegata e aggiornata costantemente, che evidentemente piace al pubblico. Dispiace solo per alcuni problemi alla viabilità – continua Cristini -, ma con tale forte concentrazione di visitatori (e relative auto), i rallentamenti e le code in strada sono davvero impossibili da evitare. Chi viene alla Fiera di Sant’Alessandro desidera gustarsela il più possibile, e quindi si ferma anche per molte ore. Ciò impedisce il ricambio nei parcheggi”.


Troppi giudizi parziali, così declina la nostra convivenza civile

scuolaL’idea che ci sia un giudice, a Berlino come altrove, ci rassicura da almeno trecento anni: da quando è stato introdotto il moderno concetto di diritto, se ci fate caso, tutta la nostra esistenza si è fondata sulla pacificante illusione che qualcuno valuti equamente e decida di noi e dei nostri rapporti con il mondo esterno. Ci sono maestri e professori che giudicano del nostro impegno e della nostra vocazione per le lettere o per le matematiche, confessori che misurano il nostro grado di probità, psicologi che ci dicono se e quanto siamo felici, colonnine arancioni che ci informano circa il nostro rispetto dei limiti di velocità e così via. Insomma, la nostra vita è costantemente monitorata e, quando necessario, riallineata da dei giudici, che, imparzialmente, ci assegnano palline bianche o palline nere, ci fanno avanzare o retrocedere, ci ammoniscono o ci premiano. Le suocere, in un certo senso, sono, a loro volta, giudici succedanei, se rendo l’idea. Tutto questo, come ogni trovata di origine illuminista, è molto bello, utile ed appagante, in teoria, salvo scontrarsi con la dura realtà: maestri e professori che scaricano sugli alunni le proprie personalissime nevrosi, confessori che abusano della catechista, psicologi che si inventano farneticazioni proiettive e colonnine arancioni che servono solo a fare cassa, non contribuiscono certamente a consolidare la nostra fiducia nei giudizi e nei giudici. E massime in un posto come l’Italia, in cui il grado di clientelismo, di corruzione e di imbarazzante lassità morale raggiunge picchi da manuale.

Dunque, la questione non è più quella della presenza o meno di un giudice, a Berlino come altrove, ma quella della credibilità del giudice. Non mi riferisco, naturalmente, solo alla magistratura, ossia ai giudici deputati e stipendiati allo scopo di difendere il diritto ed applicare la legge, sibbene a tutte le figure il cui compito, istituzionale o tradizionale, sia quello di esprimere giudizi. Che dire di insegnanti, ad esempio, che, in sede di scrutini o di esami di maturità, operano in modo irrituale (e sono buono usando questo aggettivo) per farla pagare agli studenti che stanno loro di traverso? E che dire di concorsi pieni di errori, di manipolazioni, di pasticci, che devono essere rifatti ogni volta per vizi formali e sostanziali? Qualche dubbio ci viene, non è vero? E questo dubbio, questa idea che la legge non sia mai uguale per tutti, che a me per uno scontrino da due euro diano un multone e a te, per una truffa milionaria, non facciano niente, è come un tarlo, che corrode la nostra fiducia nella società, nello Stato, nella gente che ci circonda. E’ la morte dell’idea comunitaria di istituzioni. Ognuno, perciò, vive nel sospetto di essere gabbato: guarda al proprio vicino come ad un potenziale competitore, chiedendosi di quali appoggi goda, chi lo abbia raccomandato, a chi si sia rivolto. E’ la società clientelare, che si contrappone alla società del diritto, casomai volessimo dare un nome alle cose.

Anche a me, nel mio piccolo, è capitato mille volte di scontrarmi con questa bruttissima realtà: giudici che danno ragione ai ladri, in quanto enfants du pays e torto al forestiero che ha dalla sua la legge, professori che insufflano nel collega che ti deve esaminare pregiudizi devianti, vigili che si mostrano implacabili verso la tua pagliuzza e malleabilissimi verso le altrui travi…eh, cari miei, troppe ne ho viste. E chissà quante ne avrete viste voi! In definitiva, è come se sapere che, a Berlino come altrove, ci sia un giudice non ci bastasse più: non ci fidassimo più del criterio con cui chi ci giudica viene scelto ed opera. E capirete che non è una bella sensazione. Però, così stanno le cose: questo è il punto di arrivo di una lunghissima catena di impercettibili cedimenti etici. Un poco alla volta, il cittadino comincia a smettere di credere che esista un sistema virtuoso, basato sulla semplicissima regoletta del “chi ha ragione vince”, “chi merita passa”, “chi rispetta è rispettato”, e si addentra, suo malgrado, nella jungla del “chi ha la raccomandazione più forte vince”, “chi imbroglia passa”, “chi è forte è rispettato”: in questo modo, la società civile diventa una società mafiosa, piano piano, a piccolissimi passi. E le reazioni del nostro bravo cittadino possono essere solo due: o cerca di opporsi alla fanga che gli sale lungo i polpacci, e allora vivrà una vita di rabbie e di delusioni continue; oppure si adegua, si attrezza, cerca di ritrovare nell’agenda il numero di telefono di quel suo compagno delle medie che adesso fa il sostituto procuratore, contatta l’amico primario per saltare anche lui la fila, raccomanda il figlio al dirigente scolastico che gli deve un favore.

La ‘descalation’ dalla Scandinavia all’America Latina avviene così: un cittadino alla volta. Ti affidi a giudici che ti fregano una, due, tre volte, finché non ne puoi più e, anziché ad un giudizio nella cui imparzialità e serietà non credi più, ti affidi alla protezione di un padrino. E l’Italia è piena di questi piccoli e grandi padrini: di gente che ti dice “ci penso io”, “lascia fare a me”. Professionisti, funzionari, politicanti, che, con aria paciosa e col sorriso dell’amico vero ti oliano le serrature, ti tengono aperta la porta. Nulla di penale, come dicono in televisione: no certo, nulla di penale, ma moltissimo di morale. I danni che derivano alla qualità della nostra vita civile da questo andazzo e dall’assoluta sfiducia in figure terze che diano dei giudizi universalmente accettati, basati su criteri di imparzialità e serietà, sono enormi e, temo, irreparabili. Perché questo personalismo, questo egoismo trasformato in sistema, mina alle radici l’idea stessa di convivenza civile: ci ributta indietro di secoli, quando la libertà non era un diritto limitato solo da altri diritti, ma un privilegio, concesso da un potente ad uno meno potente. E quel sistema si chiamava feudalesimo.


Il commento / “Troppa spesa improduttiva. E’ l’ora dei tagli, a partire dal fisco”

di Oscar Fusini*

Pur in presenza di qualche timido segnale di ripresa, molti indicatori – dallo scenario internazionale post Brexit alla contrazione dei consumi fino al calo di fiducia dei cittadini – impongono una strategia d’attacco decisiva e in grado di riportare il nostro Paese sulla via della crescita. E’ questo il senso del convegno tenutosi ieri, a Roma, sul tema “Meno tasse meno spesa binomio della crescita”. L’evento, promosso da Confcommercio, e a cui ero presente, ha visto tutta la componente confederale unita al presidente Sangalli nel chiedere un’accelerazione sul versante delle riforme e dei tagli alla spesa. Il nervosismo del ministro Padoan verso le punzecchiature di Tremonti e, soprattutto, la risposta polemica di Anci (che ritiene poco ortodossi i dati di Confcommercio) confermano che probabilmente i numeri, le relative conclusioni e le richieste del nostro sistema associativo un fondo di verità ce l’hanno.Cosa dice di tanto eclatante la ricerca? Orbene, mettendo a confronto le spese pubbliche delle Regioni italiane, emerge che ci sono “governi” che spendono, per abitante, molto più di altri. La Lombardia, per esempio, tocca quota 2.587 euro, meno di tutti, molto al di sotto dei 6.470 euro del Trentino, ma anche dei 3.729 per abitante del Molise. La domanda a questo punto è lecita: perché queste differenze di spesa da una regione all’altra? Ci sono diversi fattori che determinano i divari. In primis, lo statuto speciale, che amplifica la spesa del 39% in più rispetto allo statuto ordinario, ma anche le dimensioni incidono, dal momento che le Regioni più piccole spendono il 12% di più di quelle grandi. Tuttavia, l’importo non sarebbe di per sé così significativo se non si considerassero anche i servizi erogati. Già, perché una spesa maggiore sarebbe anche accettabile se ad essa corrispondessero maggiori e migliori servizi.

Ecco perché il centro studi di Confcommercio ha costruito un indice sintetico di output di servizi considerando nove indici di valutazione, tra cui l’efficienza della distribuzione dell’acqua, della corrente, degli ospedali e via a seguire. Abbiamo così scoperto che la nostra Regione, quella che spende meno, é prima nella quantità e nella qualità di servizi erogati. Portata a 1 la Lombardia, si scopre che l’Emilia Romagna é a 0, 9 il Trentino a 0,83 e via via fino alla Calabria 0,3 e alla Sicilia a 0,27. Una bella soddisfazione per noi bergamaschi, se non fosse che la spesa pubblica nazionale la paghiamo comunque anche noi. Preoccupa, inoltre, il fatto che, confrontando i dati della spesa con quelli dei servizi, ci si ritrovi in quella dimensione duale che avvicina l’Italia più ai Paesi sottosviluppati che a quelli industriali. La verità inoppugnabile dei numeri, infatti, dice che le Regioni che spendono di più per abitante sono quelle che offrono i servizi peggiori. Il Sud, nella sua generalità, conferma questo assioma. Ma anche le Regioni a statuto speciale, al Nord, non sempre spiccano per livelli virtuosi: hanno maggiori mezzi a disposizione, spendono di più ma con risultati peggiori. Se, quindi, i servizi di tutte le Regioni fossero offerti ai livelli di spesa della Lombardia, la spesa pubblica italiana sarebbe più bassa di quasi 75 miliardi di euro. Tuttavia, tagliare gli sprechi, probabilmente, significherebbe comprimere ulteriormente i servizi portandoli a livelli insufficienti. Più realisticamente, adeguando tutta l’Italia al livello di spesa lombardo, senza intaccare i servizi, non risparmieremmo 75 miliardi ma comunque 21,1 miliardi. Una somma ingente, oggi solo spesa improduttiva, che potrebbe essere destinata al taglio delle imposte e al sostegno degli investimenti nel settore pubblico.

ConfcommercioDa qui la nostra proposta, che reputo coraggiosa. Ovvero, porsi l’obiettivo di scendere con la pressione fiscale a quota 40% (per la precisione a 40,8) entro il 2019 e non al 42,9% come prevede il Governo a quella data. Quindi un taglio molto più profondo della tassazione rispetto agli obiettivi fissati dall’Esecutivo. Certo, servirebbe una crescita del Pil di almeno 3 o 4 decimi all’anno, più di quanto stimato dal Governo, ma comunque il taglio è possibile. In parallelo, servirebbe anche una diminuzione della spesa di 32 miliardi (blocco della spesa tra il 2017 e il 2019). Il tutto consentirebbe alle imprese e alle famiglie di respirare e all’economia di centrare la tanto auspicata ripresa. Dimentichiamoci, quindi, il famoso e tanto declamato bonus di 80 euro, e incamminiamoci decisi verso il taglio delle imposte. Il presidente Sangalli ha riconosciuto al Governo l’impegno verso il contenimento della spesa e la scelta di non aver fatto scattare le clausole di salvaguardia legate alle aliquote Iva. Ha riconosciuto a Renzi di aver anche attivato alcuni cambiamenti strutturali, come la riduzione drastica delle stazioni appaltanti da 33mila a 32 (secondo il ministro Padoan), l’introduzione dei livelli standard d’efficienza nella Sanità, l’integrazione tra forze di Polizia (la Forestale nei Carabinieri), la definizione dei costi standard per i budget dei Comuni e, infine, i tagli alle auto blu (meno di 30mila, la metà rispetto a due anni fa). Uno sforzo che secondo Itzhak Yoram Gutgel, commissario per la Spending review della Camera, ha portato la spesa italiana del 2015 a una diminuzione dell’1,3%, pari a 10 miliardi in meno rispetto al 2014. Il tutto senza licenziamenti nel pubblico impiego (in Francia la spesa è invece salita del 1,9% e in Germania del 3,9%). Tanto, forse più dei precedenti Governi – e questo è stato il motivo del battibecco e dell’uscita polemica dalla sala di Giulio Tremonti, mentre il ministro Padoan stava ancora parlando – ma ancora troppo poco rispetto a quello che servirebbe per cambiare passo. Servono infatti cambiamenti più decisi nella riduzione della spesa locale, reinvestendo nell’ottimizzazione della qualità dei servizi, nella riduzione della pressione fiscale e nel rilancio degli investimenti. Occorre quindi una vera riforma fiscale, a partire dall’Irpef, per arrivare a un sistema più semplice, con meno voci di imposta, minori adempimenti e, soprattutto, più leggero e meno impattante sulle tasche degli italiani.

*direttore di Ascom Confcommercio Bergamo

 


Letto per voi / L’Espresso, “Che succede nella Bergamo di Giorgio Gori”

Il settimanale L’Espresso, nella sezione “Città che cambiano”, ha puntato l’obiettivo su Bergamo. Riportiamo l’articolo firmato da Gianfrancesco Turano

 

Che succede nella Bergamo di Giorgio Gori

 

http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/07/01/news/che-succede-nella-bergamo-di-giorgio-gori-1.275696

di  GIANFRANCESCO TURANO 

Dal laminato piano al turismo culturale all inclusive il passo è lungo anche per gente che non si spaventa del lavoro in ogni sua declinazione, come i bergamaschi. In una città dove per decenni la crescita è stata affidata alle acciaierie della Dalmine e all’Italcementi, con effetti psicoeconomici su una popolazione rinomata per la sua chiusura al resto del mondo, tira un’aria di movida in stile Barcellona che fino a qualche anno fa sarebbe stata impensabile. La soluzione è cinque chilometri a sud-est. L’aeroporto di Orio al Serio, terzo in Italia per numero di passeggeri (10,4 milioni nel 2015) continua a crescere in modo sfrenato. Nonostante la fine della kermesse di Expo 2015 nel primo trimestre 2016 sono sbarcati 2,4 milioni di passeggeri (+10,4 per cento).

Solo un quinto di questo traffico annuale (2 milioni) rimane in vacanza a Bergamo e provincia. Ma quando Bloomberg Business Week, la bibbia settimanale del capitalismo Usa, apre la sua rubrica dedicata a viaggi e vacanze per milionari con un servizio sul Lago d’Iseo, è segno che qualcosa si sta muovendo in fretta al di là della passerella piazzata da Christo sulla sponda bresciana del lago.
Che la città sia ben tenuta non è discutibile, né può dirsi una novità. Al non bergamasco, e anche a gran parte dei nativi, può sembrare lunare la querelle eterna sui vantaggi concessi alla Città Alta, dove vivono i patrimoni antichi e recenti. I commercianti della zona bassa e relativamente povera lamentano le troppe attenzioni dedicate dall’amministrazione comunale alla rocca medievale e sostengono di essere in difficoltà per la concorrenza del grande mall di Orio con i suoi satelliti. Ma lungo via San Bernardino, città di sotto, si incontrano locali eleganti e la giusta dinamica dei fluidi di passeggio che sempre più spesso risuonano di lingue dell’Europa, visto che Bergamo è in testa alle classifiche dell’ospitalità per gli studenti in Erasmus.

Continuando a salire per via Sant’Alessandro, il patrono, si entra in un mondo a parte che è città bassa ma quasi alta dove, in un tardo pomeriggio feriale, passa una macchina, poi tre minuti di uccellini, un’altra macchina e altri tre minuti di uccellini. In cima si apre porta San Giacomo, il varco nelle mura dove ancora campeggia il Leone di Venezia. La modernità riaffiora lungo la vasca di via Gombito-via Colleoni dove appaiono i cartelli che segnalano il wi-fi gratuito in tutta la città oltre a un quantitativo inquietante di defibrillatori.

Detto che c’è chi sta peggio, una defibrillazione del tessuto economico si è resa necessaria per trascinare la città fuori dal suo isolamento. L’apertura di Bergamo spetta alla scoperta di una fragilità molto poco bergamasca, in linea di principio. Senza andare troppo indietro al tempo della cessione della Dalmine alla Tenaris dei Rocca e del takeover sul Credito Bergamasco (Creberg) da parte dello scalatore di Garbagnate Ernesto Preatoni, la città si è trovata nel giro di un biennio ad assorbire i problemi dell’impero commerciale Lombardini, la crisi generale del settore edilizio e il trauma della cessione di Italcementi dalla famiglia Pesenti ai tedeschi di Heidelberg Cement con 430 esuberi.

A giugno del 2014, proprio mentre il sindaco Giorgio Gori metteva per la prima volta la fascia tricolore, il Creberg è stato assorbito dal Banco Popolare e, pochi giorni fa, i soci bergamaschi sono rimasti senza rappresentanza nella nuova formazione tra Banco Popolare e Bpm. L’ex Popolare di Bergamo, dominata a lungo da Emilio Zanetti, è finita dentro Ubi. Il nuovo istituto ha conservato la sede dietro viale Roma, in città bassa, e mantiene un bergamasco alla guida del consiglio di sorveglianza, Andrea Moltrasio, ma non è più un affare riservato ai locali che lo scorso febbraio hanno voluto distinguere la loro voce dal coro riunendosi in un “patto dei mille” guidato da Zanetti in persona. Fra gli azionisti, che controllano il 2,3 per cento della banca, c’è il nocciolo duro dell’economia cittadina con l’industriale meccano-tessile Miro Radici, presidente di Sacbo, Alberto Barcella, numero uno della Mobili Barcella, i Pesenti, il patron dell’Atalanta Antonio Percassi, i Bosatelli della Gewiss, Gianfranco Andreoletti (materie plastiche), Matteo Tiraboschi di Brembo e, dulcis in fundo, la potente e ricca diocesi di Bergamo.

Il sindaco democrat, il molto mediatico Gori, non vuole sentire parlare di deindustrializzazione, di debanchizzazione, di demaguttizzazione (magut è l’inarrestabile muratore di Bergamo). Ma in fondo non gli dispiace amministrare da due anni una città che si sta trasformando in qualcosa di completamente diverso dopo un quinquennio di amministrazione di destra con l’ex missino Franco Tentorio. Gori ha una biografia molto da self made Bergamo man. Figlio di un dipendente della Montedison, ha frequentato le scuole medie nella Mestre avvelenata dal petrolchimico, ma ha saputo costruirsi una strada fino a una delle dimore più lussuose della Città Alta, in via Porta Dipinta.
Cattolico praticante ed ex di “Azione e libertà” al liceo classico Paolo Sarpi, un movimento che si riuniva nella sede del partito liberale dove, negli anni Settanta, c’erano solo lui, Andrea Moltrasio e alcune ginnasiali innamorate, Gori è ospite fisso dei rotocalchi grazie al matrimonio con l’anchorwoman Mediaset Cristina Parodi. È un ex manager Mediaset lui stesso e inventore di format tv con Magnolia, che ha fondato nel 2001. Oggi Gori ha 56 anni e nessuna intenzione di essere un po’ meno ambizioso di quanto sia stato per tutta la vita.

È stato fra i primi, su imbeccata dell’amico Luca Sofri, a capire il potenziale di Matteo Renzi, tanto da essere il regista delle 100 proposte alla Leopolda dell’ottobre 2011. Renzi è forse troppo simile al suo ex consulente in comunicazione per amarlo davvero, e inoltre meno bello e meno ricco. Così lo ha sedotto, messo a bagno nell’umiltà delle delibere di consiglio comunale e solo da poco riavvicinato scegliendo Bergamo per avviare la sua campagna per il sì al referendum, con Gori ospite felice e primo fra i pasdaran della riforma costituzionale.
Per adesso gli tocca vantare la cifra record di 9 formaggi con marchio dop presenti nella provincia, parlare di “brand Donizetti” da lanciare in un festival prossimo venturo con l’amichevole collaborazione del finanziere melomane Francesco Micheli, consigliere della Scala. Ma in primo piano resta la fierezza di Bergamo seconda provincia europea per valore aggiunto (9,7 miliardi di euro contro i 10 della prima, la poco amata Brescia). Il sindaco, che non ha perso la narrativa da imprenditore e manager, giura sul modello industriale 4.0 quando molti profani ancora si chiedono che cosa sia il 2.0. Cita le eccellenze di Innovatio (1 miliardo di euro di ricavi in sei anni di vita) e della Brembo di Alberto Bombassei, ex vicepresidente di Confindustria con un passaggio fra i montiani di Scelta Civica prima di diventare riformista di rito goriano.

La boa dell’industria rassicura anche perché la locomotiva economica dell’aeroporto presenta aspetti problematici. Il principale è la dipendenza da Ryanair, che trasporta l’80 per cento dei passeggeri. Bisogna pregare che san Micheal O’ Leary, il pittoresco fondatore della compagnia low-cost, non si faccia tentare da altri scali e che la Brexit non guasti la festa. Il concorrente più pericoloso è Malpensa. È un concorrente interno perché la Sea, che gestisce Malpensa e Linate, è azionista di Sacbo, la società di gestione di Orio, partecipata anche dal Comune bergamasco e dalla Provincia. La fusione Sacbo-Sea, delineata dal business plan dell’influente ex rettore dell’università di Bergamo, Stefano Paleari, è data per fatta ed è slittata soltanto per aspettare l’elezione del nuovo sindaco di Milano. Beppe Sala è già d’accordo con le linee generali del programma (Sea al 60-65 per cento e Sacbo al 35-40 per cento della newco).

Anche la Lega e Forza Italia, o quel poco della Lega e di Forza Italia che rimangono nei dintorni di Pontida, spingono sullo sviluppo di Orio con proposte a volte fantasiose, come quella dell’assessore regionale Alessandro Sorte, bergamasco di Treviglio. Per risolvere il collegamento problematico fra lo scalo e Bergamo, Sorte ha ipotizzato una funivia. Quando gli hanno fatto notare che una funivia con i suoi cavi sospesi in mezzo agli aerei è pittoresca ma poco pratica, Sorte ha rilanciato con una funivia dotata di partenza sotterranea. Si troverà qualcos’altro per preservare la sicurezza dei voli e un flusso turistico maggiore perché Orio vuole crescere ancora, nonostante l’impatto ambientale già molto forte sul quartiere di Colognola. L’idea della Sacbo di prendersi lo scalo bresciano di Montichiari, acquisito dalla veneziana Save e poi svuotato di voli, sembra tramontata ma non si esclude un ritorno di fiamma.

Resta il nodo dei collegamenti via terra verso ovest. Delrio ha stanziato 7 milioni di euro per il progetto esecutivo di una nuova linea ferroviaria tra Milano e Bergamo che migliori i tempi di percorrenza dei 50 chilometri (48 minuti, a una media da convoglio borbonico). Anche qualche treno più presentabile aiuterebbe. Poi bisogna vedere se Bergamo è pronta a diventare un’altra delle città italiane devastate dal turismo e se il sindaco, con i suoi amici della Città Alta, è disposto a consentirlo. Il suo futuro politico è allineato al cronoprogramma renziano. Lo delinea Gori stesso, senza turbamenti per le sconfitte a Roma, Napoli e Torino: «Adesso si vince il referendum. Poi si va a votare alle politiche del 2018». Lì il fondatore di Magnolia può giocarsi una chance di governo, che non esclude, mentre esclude di correre da governatore nel febbraio 2018.

In alternativa al Pirellone e a Roma, c’è sempre un secondo mandato da sindaco e da consigliere-ombra del premier. Il suo protettore ai tempi di Canale 5, Enrico Mentana, gli ha attribuito un ruolo decisivo nelle nomine Rai, riempita di ex partner di Gori come Ilaria Dallatana, sua socia alla fondazione di Magnolia, Antonio Campo Dell’Orto, suo vice a Canale 5, Daria Bignardi, presentatrice di format Magnolia e moglie dell’amico Sofri. Anche se ha una bella moglie, tre figli, una dimora faraonica, Gori non dimentica l’umiltà nella fede e nella politica. Visita la camera ardente del cardinale centenario Loris Capovilla, memoria storica del papa buono, e bergamasco, Giovanni XXIII. Ordina al suo capo di gabinetto Christophe Sanchez, ieri autore dei programmi tv Camera Cafè e Scherzi a parte, di imporre restrizioni orarie alla ludopatia bergamasca (2 mila euro di spesa media pro capite annuale). In modalità laica si prende la briga di inaugurare il Pd Point di Gallarate (Varese) «perché me l’hanno chiesto» a costo di accollarsi i sarcasmi varesotti: «il Pd Point di Gallarate sembra la nuova sede di Prada», scrive sul web un militante-gufo. Gori non se ne cura. L’ex giovane liberale che diventò socialista, berlusconiano, antiberlusconiano, poi renziano, continua a puntare su se stesso. Se lui aiuta Bergamo, Bergamo aiuterà lui.

 


Festa de L’Unità, a confronto i sindaci della Frecciaorobica

FestaPDE partita la festa nazionale de L’Unità dedicata alle piccole e medie imprese, ospitata dalla federazione bergamasca Pd nell’area del campo sportivo di Torre Boldone e in programma fino a domenica 3 luglio. A inaugurare questi dieci giorni di musica e dibattiti è stato il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina .

Il programma continua stasera, alle 21, con il  “Confronto tra i sindaci della Frecciaorobica”, Giorgio Gori, sindaco Bergamo e Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e vicepresidente Anci.

  • Giovedì 30 giugno, ore 21: “Aree mercatali e direttiva Bolkestein” – Mario Barboni, consigliere regionale Pd; Mauro Dolci, vicepresidente nazionale Fiva Ascom Confcommercio; Maurizio Innocenti, presidente nazionale Anva Confesercenti; Mauro Parolini, assessore commercio, turismo e terziario Regione Lombardia; Vinicio Peluffo, deputato Pd, commissione Commercio Camera dei deputati; Giulio Zambelli, presidente Anva Bergamo.
  • Venerdì 1° luglio, ore 19: “Le infrastrutture per lo sviluppo delle PMI”, incontro con Graziano Delrio, Ministro delle infrastrutture e dei trasporti
  • Sabato 2 luglio, ore 12 (in occasione della giornata mondiale delle cooperative): “Lavoratori che si fanno Impresa: il Workers buyout tra locale e globale” – Bruno Roelants du Vivier, segretario generale di Cecop-cicopa, organizzazione internazionale delle cooperative di lavoro e sociali; Ferdinando Piccinini, segretario generale Cisl Bergamo; i soci lavoratori della Coop. Sul Serio di Ponte Nossa; saluti e interventi di Giuseppe Guerini, presidente Confcooperative Bergamo; Attilio Dadda, presidenza Legacoop Lombardia; Camillo De Berardinis, amministratore delegato Cfi; Matteo Rossi, presidente Provincia di Bergamo, Jacopo Scandella, consigliere regionale Pd. A seguire “Pranzo della cooperazione” (antipasto, primo, secondo e contorno, vino, acqua e caffè a 12 €).
  • Sabato 2 luglio, ore 18,30: “Quali politiche per lo sviluppo del Paese?” – Claudio De Vincenti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio; Paolo Agnelli, Presidente nazionale Confimi; Franco Martini, segreteria nazionale Cgil; Antonio Misiani, deputato Pd; introduce Alberto Bellini, responsabile Impresa e Lavoro Pd città di Bergamo; modera Fabio Paravisi, Corriere della Sera Bergamo
  • Domenica 3 luglio, ore 18,30: “Lo statuto del lavoro autonomo e il lavoro agile” – Filippo Taddei, responsabile nazionale economia e lavoro Pd; Marco Leonardi, consulente tecnico del Ministero dell’Economia e delle Finanze e professore di Economia all’Università di Milano; Gigi Petteni, segreteria nazionale Cisl; introduce Lucio Imberti, professore di Diritto del lavoro all’Università di Milano; intervengono rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori autonomi e rappresentanti degli organismi di pari opportunità della Provincia di Bergamo; modera Francesca Belotti de L’Eco di Bergamo.

Il programma della Festa dell’Unità nazionale PMI a Torre Boldone

 

 


Fusione tra cinque comuni bergamaschi, via libera al referendum

Fusione di Comuni, sarà indetto il referendum anche in provincia di Bergamo. Ieri è arrivato il via libera dalla Commissione Affari Istituzionali della Regione, presieduta da Carlo Malvezzi (Ncd), alla consultazione per l’aggregazione dei Comuni bergamaschi di Cerete, Fino del Monte, Onore, Rovetta e Songavazzo, che fanno parte di un contesto territoriale già omogeneo. Di essi Rovetta è il più popolato (con il 48% della popolazione complessiva), mentre il più “piccolo” è Onore, con soli 867 abitanti, sulle rive del torrente Gera. L’interesse per le fusioni nasce, per i piccoli Comuni, dal bisogno di una rappresentanza politico-amministrativa più incisiva e dalla necessità di realizzare obbligatoriamente la gestione associata di tutte le funzioni  fondamentali nel medio periodo. Il via libera ai referendum è stato dato dalla Commissione all’unanimità.