Referendum, perché anche Gori rischia il contraccolpo

Giorgio Gori
Giorgio Gori

Non c’è solo Matteo Renzi a guardare con attesa e trepidazione il fatidico 4 dicembre, giorno scelto per consentire agli italiani di dire cosa pensano della riforma costituzionale. Quella è una data dirimente. Il verdetto che uscirà dalle urne è in grado di modificare (in diverse gradazioni: dallo stroncare al rallentare) una carriera politica. Improvvidamente il premier lo ha detto ad alta voce dall’esordio della campagna elettorale: se perdo me ne vado a casa. Poi ha cercato di correggere il tiro, ma hai voglia di dire che la personalizzazione è un errore se poi vai in Tv tre volte al giorno a impersonificare le ragioni del Sì. Ed è quindi evidente che il 4 dicembre la stragrande maggioranza di chi andrà a votare darà un giudizio sull’operato del presidente del Consiglio, altro che sul bicameralismo paritario o sulle modifiche del titolo V.

Ma quel giorno potrebbe subire uno scossone, positivo o negativo, anche la carriera del sindaco di Bergamo. E che c’azzecca direte voi? C’azzecca eccome, invece. Perché Giorgio Gori, al di là delle smentite ufficiali che come sempre sono utili ad incartare il pesce, ambisce a lasciare Palazzo Frizzoni per lanciare la sfida al presidente della Regione Roberto Maroni nelle elezioni che si terranno nel 2018. Basta osservare le sue mosse degli ultimi mesi per scacciare qualsiasi dubbio. Le comparsate televisive (le vecchie amicizie vengono utili), le esibizioni canore in piazza a Cremona con i collegi sindaci di Brescia e Cremona, la “finta” polemica con Renzi sulla mancanza di un Patto per la Lombardia. Indizi precisi e concordanti che, direbbe un avvocato, costituiscono più di una prova. E d’altra parte, ad adiuvandum, non è stato lo stesso Umberto Ambrosoli (già impalpabile sfidante di Maroni nel 2013) a dire che la prossima candidatura a Palazzo Lombardia se la giocano Giorgio Gori e Maurizio Martina?

La strada, insomma, è tracciata. Se non fosse che di mezzo c’è quel maledetto (o benedetto) 4 dicembre. Domanda: se al referendum vincesse il No, cioè se Renzi prendesse una bastonata in testa, che ne sarebbe delle ambizioni goriane? Sarà utile chiederselo perché, al di là delle iniziative personali e della considerazione di cui gode per il suo lavoro a Bergamo, per arrivare ad ottenere la candidatura Gori può far leva solo sul sostegno di Renzi e dei suoi seguaci. È la classica situazione in cui i latini ricorrevano all’icastico “simul stabunt, simul cadent”. Se cade il primo, crolla anche il secondo. Non ci vuole una grande immaginazione a prevedere che se dovesse prevalere il No (ad oggi più probabile che possibile) nel Pd si scatenerà una faida con morti e feriti. Primo fra tutti il premier. E con lui collaboratori, amici, cortigiani e cortigiane di infimo livello di cui, alla faccia della rottamazione innovativa, in soli due anni ha riempito luoghi di governo e sottogoverno.

Le ricadute sarebbero immediate sia in Lombardia che a Bergamo. Dove, al netto di un consenso di facciata che gli tributano nelle sedi ufficiali, molti esponenti di punta del Pd non nutrono nei confronti di Gori una soverchia simpatia. L’uomo è intelligente, scaltro, abile nel tessere relazioni e strategie. E indubitabilmente sta facendo un discreto lavoro a Palazzo Frizzoni, pur se sbilanciato sui grandi progetti (in larga misura privati) più che sulla quotidianità e con l’altrettanto innegabile aiuto della buona sorte che fa venire a maturazione proprio in questi mesi interventi lungamente attesi. Ma la sua tendenza ad accentrare tutto su di sé, in questo molto renzianamente, è motivo di insofferenza trattenuta a fatica. Senza trascurare qualche uscita a vuoto, come quella della democrazia ad uso solo dei colti post Brexit, che ha fatto venire qualche dubbio sulle sue capacità politiche. Ciò detto, in politica pregi e difetti contano relativamente. Rilevano i rapporti di forza, piuttosto. E allora un Renzi azzoppato (no, non uscirà di scena nemmeno in caso di sconfitta, l’uomo è troppo ambizioso per rassegnarsi a tornare a Rignano sull’Arno) determinerà un bel caos dentro il Pd con l’altrettanto facilmente prevedibile riposizionamento di correnti e correntine. Che ne sarà di Gori a quel punto? La risposta è vicina. Basta solo aspettare un mese.

 

 


L’Italia vuole dare lezioni a Bruxelles, ma senza avere fatto i compiti a casa

bruxelles-unione-europeaSiamo in tempi di manovra. L’Italia sta litigando con l’Europa per qualche decimale di Pil (Prodotto interno lordo) in più di flessibilità, che poi vorrebbe dire avere la possibilità di fare più debiti. Formalmente questo viene richiesto per buoni motivi, come il riconoscimento delle clausole eccezionali per spese legate ad eventi (ci si augura) straordinari, come il terremoto e i migranti. Però si può pensare che per una ragione o per l’altra tutti i Paesi possono trovare eccezionali buoni motivi per spendere più del consentito e sforare dal piano di rientro. Niente di male, in questo, se però un piano di rientro lo si ha. Se dalle percentuali si passa ai numeri assoluti – e sarebbe bene che i valori andassero sempre di pari passo – sembra di capire che l’Italia non ce l’abbia e la spending review sia un bell’esercizio di stile, passato ormai nel dimenticatoio. E va precisato che non si sta ancora chiedendo un rientro dal debito pubblico, cioè del cumulo dei deficit, ma “solo” della tendenza alla riduzione del disavanzo annuale, in modo che il debito pubblico, che ormai sfiora i 2.250 miliardi di euro, cresca almeno un po’ meno.

Gli unici dati attualmente completi sono quelli del 2015. E mostrano, secondo quanto comunicato dall’Istat, che la spesa per interessi passivi (ovvero l’onere al servizio del debito pubblico), è scesa l’anno scorso di 6,12 miliardi, passando da 74,33 miliardi a 68,21 miliardi, che rappresentano il 4,2% del Pil, la zavorra che altri Stati con minor debito del nostro non hanno. Sessantotto miliardi, per dare l’idea, sono quasi due volte e mezza la manovra appena varata. Il “risparmio” per minori interessi realizzato nel 2015 non è insignificante: vale lo 0,4% del Pil ed è stato “regalato” dall’appartenenza all’euro che ci consente di godere di tassi ben più bassi di quelli che avrebbe l’Italia da sola, con la vecchia lira. Il governo può metterci del suo, normalmente in peggio – come ci si ricorda per i problemi legati allo spread, che essenzialmente è il supplemento che si paga negli interessi per il rischio Paese – ma se non ci fosse l’Europa con le sue regole, la manovra avrebbe dovuto essere più alta  almeno di 6 miliardi, da recupere in qualche modo, probabilmente maggiori imposte. Negli anni, l’appartenenza all’euro si può ritenere ripagata solo con i minori interessi sul debito pubblico, anche se quello dei tassi bassi è un beneficio che probabilmente non è per sempre: verrà almeno parzialmente ridotto quando il costo del denaro si rialzerà, ma al momento è quello che permette all’Italia di presentarsi, seppure con un po’ di faccia tosta, a chiedere una deroga sulla rigidità dei conti.

Il deficit netto del 2015 dell’Italia, infatti, è stato pari al 2,6% del Pil: in valore assoluto si tratta di 42,93 miliardi, una cifra che è ben più bassa di quanto si paga in interessi sul debito pubblico. Se ipoteticamente non ci fossero il debito e i relativi interessi, l’anno scorso l’Italia si sarebbe trovata con 25 miliardi da spendere (praticamente l’importo della manovra) in investimenti o in quello che gli pare. Eppure nel 2015, rispetto all’anno precedente il deficit è calato di circa 5,5 miliardi. Questo è l’elemento che permette di dire che qualcosa è stato fatto per la riduzione, ma in realtà se non ci fosse stato il calo degli interessi sul debito per 6 miliardi, dovuto all’Europa più che all’Italia, il deficit non sarebbe sceso. E in ogni caso il saldo primario (ovvero il deficit al netto della spesa per interessi), che pure è rimasto positivo, si è ridimensionato, confermando che l’Italia non ha contratto la spesa, ma l’ha allargata, anche quando non c’era di mezzo il terremoto.

L’Italia che vuole dare lezioni a Bruxelles, quindi, si presenta all’esame senza avere fatto i compiti a casa che le erano stati richiesti e per i quali si era impegnata, se si guardano i valori assoluti. Il quadro è un po’ migliore quando si guarda il rapporto sul Pil che però permette margini di movimento più discrezionali rispetto ai valori assoluti. Il rapporto deficit/Pil è il risultato di una frazione e per farlo diminuire si può ridurre il numeratore (la spesa finanziata a disavanzo) oppure aumentare il denominatore (ovvero il prodotto interno lordo). Se si parla di decimali, come si sta parlando (che poi si trasformano in miliardi di euro), decisiva è la crescita economica. Alzare il Pil può far diminuire il rapporto, anche mantenendo invariata la spesa o il deficit. Ma se non si è capaci di ridurre la spesa, come si è dimostrato anche nel 2015, si può ambire al massimo a mantenere invariato il rapporto. Potrà anche essere pensar male, ma la speranza del governo di un Pil in crescita maggiore di quanto viene creduto possibile da tutti gli analisti non è solo espressione di stimolo ottimista, ma è la strada per riuscire ad avere di più da spendere senza dovere intervenire con la sempre spiacevole e impopolare spending review. Sempre che poi non servano per finanziare gli eventuali interessi in più richiesti al servizio del debito pubblico.

 

 


Cartelle esattoriali, quella rottamazione che umilia gli onesti

equitalia“Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdàmmoce ‘o ppassato, simmo ‘e Napule paisà”. E poi non dite che Matteo Renzi conosce solo “La mi porti un bacione a Firenze”. No, no, il premier ha nel sangue e nella mente la più classica delle melodie partenopee. Nei giorni scorsi le sue note sono risuonate nell’austero cortile di Palazzo Chigi mentre nella sala stampa il presidente del Consiglio illustrava i contenuti della legge di Stabilità per il 2017. Quando è stata proiettata la slide che annunciava la “rottamazione” delle cartelle esattoriali (ma anche delle multe), il “chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato” è diventato assordante.
Saltellavano e cantavano premier e ministri, compreso il grigio Pier Carlo Padoan, e in contemporanea nel Paese si univano al coro migliaia di evasori fiscali, finti poveri, filibustieri, furbi di tre cotte e delinquentume vario. Tutti in festa per un regalo di Natale arrivato con largo anticipo. Il governo ha deciso di condonare interessi legali, more e aggi applicati da Equitalia (il Moloch da chiudere ma che agiva pur sempre su direttive dell’esecutivo). Il che, tradotto per il volgo, significa, per chi non vorrà continuare a fare il furbo nella speranza-certezza che un altro lavacro prima o poi arriverà, uno sconto da 50 al 75 per cento delle somme dovute all’Erario.

Tutto, spiega chi la sa lunga, per racimolare 4 miliardi per quadrare i conti della manovra finanziaria. Ma in realtà, come è evidente da altre decisioni contenute nella stessa legge di Stabilità, per cercare di raccattare qua e là i voti necessari ad evitare che il referendum del 4 dicembre si trasformi nel capolinea della luminosa carriera del Ganassa di Rignano sull’Arno. Perché a questo siamo ridotti, noi poveri contribuenti ligi a dovere che rispettiamo al millesimo le scadenze e gli impegni. Dobbiamo passare per fessi (qualcuno ha icasticamente preferito la definizione di c..oni) per consentire ad un ragazzotto propostosi come innovatore e presto rivelatosi imbevuto di familismo e clientelismo come nemmeno i peggiori democristiani della Prima Repubblica di continuare a raccontarci che lui è arrivato “per far ripartire l’Italia”.

Per farla ripartire, lo fa, non c’è dubbio. Il dramma è che ci sta spingendo verso il baratro. In anni di tassi ridotti ai minimi storici, in una stagione in cui davvero si potevano porre la basi per una incisiva inversione di rotta, sta sperperando risorse a destra e manca (dagli 80 euro agli incentivi alle assunzioni) solo per sostenere le sue campagne elettorali. Il condono mascherato delle cartelle esattoriali è solo l’ultima schifezza. La più sublime perché spacciata come misura a favore dei contribuenti vessati (e quelli che pagano regolarmente che cosa sono?) ma anche la più vergognosa perché attesta, caso mai ce ne fosse bisogno, quanto marcio sia un Paese che di fronte ad una plateale canonizzazione dei disonesti (sì, certo, c’è anche una quota di italiani che si è trovata in difficoltà per cause oggettive, ma è una esigua minoranza) non si scandalizza e non reagisce tributando a chi si fa artefice di certe manovre il pubblico ludibrio che si merita.
Quando vanno in cavalleria operazioni di questo genere diventa inutile accapigliarsi sulla bontà, presunta o reale, della riforma della Costituzione. Anzi, semmai questo è un motivo in più per chiedersi se sia davvero il caso di concedere più potere e maggiore libertà d’azione a chi già oggi sta dimostrando di avere scarso o nullo rispetto per il senso civico dei cittadini onesti.

 

 

 


Ambrosoli: “Con Martina o Gori il centrosinistra può conquistare la Regione”

Regione LombardiaUmberto Ambrosoli, lo sfidante di Roberto Maroni nel 2013 per la presidenza della Lombardia e poi coordinatore del centrosinistra al Pirellone, ha deciso di dimettersi da consigliere regionale. Avrebbe potuto aspettare gennaio e la formalizzazione del suo nuovo incarico di presidente della Banca Popolare di Milano, ma dopo qualche settimana di riflessione privata ha preferito salutare tutti prima. In una intervista rilasciata ad Andrea Senesi, Corriere della Sera – edizione di Milano, Ambrosoli alla domanda “Il centrosinistra può battere Maroni o quello che sarà il candidato del centrodestra nel 2018 in Lombardia?” ha così risposto: “«Io credo di sì. Rispetto al 2013 è cambiato il quadro politico: ora il Pd e il centrosinistra sono più solidi e con leadership salde». Il suo candidato ideale per la conquista della Regione? «Nel 2013 vincemmo in tutte le città capoluogo, esclusa Varese, e perdemmo invece nei piccoli centri, nella Lombardia più profonda. Io credo che due ottimi candidati, entrambi capaci di parlare con quel tipo di elettorato sul territorio, possano essere per motivi diversi il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina e il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Con loro il centrosinistra potrebbe conquistare per la prima volta la Lombardia»


Gori svetta nei sondaggi? Allora vi dico cosa penso di lui

 Index Research ha espresso il proprio giudizio. Detto così, e considerato che praticamente nessuno sa cosa diavolo sia Index Research, immagino penserete ad una di quelle agenzie di rating che, di tanto in tanto, ci riempiono di AAA, BBB, CCC, e delle quali, nella vita reale, non importa nulla a nessuno. Niente di più sbagliato: dietro il nome esotico, si nasconde un istituto di ricerche demoscopiche, utilizzato da La 7 per inchieste, sondaggi e simili passatempi televisivi. Questa volta, la materia d’indagine era, per noialtri, tutt’altro che peregrina, perché riguardava in prima persona il nostro sindaco, che, alla luce dei risultati di Index Research è risultato essere il più amato dagli Italiani, o, perlomeno, dai propri concittadini, con un portentoso 62,6% di gradimento. Ora, vi confesso di non essere esattamente edotto sul funzionamento di questi sondaggi e di non sentirmela di importunare il caro Nando Pagnoncelli per domandargli lumi in proposito: presumo, tuttavia, che si basino su delle telefonate ad un campione significativo di popolazione.

A me, personalmente o a qualcuno dei miei conoscenti, nessuno ha chiesto nulla, ma non ho ragione di dubitare che un congruo manipolo di bergamaschi sia stato contattato ed abbia espresso un parere positivo su Gori e sul suo operato. Io, se permettete, sfruttando l’indubbio vantaggio di detenere una rubrichetta su di un vetusto ed onorevole giornale, il mio parere l’esprimo qui. Per cominciare, devo premettere, per onestà, che, nonostante una disparità ideologica che rasenta l’antipodo, Gori, a suo tempo, l’ho votato: anche per questo mi sento autorizzato a commentarne il successo demoscopico. Distinguerei almeno tre voci, dovendo analizzare il suo operato da sindaco: valore, idee ed azioni.  Sul valore non ho dubbi: lo conosco bene e so che è persona che vale parecchio. Anzi, vi dirò che, secondo me, è uno che vale più di quel che appare, anche se sono sicuro che molti di voi penseranno: ma come, se è uno che ha costruito sull’apparire la sua fortuna? Gori è tutt’altro che un fesso vanesio, costruito ad arte da uno spin doctor e da un tecnico dell’immagine: è persona, semmai, contraddittoria, diviso com’è tra la lotta per la vittoria ed un fondo di umanitarismo utopico ottocentesco. Immaginatevi un Proudhon che diriga la Chase Manhattan Bank: ecco, ho in mente qualcosa del genere. Ma, quanto a valore, credetemi, non si discute.

Magari, possiamo discutere sulle idee: alcune sono sue, altre nascono da una sintesi di molteplici sistemi ed altre, infine, sono altrui. Molte di queste idee, come quella dell’identità turistica di Bergamo, dello Stimmung orobico, di una visione un tantino millenaristica ma suggestiva della nostra città, mi trovano d’accordo. Altre le avrei addirittura esasperate: l’operazione piste ciclabili, ad esempio, è una bella incompiuta. Altre, come l’invenzione di happenings un po’ fighetti in Città Alta o come certe sbrodolate iniziali su accoglienza ed immigrazione (che, per fortuna, sulla scorta della dura realtà, ha ben bene corretto al ribasso), mi hanno decisamente lasciato perplesso. Ma ognuno ha le sue, di idee: mica posso bocciare un sindaco perché la pensa diversamente da me sul vagabondaggio panchinaro. O forse sì, ma non è questo il punto. Il punto, nel caso specifico di Gori e della sua amministrazione, sono le azioni. Anche qui, machiavellicamente, distinguerei tra azioni compiute, incompiute ed annunciate, oltre che tra azioni direttamente ascrivibili al sindaco o farina del sacco di suoi assessori, che lui abbia semplicemente avallato. Le azioni compiute sono abbastanza limitate, ma questo trova giustificazione anche nel poco tempo a disposizione per mettere in campo certi progetti di più ampio respiro: per quel poco che si è visto, il mio giudizio è, tutto sommato, positivo.

Noto una certa tensione al fare e al voler affrontare alcuni snodi, come la Montelungo o Astino, che potrebbero influenzare non poco il benessere dei cittadini di domani. Le azioni incompiute riguardano operazioni strutturali, e anche qui darei tempo al tempo: Roma non è stata fatta in un giorno e anche per Bergamo ventiquattr’ore mi sembrano pochine. Quanto alle azioni annunciate, mi aspetto una ben più decisa svolta verso la vivibilità di questa povera città: il traffico, i trasporti, la logistica sono temi di assoluta priorità e si legano un po’ con tutte le problematiche essenziali per un cittadino, dalla salute al tempo libero. Le note veramente dolenti vengono dalle azioni altrui, che Gori, di riffa o di raffa, ha vidimato col suo sigillo: la ristrutturazione dei servizi demografici e di stato civile, compresa la beffa dei totem che nessuno usa, pare che si stia trasformando in un’emiparesi burocratica. Le attività culturali ed educative, se escludiamo un’idea un po’ provinciale di cultura intesa come pubblico alle mostre, sono abbastanza desolanti. La gestione di Città Alta mi pare, talvolta, à la Billionaire, e così via. Ecco, questa voce, la scelta della squadra di governo, l’avrei inserita in un’indagine demoscopica, così, per curiosità: ottimo pranzo, peccato per i contorni, insomma. Ma, si sa, io sono per gli uomini soli al comando….

 


Sicurezza, dalla Regione altri 7 milioni per videosorveglianza e polizie locali

Regione Lombardia, anche per il 2017, ha deciso di rispondere concretamente al grido d’allarme del territorio lombardo in tema di sicurezza. “E lo fa – ha spiegato l’assessore alla Sicurezza, Protezione civile e Immigrazione, Simona Bordonali, durante la giornata di apertura di ‘Reas’, il salone dell’emergenza in corso di svolgimento a Montichiari – stanziando altri 7,6 milioni che andranno a Comuni e Unioni di Comuni per installare impianti di videosorveglianza e dotare le polizie locali di strumentazioni adeguate”.  “Dopo gli 8,6 milioni messi disposizione nel 2016 – ha proseguito l’assessore – con i quali abbiamo finanziato 169 progetti, replichiamo anche per il 2017. Purtroppo abbiamo poco margine di manovra in materia, ma credo che destinare risorse economiche per progetti di prevenzione e strumenti di supporto agli agenti sia la risposta più concreta che si possa fornire ai cittadini”.

I NUOVI BANDI

Due i bandi approvati per il 2017: il primo, da 5 milioni di euro, è destinato alla realizzazione, all’implementazione e alla sostituzione di sistemi di videosorveglianza esistenti. L’altro, da 2,6 milioni di euro, favorirà l’acquisto di dotazioni tecnico/strumentali, il rinnovo e l’incremento del parco autoveicoli della polizia locale. “In due anni abbiamo stanziato oltre 16 milioni di euro per gli Enti locali lombardi. La sicurezza dei cittadini è un bene primario – ha aggiunto Bordonali – e la Regione Lombardia vuole agire concretamente, in risposta al nulla delle chiacchiere del Governo centrale. Lo scorso anno abbiamo ricevuto 820 richieste e per un totale di oltre 45 milioni di euro. Siamo riusciti a finanziare 169 interventi, tra cui quelli presentati dai comuni di Milano, Brescia, Varese, Como, Cremona, Mantova, Bergamo e Sondrio”. “Avevamo promesso di investire altre risorse promuovendo altri bandi e siamo riusciti a mantenere l’impegno. E’ evidente – ha concluso Bordonali – che l’unica strada percorribile per avere disponibilità economiche tali da soddisfare tutte le richieste sia quella dell’autonomia fiscale della nostra regione”.


Referendum, quei paladini del No tra maleducazione e presunzione

La personalizzazione, come il fumo per la salute, nuoce al referendum. Finora se ne è parlato per l’improvvida scelta, poi malamente rimangiata, del presidente del Consiglio di avviare la campagna elettorale sulla consultazione popolare all’insegna del “se perdo, me ne vado a casa”. E’ stato facile osservare che in questo modo Matteo Renzi ha offerto ai suoi avversari, di ogni genere e specie, una straordinaria occasione per tralasciare completamente il merito della riforma costituzionale e per dedicarsi anima e corpo ad orchestrare l’offensiva per mandare a casa premier e governo. Ed infatti, il variegato e talvolta variopinto fronte del No ha un unico collante nell’obiettivo finale: la cacciata del Ganassa di Rignano sull’Arno.
Ma anche da quest’altra parte non è che si scherzi con la personalizzazione. Ci sono personaggi che si sentono investiti del ruolo di alter ego del presidente del Consiglio e che si spendono ogni oltre limite per contrapporvisi. Generando, anche in chi magari in linea di principio condivide le loro posizioni, autentiche crisi di rigetto quando non di insopportabile fastidio. È il caso, tanto per fare il primo nome, di Marco Travaglio. Capacità e intelligenza non gli fanno certo difetto, anzi. Ha un archivio straordinario e sa sempre trovare solidi argomenti per le sue polemiche. Nulla da dire, quindi, sulla preparazione. Ma sui modi e i toni, eccome, se c’è da eccepire. Perché, per esempio, stravolgere ad arte i nomi degli interlocutori, perché fare la parodia delle posizioni altrui, perché trattare tutti come dei deficienti o dei mascalzoni o degli inetti?

Travaglio ama spesso definirsi un “figlio” (professionale) di Montanelli. Vero, nel senso che con il grande Cilindro ha iniziato la sua brillante carriera. Ma il suo Maestro aveva ben altro stile, ben altra classe diciamolo pure. Rispettava gli avversari anche quando ne pensava il peggio possibile. E li affrontava guardandoli negli occhi, non volgendo lo sguardo dall’altra parte come ha fatto il direttore del Fatto nel confronto tv con Renzi (come nel faccia a faccia con Berlusconi del 2013, dove ne uscì ridicolizzato chi voleva fare il fenomeno). Anche qualche sera fa, sempre in un confronto televisivo, il medesimo Travaglio, davvero lontanissimo dalla penna arguta che vergava corsivi sul Giornale montanelliano, si è esibito in un forsennato attacco, un po’ prepotente e maleducato, nei confronti di Graziano Delrio, persona mite e pacata, da molti ritenuto il miglior ministro dell’esecutivo renziano.

Forse converrà interrogarsi se la strategia ad alzo zero non rischi di cadere nello stesso vizio che si contesta al premier. Perché, e qui veniamo ad un altro personaggio che ha sostenuto le ragioni del No in un pubblico duello, la convinzione nelle proprie idee non legittima un senso di superiorità rispetto agli altri, e tantomeno giustifica la strafottenza. Il professor Gustavo Zagrebelsky, al di là dall’aver commesso un evidente peccato di presunzione ad accettare la sfida di Renzi, in tv ha dato mostra di non saper scendere dal piedestallo del cattedratico che si sente investito del dono dell’infallibilità. Est modus in rebus, verrebbe da dire. Il Ganassa si è divertito come un ragazzino (il che non lo assolve, intendiamoci, perché un presidente del Consiglio dovrebbe avere maggior garbo) ad infilzare il professore che non riusciva ad uscire dalla sua leziosità verbale. E alla fine, anche qualche sostenitore del No, di fronte a cotanto spettacolo, si è dovuto chiedere se per caso non si fosse sbagliato.
Poiché abbiamo davanti quasi due mesi di campagna elettorale, vogliamo augurarci che d’ora in avanti da una parte e dall’altra si riesca ad uscire dalla propaganda, dai personalismi, dalla lotta politica di bassa lega, per entrare davvero nel merito della riforma su cui saremo chiamati a votare. La posta in gioco è ben più importante del destino politico di Renzi o del successo professionale di Travaglio. Loro giocano un’altra partita. Evitiamo di farci irretire nel loro gioco.


Verso il referendum, confronto a due voci della Camera civile di Bergamo

La Camera Civile di Bergamo organizza, per il 13 ottobre, dalle 15 alle 18, il convegno “Verso il referendum: la riforma costituzionale al voto – Due voci a confronto”. L’evento, che si terrà presso la sala Sant’Alessandro, in via Garibaldi 4, a Bergamo, sarà l’occasione per discutere sulle ragioni del sì e del no al referendum del 4 dicembre. Cosa cambierà concretamente se vincerà il sì? La fine del bicameralismo perfetto, l’elettività dei senatori, il nuovo procedimento di approvazione delle leggi, le competenze di Stato e Regione, la cancellazione delle Province e del Cnel, l’elezione del capo dello Stato e lo stop ai senatori a vita, saranno alcuni dei temi in discussione. Si confronteranno sul merito della riforma Barbara Pezzini, ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università di Bergamo e Federico Furlan, professore di Diritto costituzionale presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca. Ad introdurre i lavori sarà Ermanno Baldassarre, presidente dell’Ordine degli avvocati di Bergamo. Modererà Marco Amorese, presidente della Camera civile di Bergamo. Così spiega Amorese, “il convegno sarà uno strumento per comprendere i termini della riforma su cui i cittadini saranno chiamati a pronunciarsi. Vuole essere un incontro in cui si affronti il merito delle questioni, al di là degli interessi ed opportunismi politici”. La partecipazione è gratuita è aperta a tutti.

 

 


Referendum, giovedì dibattito con Luciano Violante

Cosa significa cambiare una Costituzione: è il quesito che si sta ponendo la Cisl in relazione al prossimo referendum che servirà a approvare o respingere le modifiche costituzionali presentate dal Parlamento. A questo proposito il sindacato di via Carnovali ha organizzato un dibattito sui contenuti della prossima consultazione con la presenza dell’ex presidente della Camera, Luciano Violante. L’incontro è in programma il 29 settembre, dalle 9.30, alla Sala Mosaico della Camera di Commercio, in piazza Libertà a Bergamo. “Il Paese – spiega una nota della segreteria Cisl di Bergamo – rincorre da lungo tempo una riforma costituzionale sulla quale le forze parlamentari non sono mai state in grado di trovare le convergenze utili. Il bisogno di modernizzare l’Italia, riformando le istituzioni, ha finora trovato sintesi parziali e complessivamente inefficaci. Il referendum confermativo rischia di svolgersi in un clima di scontro che finisce per sottoporre i contenuti alla strumentalizzazione della lotta politica fra il Governo e le opposizioni. Tutto questo è, per la Cisl, inaccettabile. L’organizzazione ha espresso, un convinto sostegno al necessario processo di cambiamento e riforma ed un giudizio positivo nel merito di alcune fondamentali questioni, come il superamento del bicameralismo perfetto, la modifica del Titolo V° della Costituzione, il contenimento dei costi della politica; così come è necessario continuare a battersi per recuperare luoghi, forme e modalità di partecipazione e di rappresentanza delle forze sociali attraverso la legislazione ordinaria. In ciò sta il senso dell’iniziativa di riflessione che la Cisl Bergamo ha organizzato per permettere un approfondimento fuori dai condizionamenti della lotta politica, al fine di informare lavoratori, lavoratrici e pensionati sui contenuti di merito della riforma per poter esprimere un voto consapevole”. Il  programma del dibattito prevede l’introduzione di Ferdinando Piccinini, segretario generale Cisl di Bergamo; gli interventi di Giorgio Gori, sindaco di Bergamo e Matteo Rossi, presidente della Provincia, e la relazione di Luciano Violante. Al termine le conclusioni di Gigi Petteni, della segreteria nazionale della Cisl.


Olimpiadi, il no della Raggi e la malafede dei perdenti

Siamo un Paese con le pezze sul sedere ma vogliamo le Olimpiadi. Abbiamo una capitale sgovernata da decenni e sfregiata da un degrado inarrestabile ma vogliamo le Olimpiadi. Non abbiamo le risorse per mettere in sicurezza borghi e città che alla prima scossa o alla prima alluvione vengono spazzati via ma vogliamo le Olimpiadi. Anche per queste ragioni Mario Monti quattro anni fa disse no alla candidatura di Roma per l’edizione 2020. E nessuno, dicasi nessuno, obiettò. Anzi, la decisione fu lodata come “saggia e responsabile”. Oggi,a fronte di una situazione economica e del bilancio dello Stato ancora peggiore, i silenziosi di ieri urlano tutta la loro rabbia contro Virginia Raggi per il suo rifiuto di continuare l’iter avviato dal suo predecessore Ignazio Marino per la conquista dell’edizione 2024. Uno spettacolo davvero penoso e grondante malafede. I giornaloni son pieni di articolesse inzuppate di indignazione quasi che la giovane sindaca di Roma avesse inflitto un colpo mortale all’immagine, altrimenti splendente, del Paese. Quasi che dir di no alle Olimpiadi fra 8 anni impedisca a chi ci governa con vacue parolone e promesse da mercante in fiera di portare a casa i risultati di cui gli italiani hanno bisogno hic et nunc, qui ed ora.

Si può pensare tutto il peggio possibile della Raggi e del Movimento 5 Stelle, e le prime settimane alla guida della capitale stanno dimostrando quanto dilettantismo e ideologia non aiutino a governare, ma ci vuole molta malafede per contestare una decisione semplicemente coerente. Che i grillini fossero contrari alle Olimpiadi non è mai stato un mistero, al di là di qualche tatticismo o di talune dichiarazioni sibilline. Il loro programma era chiarissimo. Tre mesi fa, non il secolo scorso, si sono presentati agli elettori e i romani hanno tributato a Virginia Raggi il 67 per cento dei voti, più del doppio di quanto conquistato dal suo avversario Roberto Giachetti. Chi oggi ciancia di referendum dovrebbe avere il buon gusto di avere rispetto della democrazia. I cittadini della capitale si sono pronunciati in modo netto, inequivocabile. Chi ha perso malamente le elezioni sta cercando di prendersi la rivincita. Il giochino è fin troppo scoperto. Ma proprio il “plebiscito” tributato a Virginia Raggi, al di là e quasi a prescindere dalle sue capacità (su cui è più che lecito nutrire seri dubbi), dice che chi ha governato Roma fino al giugno scorso ha perso ogni diritto di dire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non è stato forse il Pd a buttar giù in malo modo il sindaco Marino che aveva avviato la candidatura per il 2024? E non è stata forse la gestione del sindaco di centrodestra Gianni Alemanno (per tacer di Mafia capitale) a sconquassare i conti del bilancio comunale?

Non si capisce davvero con quale credibilità parli e giudichi chi, compresi i tanti servi sciocchi che li fiancheggiano nelle redazioni dei giornali, porta sulla coscienza gli sconquassi e il malgoverno che hanno ridotto Roma nello stato penoso in cui versa. Qui non si tratta di non voler sporcarsi le mani né di aver paura di dimostrare di essere capaci di gestire un grande evento senza gli sprechi e le ruberie del passato. È una questione di elementare buon senso: Roma, come tutto il Paese, ha bisogno di ordinarietà, di pulizia, di risanamento, di un governo dei problemi quotidiani. A fronte di chi non ha lavoro o è costretto a vivere con una pensione da fame c’è una classe politica e giornalistca che butta via le sue giornate a parlare di Olimpiadi 2024 e di legge elettorale. Lo stridore non potrebbe essere più lacerante. E allora sia lodata chi, senza tacere tutti gli altri limiti che anzi vanno denunciati senza sconto alcuno, ha avuto la forza di dire stop. Chi non è d’accordo, se come dice ha rispetto della democrazia, se ne farà una ragione.