“Donne che ce l’hanno fatta”, due premi a Bergamo

Tra la campionessa di tuffi Tania Cagnotto, l’atleta paralimpica e conduttrice televisiva Giusy Versace, il sindaco di Barcellona Anna Colau ed Emanuela Carniti Merini, figlia della poetessa Alda Merini e lei stessa scrittrice, anche due rappresentanti bergamasche riceveranno sabato 26 settembre, all’interno della Conferenza mondiale delle donne Pechino +20 a Palazzo Lombardia di Milano, il Premio “Donne che ce l’hanno fatta – edizione Expo 2015”, ideato da Sportello Donna Onlus, da Fondazione Gaia e da Ottomarzotuttol’anno2014 di Pavia.

Maria Teresa Azzola
Maria Teresa Azzola

Si tratta di Maria Teresa Azzola, presidente della Cna di Bergamo, definita nella motivazione «imprenditrice di successo, forte sensibilità per la tutela e la sostenibilità ambientale, impegnata nella diffusione della cultura imprenditoriale e nella promozione dell’imprenditoria femminile, nel 2000 costituisce CNA Impresa donna e promuove la costituzione del Comitato per l’Imprenditoria femminile in seno alla Camera di Commercio di Bergamo». E di Cinzia Romolo, presidente della Fondazione Conti Calepio, realtà che a Castelli Calepio gestisce un centro diurno e una residenza per persone con disabilità.

Il premio è internazionale e viene assegnato a 40 donne, espressione di tanti ambiti di attività, dalle istituzioni alla ricerca, dall’impresa al volontariato, dalla cultura allo sport. È dedicato «alle donne che hanno rotto il tetto di cristallo, stanno resistendo e ce l’hanno fatta a sopravvivere alla crisi e a raggiungere posizioni apicali nelle loro carriere».


«La democrazia ci ha reso esigenti. Forse anche troppo»

Nell’ex chiesa di Sant’Agostino ristrutturata e restituita alla città, la relazione di apertura dell’anno accademico dell’Università di Bergamo del rettore Stefano Paleari tocca nervi scoperti del Paese come la crisi demografica e la necessità di una nuova industria, la scarsa considerazione per i giovani, maltrattati e dimenticati, e la necessità di investire nel futuro, ma chiama anche ciascuno ad una nuova responsabilità.

«Il nuovo patto europeo deve portare ogni Paese – ha evidenziato -, al di là degli egoismi e delle diverse anime, a dedicare una soglia minima della ricchezza al futuro, cioè agli investimenti. Certo non si tratta di un’azione che premia. Spesso chi la decide non la celebra, talvolta nemmeno vi sopravvive. Ma non possiamo rispondere continuamente all’assillo dei sondaggi di opinione. La legittimazione popolare è essenziale, anche per politiche che non la ritroverebbero una seconda volta. La storia ci dice che è stato salvato Barabba e potremmo dire che per sola alzata di mano forse saremmo ancora tolemaici. La democrazia è responsabilità e potere di scelta, è fiducia, il contrario di webcam e streaming che sono una specie di agopuntura permanente e non l’anticamera della dovuta trasparenza».

Più che nella competizione esasperata, il rettore  individua la strada nel raggiungimento dell’aurea mediocritas di oraziana memoria, «significa “ottimale moderazione”, equilibrio, rifiuto di ogni eccesso». «Rendiamoci anche conto che oggi chiediamo davvero molto a chi ci governa e anche la mia relazione va in questa direzione. In altri termini, la democrazia ci ha reso molto esigenti, forse anche troppo. Anche qui l’equilibrio e la moderazione aiutano una società a progredire e a essere più giusta».

  • Ecco la relazione

CRESCITA E DEMOGRAFIA

paleari inaugurazione anno accademico 2015La tenuta degli attuali livelli di benessere, mai visti in precedenza, è una grande questione per i Paesi europei. Se la misura è quella del Prodotto Interno Lordo l’Europa è su valori stagnanti e, in molti Paesi, assai distanti da quelli di 10 anni fa. L’Italia non sfugge a ciò, anzi è l’avanguardia di un declino che ormai rasenta un decennio. Ogni politica non può prescindere dalla situazione di partenza e dalle tendenze, pena la ricerca di obiettivi che risultano non aderenti alla realtà.

Il nostro Paese affronta oggi due grandi questioni che sono state peraltro già fonte di preoccupazione a partire dall’Unità d’Italia e in particolare in occasione delle due Grandi Guerre: un elevato debito pubblico e una decrescita demografica.

Nel corso del 2014 sono nati 502.000 bambini, il numero minimo dall’Unità d’Italia, contro il milione degli Anni Sessanta. Ebbene, con 500 mila nascite ogni anno e un’aspettativa di vita media alla nascita di 80 anni, senza apporti esterni, il Paese passerebbe, a regime, dagli attuali 60 a 40 milioni di abitanti.

Anche a parità di PIL pro-capite, oggi su valori inferiori a quelli di 10 anni fa, perderemmo il 30% della ricchezza complessiva senza che questo automaticamente trascini con sé la riduzione dell’imponente debito pubblico. Anche se la vita media raggiungesse i 100 anni i fatti non cambierebbero; a regime, planeremmo a 50 milioni di abitanti con il 10% della popolazione di età compresa tra i 90 e i 100 anni.

Questa semplice valutazione ci induce a ricercare da un lato, forti guadagni di produttività finalizzati a elevare la ricchezza unitaria, dall’altro a integrare la popolazione con politiche per la natalità e con flussi migratori tali da incrementare il numero di abitanti e ridurne l’età media. Senza crescita della produttività e senza un governo della demografia il sentiero, purtroppo, è tracciato, con tutte le conseguenze socio politiche del caso. La questione non è quindi relativa al se, ma al come. Il non fare è come il far fare al caso e alle pressioni esterne all’Europa, come del resto è evidente negli ultimi tempi.

Con riferimento alla produttività, ormai stagnante o in regresso da anni nel nostro Paese, occorre modificare radicalmente i modelli organizzativi del lavoro, in particolare nella Pubblica Amministrazione che non è soggetta direttamente all’azione schumpeteriana delle forze di mercato. La riforma della Pubblica Amministrazione è efficace se, almeno, ci porta a fare lo stesso con meno o a fare di più con le stesse risorse; e credo che sia velleitario perseguire questo obiettivo introducendo nuove norme senza al contempo modificare l’intera l’organizzazione, le modalità di lavoro e di remunerazione e il modo con cui essa recepisce gli avanzamenti tecnologici.

La crescita della produttività beneficia, inoltre, della qualificazione delle persone; ciò è fondamentale anche per il pubblico, dove al privilegio di non essere assoggettati direttamente alle forze di mercato occorre rispondere con l’alta professionalità e l’elevata produttività. Gli assetti giuridici e amministrativi, prima ancora delle scelte politiche, portano il nostro Paese in tutt’altra direzione.

I GIOVANI

Un secondo aspetto molto correlato alla questione della crescita riguarda l’attenzione verso i giovani.

Già sono sempre meno, sia in termini assoluti che relativi; oggi sono anche spesso dimenticati e mal trattati. Basta guardare alla dinamica della spesa pubblica di questi ultimi anni e anche le prospettive degli anni a venire per accorgersi che le scelte dimenticano i bisogni delle nuove generazioni.

Negli ultimi quattro anni la spesa corrente è cresciuta in termini nominali di 22 miliardi di euro, quella per gli investimenti è, viceversa, ai minimi storici.

Disaggregando la spesa corrente per capitoli, sempre nello stesso periodo, il reddito da lavoro si è ridotto di 4 miliardi di euro, i consumi intermedi sono rimasti nominalmente costanti, il costo delle prestazioni sociali è salito di 24 miliardi di euro, di cui 14 per la sola previdenza.

Fortuna vuole che gli oneri finanziari siano al momento più contenuti che in passato, anche grazie all’integrazione monetaria e ai tassi ridotti dalle politiche della Banca Centrale Europea. Volendo poi disaggregare per funzioni, a fronte di una spesa sanitaria stabile in termini nominali abbiamo assistito al disinvestimento in istruzione e ricerca.

Quando si tagliano gli investimenti, il lavoro e l’istruzione si dà un segnale chiaro di declino e di non attenzione al futuro, si dichiara che questo non è più il Paese per i nostri giovani.

Anche un uomo come Quintino Sella, noto per il suo rigore, per le “economie fino all’osso”, nella ricerca del pareggio di bilancio, non perché ci fosse l’euro ma perché era anche all’epoca conveniente per l’Italia, ammoniva il Parlamento di difendere le “spese produttive”, infrastrutture e istruzione in primis.

LA NECESSITÀ DI UNA NUOVA INDUSTRIA

Questi ultimi anni non ci consegnano un Paese in affanno solo per tendenze demografiche. Se pensiamo alla produzione industriale, mentre gli altri Paesi dell’eurozona sono ritornati ai valori pre crisi, il nostro Paese ha perso quasi un quarto della sua capacità produttiva.

Non si vedono al momento forti e persistenti cambiamenti di trend, malgrado la “bassa marea” del calo dei prezzi delle materie prime, dell’euro meno forte e del costo del denaro ai minimi storici. Come per la pubblica amministrazione, anche il declino della produzione industriale è legato anche all’insufficiente qualificazione delle persone (gli altri Paesi dell’euro presentano tassi di scolarizzazione superiore assai più elevati dei nostri) e a un contesto, occorre dirlo, culturalmente poco favorevole al fare impresa.

Dobbiamo essere consapevoli che un Paese come il nostro privo di materie prime, non può permettersi il mantenimento degli attuali livelli di ricchezza senza il ripristino di un’adeguata capacità industriale. Perdere un quarto della produzione in meno di un decennio è un evento di così rilevante portata da non poter essere sottaciuto, né essere ricondotto alla promozione di incentivi di natura ordinaria.

Il recupero della produzione è alla base della ripresa del lavoro. Anche concettualmente, la decontribuzione previdenziale, oltre a trasferire sulla fiscalità generale il relativo onere, indebolisce ancora di più la storia previdenziale dei giovani e i conseguenti squilibri generazionali. Molto meglio un calo della tassazione sull’impresa e sul lavoro, sugli investimenti e sulle assunzioni qualificate.

Provvedimenti semplici, forti e duraturi.

Diciamo subito, tuttavia, che difficilmente recupereremo il terreno perduto nei settori ridimensionati dalla crisi. Chi è rimasto oggi in questi campi si muove su mercati di nicchia, dove il contraltare del maggiore valore è rappresentato dalle minori quantità e da una grande flessibilità. Anche nei settori tradizionali abbiamo quindi splendide realtà; ma è difficile chiedere loro di più di quello che già fanno.

I settori che oggi crescono a doppia cifra sono quelli che si nutrono per esempio dell’invecchiamento della popolazione; essi richiedono alta qualificazione, moderata fiscalità e snellezza burocratica. Su questi tre assi va costruita una politica industriale; su ciò e non sui decimali di deficit andrebbe richiesta maggiore flessibilità alle Autorità europee. Alta qualificazione significa più cultura, più tecnologia, maggiore conoscenza delle lingue. Moderata fiscalità significa minore spesa pubblica e snellezza burocratica, vuol dire cambiamento delle nostre abitudini, delle nostre pretese, del nostro modo di lavorare.

INVESTIMENTI

Abbiamo detto che il nostro Paese non sta approfittando del basso costo del denaro perpromuovere nuovi investimenti. È lecito chiedersi se abbiamo davvero bisogno di nuovi investimenti.

La situazione andrebbe analizzata nello specifico. Non è mistero, però, prendere atto che gran parte delle nostre scuole ha bisogno di interventi di messa a norma e di riqualificazione che valgono da soli quasi l’1% del PIL, che gli investimenti per passeggero aereo, tanto per fare un esempio, sono il doppio in Europa rispetto all’Italia, che investiamo un terzo di Francia e Germania in ricerca, che non investiamo in prevenzione, né contro il dissesto idrogeologico, né per la cura delle malattie croniche. Stante questa nostra originalità, possiamo solo sperare che tutti gli altri Paesi investano più del necessario.

Il nuovo patto europeo deve portare ogni Paese, al di là degli egoismi e delle diverse anime, a dedicare una soglia minima della ricchezza al futuro, cioè agli investimenti. Certo non si tratta di un’azione che premia. Spesso chi la decide non la celebra, talvolta nemmeno vi sopravvive. Ma non possiamo rispondere continuamente all’assillo dei sondaggi di opinione. La legittimazione popolare è essenziale, anche per politiche che non la ritroverebbero una seconda volta. La storia ci dice che è stato salvato Barabba e potremmo dire che per sola alzata di mano forse saremmo ancora tolemaici. La democrazia è responsabilità e potere di scelta, è fiducia, il contrario di webcam e streaming che sono una specie di agopuntura permanente e non l’anticamera della dovuta trasparenza.

ASSETTI DI GOVERNO

inaugurazione anno accademico 2015Va detto che le tendenze demografiche, gli investimenti, la produttività, l’innovazione e la crescita non sono qualcosa di predeterminato. È vero il contrario, per fortuna. A noi è data la possibilità di intervenire, di deviare il corso. Questo è il ruolo delle Istituzioni e di quello che noi intendiamo per governance, gli assetti di governo.

Ci sono mille modi per produrre ricchezza e almeno altrettanti per distribuirla. Il modo con cui distribuiamo la ricchezza prodotta condiziona, però, la produzione di ricchezza futura. In altri termini, mentre possiamo decidere la distribuzione di un dato livello di ricchezza, la sua modalità distributiva influenza la generazione di ricchezza successiva.

Una distribuzione di ricchezza non legata al merito, acriticamente egualitaria o corporativa, così come eccessi di disuguaglianza e di ingiustizia hanno un effetto negativo sulla prosperità futura di una comunità. Chi mai investirebbe per produrre ricchezza se poi la sua distribuzione non risponde al merito, al contributo che ciascuno ha dato, alla voglia di rischiare pur nei necessari equilibri di accordo sociale? Ci sono troppe ingiustizie, sia per eccesso di uguaglianza sia per eccessivo di disparità.

In molte situazioni, ad esempio, c’è troppa poca differenza tra il salario di chi lavora e il sussidio o tra salario e pensione. In certi casi non diventa più nemmeno conveniente impegnarsi nella vita e nel lavoro, soprattutto per i giovani. Nell’Università, per esempio, gli stipendi più alti sono ormai quelli dei docenti in pensione e i più bassi quelli dei giovani ricercatori.

Ho l’impressione che le scelte degli ultimi anni siano state troppo timide e troppo lente, non sufficienti per vincere l’inerzia di stratificazioni decennali e la forza delle dinamiche internazionali. Anche la prossima legge finanziaria pare costruita per rispettare “sentenze” e impegni pregressi piuttosto che per aggredire palesi disuguaglianze. Occorre dare più visibilità alla destinazione delle entrate dello Stato. Sarebbe maggiormente accettabile, anche per chi dovesse pagare dazio, un bilancio “orizzontale” dove la parte da cui si prende vede la parte a cui si destina.

DALL’ITALIA ALL’EUROPA

È indubbio che tutti questi ragionamenti vadano visti alla luce di come ci guarda l’Europa. Un termine che fino a venti anni fa era un sogno politico, dopo il Secolo delle guerre. E che oggi molti iniziano a vivere come un incubo.

Io credo che chi si aspetta la costruzione europea come un processo poco accidentato, debba guardare all’indietro a quello dell’unificazione italiana, ancora peraltro molto da compiere. Anche qui la questione non è se, ma come. Non è se si all’Europa, ma quale e in quale modo. Chi ha dubbi sul futuro dell’Europa come realtà unita abbia il coraggio, consapevole della Storia, di indicare un’alternativa e di immaginarne le future conseguenze.

UNA NUOVA EUROPA

Non basta più però difendere per inerzia l’idea di Europa. Oggi l’Europa ha bisogno di un nuovo inizio. Serve una discontinuità. Per esempio l’elezione diretta di un Presidente a cui competano le scelte politiche in materia di difesa, politica estera, monetaria ed educativa.

Le generazioni che oggi hanno meno di quarant’anni sono quelle che noi identifichiamo come “Erasmus”. Queste ragazze e questi ragazzi sono diventati maggiorenni con la nascita dei vettori low cost e con la diffusione di Internet. La cornetta telefonica è per loro un vago ricordo che presto verrà sostituito anche nelle icone dei cellulari. Molti di questi giovani sono poliglotti, senza appartenere alla nobiltà, e possono candidarsi a guidare il nostro Continente nel nuovo secolo.

Così come la forza degli Stati Uniti d’America di questi decenni è nata dal crogiolo delle differenze, che hanno trovato alimento anche dal dramma e dalle atrocità del nazismo, così oggi l’Europa può rinascere dal dramma di altre guerre e di altre povertà e svolgere un ruolo preminente per il Mondo. Un futuro più prospero per i popoli europei è nelle nostre possibilità se saremo forti nelle identità e aperti nelle sensibilità.

QUALE SOCIETÀ VOGLIAMO

Ma è altrove che ci porta questa riflessione, che non vuole e non può essere di natura solo economica. La ricerca di una nuova via per la crescita porta a mettere in discussione ciò che è stato considerato come “acquisito” da troppo tempo, ovvero l’idea di società che abbiamo.

E’ interessante questa fase della nostra storia. Dopo aver soddisfatto in gran parte i bisogni primari come l’alimentazione, l’abitare, la mobilità e una serie, così elevata da non essere avvertita, di comodità, inimmaginabili ancora oggi per gran parte dell’umanità, stiamo affrontando il futuro con pochissime categorie mentali e per lo più all’interno di modelli individuali e non collettivi. Anche chi governa una moltitudine, guarda agli individui, è abile nell’intercettarne i bisogni del momento, è astuto nel convincere che l’interesse di tutti non è altro che l’interesse individuale più votato.

Eppure, basterebbe fermarsi un attimo e chiedersi: quale società vogliamo, quale mondo? Anche la conquista del consenso, se non porta con se un’idea di società, è neve di primavera destinata a sciogliersi alle prime difficoltà.

DIRITTI COME CONQUISTA

Una vita degna in tutte le sue fasi non è necessariamente una vita colma di ricchezze, di diritti e di rivendicazioni. C’è una bella frase proprio di S. Agostino: “la felicità è desiderare ciò che già si possiede”. I diritti di cittadinanza, e più in generale tutti i diritti, non vanno visti come punto di partenza e definitivamente acquisito, ma come conquista che deriva dall’esercizio continuo dei doveri di cittadinanza, che comprendono tutti i doveri.

D’altronde, i diritti acquisiti, come tutte le conquiste, se non sono sostenibili, si traducono nell’acquisizione di fatto dei diritti altrui, quelli dei più deboli, di chi “sta fuori”, di chi non è ancora nato.

I SISTEMI EDUCATIVI

platea inaugurazione anno accademico 2015Eppure il nostro Paese ha sperimentato fin dal dopo guerra un’originalità in Europa nel dibattito sul modello di società. Oggi possiamo dire che il comunismo è stato storicamente e sommariamente “a tutti poco o niente”; facciamo in modo però che la risposta non sia “a pochi quasi tutto”. Affinché questo avvenga non è sufficiente attivarsi per correggere la tendenza in termini caritatevoli, ma occorre anche costruire le condizioni per una società più giusta.

E questo ha il suo inizio in un solido e universale sistema educativo. L’istruzione, i valori ovunque vengano acquisti sono la materia prima di una società più equilibrata e quindi più giusta. Il nostro Paese ha molta strada da fare al riguardo. La Rai ha insegnato la lingua comune agli italiani e oggi le televisioni di altri Paesi insegnano da tempo la nuova lingua franca.

CAMBIAMENTO ED EQUILIBRIO

Occorre cambiare. Ma così come i diritti e i doveri sono due facce della stessa medaglia, il cambiamento in una società complessa non è rivoluzione, ma evoluzione. E l’evoluzione è il passaggio da un equilibrio a un altro in un processo incessante e senza fine di adattamento. Non c’è reversibilità nella natura, malgrado le leggi della medesima, e così non c’è vero cambiamento senza un percorso equilibrato che lo renda irreversibile.

L’equilibrio non è in antitesi al cambiamento, non è staticità, è punto di incontro mobile di un processo evolutivo.

CAMBIAMENTO E GLOBALIZZAZIONE

Un ruolo, in questo processo di cambiamento, è certamente giocato dai processi di globalizzazione, di interazione tra parti lontane, di condivisione, di conoscenza reciproca; non solo quindi passaggio di merci. La globalizzazione può però agire per “armonizzare” il mondo, così come per “omogeneizzarlo”. Nel primo caso la globalizzazione è difesa delle identità e delle differenze intorno a valori condivisi, nel secondo è miscellanea indigesta che toglie spazio alle comunità e alle loro storie evocando periodiche forme di rigetto.

IL RUOLO DELLA SCIENZA, IL RAPPORTO FRA I SAPERI

Personalmente auspico che in questo processo di cambiamento, la nostra società sappia recuperare una posizione di leadership per l’educazione, la ricerca, la scienza, il cosiddetto “soft power”.

Educazione e ricerca, che intendo in equilibrio fra i saperi, dove si possa riconoscere la ricchezza della conoscenza umanistica come di quella scientifica, in un rapporto fra le discipline che si arricchiscono vicendevolmente.

In un dialogo fra Einstein e Chaplin, si riporta che il fisico abbia detto all’attore: “Ciò che ammiro di più della vostra arte è che è universale. Non dite una parola e il mondo intero vi capisce!”. E che la risposta di Chaplin sia stata: “È vero. Ma la vostra gloria è più grande. Il mondo vi ammira anche se nessuno vi capisce”.

LA COMPETIZIONE NEL SISTEMA EDUCATIVO

Al nostro sistema educativo, piuttosto che di trasformare la società, è stato chiesto di competere. E in molti casi si è voluto tradire l’essenza stessa della parola che significa “andare insieme”, “convergere a un medesimo obiettivo”, avere una tensione per il miglioramento. Si è intesa la competizione come “spettacolo di gladiatori”, dove vince chi non viene eliminato. Il pollice dell’Imperatore oggi è più democraticamente sostituito dal “popolo della rete” che promuove con gli “I like” e punisce con gli improperi come ai tempi dell’Antica Roma.

La competizione, come il merito sono virtù di una comunità perché inducono a migliorarla.

L’idea autentica di competizione va difesa soprattutto dai migliori. Il vincitore che elimina i vinti non potrà ripetersi. Il numero uno è tale perché esiste il secondo e il terzo. Chi sta dietro continuerà a giocare se si riconoscerà nelle regole di valutazione e se si potrà migliorare fino a insidiare chi è davanti. E chi è davanti sarà impegnato a non farsi superare. Questa è la competizione, la non omologazione, l’esaltazione delle diversità, la spinta alla qualità diffusa e al miglioramento. E concedetemi un pizzico di ironia sulle tante classifiche che giudicano scuole, università, città, sistemi sanitari, Paesi: non avete l’impressione dell’impiego di un enorme numero di classificatori nei confronti di un minor numero di classificati?

D’altro canto, a detta dei principali studiosi di pedagogia, sono le differenze in contrapposizione al conformismo gli elementi vincenti di un buon sistema educativo. Il cattivo esito di molte riforme europee degli ultimi vent’anni è forse spiegato, per dirla come Ken Robinson, dal tentativo eccessivo all’omologazione dei sistemi educativi.

LA QUALITA’ MEDIA

La competizione che migliora è quella che difende e alza la qualità media. Forse dobbiamo essere in grado di apprezzare anche il fatto che nel nostro sistema di alta educazione non si raggiungano vette a livello mondiale, ma che il livello nel suo complesso sappia difendere una buona qualità media, come riconosciuto proprio dagli altri Paesi. L’”Aurea mediocritas” di Orazio significa “ottimale moderazione”, equilibrio, rifiuto di ogni eccesso.

LA MODERAZIONE ANCHE VERSO CHI GOVERNA

Rendiamoci anche conto che oggi chiediamo davvero molto a chi ci governa e anche la mia relazione va in questa direzione. In altri termini, la democrazia ci ha reso molto esigenti, forse anche troppo.

Anche qui l’equilibrio e la moderazione aiutano una società a progredire e a essere più giusta.

CONCLUSIONE/ SALVAGUARDIA DI CIO’ CHE ABBIAMO RAGGIUNTO

Alla fine di questo percorso, che è partito dalle grandi questioni del nostro Paese, per allargare lo sguardo all’Europa, ad una nuova definizione di società, e all’esigenza di cambiamento, vorrei riaffermare il concetto di “conquista continua”, mai acquisita per sempre, come una pianta che occorre adeguatamente irrorare.

Talvolta si ha l’impressione di ritenere definitive alcune grandi conquiste dell’ultimo secolo e speriamo che l’Europa possa compiere il primo secolo di pace.

Così non è: “Armi, acciaio e malattie”, per dirla come il biologo Jared Diamond, continuano ad essere elementi da cui non si può prescindere anche per creare lo spazio per più incisive politiche di pace e di integrazione.

Per questo è davvero essenziale comprendere l’importanza della scienza, delle scienze, delle tecnologie per evitare un sicuro declino, quandanche non assoluto, certamente comparativo.

Un Paese senza grandi tensioni emotive, se non nella forma di risentimento; un Paese che non accetta di vivere con i propri mezzi, che chiede di allungare l’estate coltivando l’illusione di poter fare a meno delle formiche, un tale Paese non può nemmeno difendere ciò che la Storia gli ha consegnato.

Detenere grandi patrimoni culturali non è garanzia per evitare il declino. La Grecia e il Medio Oriente sono un monito. Non è per decreto o per editto che meglio conserveremo i nostri capolavori. In un Paese che smette di generare ricchezza ciò appare sempre più un lusso che non ci possiamo più permettere.

Sappiamo dalla storia che la correzione degli squilibri può avvenire per umana virtù o per brutale necessità. Auspichiamo che le grandi questioni possano essere affrontate evitando guerre e violenze; per questo servono istituzioni forti, affinché la legge della forza non sostituisca la forza della legge.

DEDICA

coroVoglio concludere la mia riflessione con una dedica.

Non a una o più persone; anche senza menzione, sono certo che a molti la mia dedica personale è già arrivata.

Voglio fare una dedica a una comunità. Quella delle persone che “fanno fatica”, che danno prima di ricevere, che servono prima di essere servite, non solo i più deboli ma quelli che ogni giorno si impegnano nello studio, nel lavoro, nella vita.

Il fare fatica, talvolta anche la fatica di rispettare la legge, è il migliore esercizio del dovere e l’anima di ogni organizzazione.

Le persone che fanno fatica hanno il diritto e il dovere di chiedere un’Italia e un Mondo migliori.

 


Morzenti: “In Università non ci sarà un uomo solo al comando”

“Valorizzare le differenze dei saperi, creare una filiera formativa permanente e puntare sulla qualità sostenibile”. Sono questi, in massima sintesi, i progetti del nuovo rettore dell’Università di Bergamo, Remo Morzenti Pellegrini, eletto ieri ufficialmente in seconda votazione in via De Caniana, dopo il ritiro in momenti diversi degli altri tre candidati, Giancarlo Maccarini, Piera Molinelli e Paolo Riva. Morzenti, 47 anni di Clusone, laureato all’Università degli Studi di Bergamo e direttore del dipartimento di Giurisprudenza ha ottenuto 216 voti, 8 in più del quorum necessario conquistando la fiducia dei professori di prima e seconda fascia, ricercatori di ruolo e a tempo determinato, personale tecnico-amministrativo e rappresentanti degli studenti. Guiderà l’ateneo per sei anni, a partire dal 1° ottobre. Fino a tale data rimarrà in carica il suo predecessore Stefano Paleari. Nessuna anticipazione sui nomi che andranno a comporre la nuova squadra di governo. “Comporla sarà la mia prima decisione come rettore – dichiara Morzenti -. Fino ad oggi mi sono concentrato a spiegare le mie idee e le mie proposte. Le elezioni non erano politiche ma la misurazione di un progetto. Da lunedì ci penserò. Si tratta di una decisione delicata che deve essere molto ponderata. Potremmo metterci qualche giorno in più”. “Di sicuro – assicura il nuovo magnifico – non ci sarà un uomo solo al comando. Il mio ruolo come rettore sarà di essere una sorta di direttore d’orchestra. Il rettorato di Paleari si è mosso in questa direzione e non posso che continuare con questo metodo. Con prospettive diverse perché sono diversi il periodo e il contesto. La priorità sarà creare una squadra di prorettori che sia all’altezza di un’istituzione così complessa com’è l’Ateneo e di un mondo universitario che oggi è fortemente competitivo.

Il suo nome è riuscito a creare unità all’interno dell’Università, quale è stato il segreto per attirare tanti consensi?

“La mia non è stata una autocandidatura. Fino al 16 giugno nemmeno ci avevo pensato, poi è nata questa esigenza di unitarietà e cosi mi sono candidato. Chi si propone alla guida di un ateneo credo debba essere trasversale. Mi hanno riconosciuto questa attitudine e hanno apprezzato il metodo dell’ascolto e della condivisione. Sono due valori che ho imparato a fianco di Paleari e che mi permettono di affrontare il nuovo incarico con serenità. Nel 2009 quando ho iniziato l’impegno al suo fianco credevo, come amministrativista, che la cosa più importante fosse la specializzazione. In questi sei anni con lui ho acquisto la consapevolezza che il valore più importante è la trasversalità, saper leggere discipline diverse. Ho imparato a dialogare con economisti, filosofi, psicologi. Il valore aggiunto del nostro ateneo è di far dialogare tra loro discipline diverse. E il numero delle iscrizioni è la conferma lampante che la contaminazione dei saperi è la strada giusta. Il leit motiv del mio rettorato sarà questo: valorizzare le differenze”.

Ci saranno iniziative per andare incontro alle esigenze del mercato del lavoro e dei giovani laureati?

“Finora l’orientamento universitario consisteva nell’indirizzare al meglio gli studenti alla fine del loro percorso delle superiori. È giunto il momento di anticipare l’orientamento, dando agli studenti delle scuole superiori l’opportunità di conoscere l’Università già al terzo- quarto anno. Penso a iniziative di ospitalità in ateneo, con la possibilità di assistere alle lezioni. Ci sono già esperienze analoghe in altri atenei. L’avvicinamento con il mondo del lavoro deve iniziare prima di iscriversi all’Università. Il nostro ateneo deve intervenire prima e anche dopo l’uscita dal percorso universitario. Chi si laurea a Bergamo deve avere la possibilità di tornare in Università per avere un appoggio e un aiuto a inserirsi nel mondo del lavoro, e poter seguire percorsi più professionalizzanti di alta formazione. Dobbiamo dialogare con il mondo delle imprese, delle professioni e rimettere in fila la filiera che accoglie lo studente prima che decida cosa fare e dopo l’Università. Creare, in altre parole, una filiera formativa permanente”.

Ritiene che il supporto del territorio all’ateneo sia soddisfacente o enti e istituzioni dovrebbero fare di più?

“La soddisfazione più grande è quando le istituzioni ma anche le persone ti dicono “come va la nostra Università?”. Dentro questo “nostra” c’è tutto. L’Università di Bergamo non è una torre d’avorio ma un osservatorio permanente della società di Bergamo, nella quale è immersa. Tutti noi sentiamo la vicinanza del territorio. Spero che questa fiducia venga rinsaldata con il nuovo patto”.

Quali sono le criticità e le sfide future per il nostro Ateneo?

“Il programma di un rettore è una piattaforma culturale, non qualcosa di statico su cui ci si confronta. A fronte del programma c’è una società che cambia velocemente e profondamente. Non mi spaventano i cambiamenti ma la rapidità con cui avvengono. L’Università di Bergamo è una nave attrezzata per uscire in mare aperto, ma è un mare tempestoso. La sfida sarà dare risposte veloci e continuare a puntare sulla qualità sostenibile”.

Perché uno studente dovrebbe scegliere l’Università di Bergamo?

“Perché entra in una comunità dove i docenti, il personale tecnico amministrativo e gli studenti hanno l’orgoglio di far parte di questo ateneo. In questi giorni, finita la competizione, la comunità si è rinsaldata. Questo responsabilizza ancora di più il mio mandato che non ha solo una responsabilità accademica ma anche sociale”.

 

Chi è Remo Morzenti Pellegrini


“E’ un quadro difficile, ma i commercianti non mollano”

Sangalli 1La luce della ripresa comincia a mostrarsi in fondo al tunnel. Non è forte come ci si aspetterebbe ma sicuramente è il segnale che la congiuntura comincia a cambiare verso. L’ufficio studi di Confcommercio, tradizionalmente prudente, si lascia andare a qualche considerazione positiva. Parla di «indizi di vitalità nell’ambito dei servizi» e mette in luce il timido aumento della domanda interna, anche se la cautela sull’intensità della ripresa in atto è d’obbligo. Per spingere più in alto la congiuntura sarebbe necessario un deciso taglio delle tasse. Ma sarà possibile e a quali condizioni?

Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio – intervistato dal Giornale di Sicilia – invoca il taglio delle tasse.

Quali sono le vostre previsioni per l’anno in corso?

«L’ufficio Studi di Confcommercio prevede una crescita del Pil dell’1,1% e dei consumi dell’1,2%. Una previsione che credo possa essere rispettata perchè una serie di indicatori vanno in questa direzione: mi riferisco alla favorevole congiuntura internazionale, alla fiducia di famiglie e imprese ai massimi degli ultimi due anni, al positivo andamento dell’occupazione, al costo del petrolio a prezzo di “saldo” e, soprattutto, alla crescita del fatturato dei servizi che ha fatto registrare il miglioramento maggiore dal 2011».

Questo quadro vuol dire che siamo usciti definitivamente dalla crisi?

«Sicuramente dopo sette anni di recessione durissima che ha colpito tutti i settori e tutti i territori e in cui ogni italiano mediamente ha perso 2.100 euro di consumi, abbiamo finalmente abbandonato il segno meno. Ma da qui a dire che abbiamo rimesso il Paese sui binari di una crescita robusta e duratura ce ne corre».

Qual è la vostra ricetta?

«Serve una politica fiscale che non sia un ostacolo al miglioramento della domanda delle famiglie, ma sia, invece, “distensiva” e che abbia come obiettivo quello di una riduzione generalizzata, certa e sostenibile del carico fiscale. Per far questo la via maestra è quella di attuare una doppia sottrazione: meno tasse, meno spesa improduttiva. Un terreno, quest’ultimo, dove, senza tagli lineari e indiscriminati ma con interventi puntuali e mirati, si possono ridurre sprechi e inefficienze che, a livello territoriale, ammontano oggi a 23 miliardi di euro».

Qual è lo stato di salute delle vostre imprese?

«Le imprese, soprattutto quelle del terziario, che vivono prevalentemente di domanda interna, continuano a soffrire. Nei primi sei mesi del 2015, infatti, hanno già chiuso 35mila esercizi al dettaglio che vanno ad aggiungersi agli oltre 64mila che hanno abbassato definitivamente la saracinesca nel 2014. Nonostante queste difficoltà i nostri imprenditori, gli imprenditori del commercio, del turismo, dei servizi e dei trasporti, non hanno perso la voglia e la determinazione di fare impresa. E oggi queste imprese rappresentano una parte essenziale del Paese che vale oltre il 40% del Pil e dell’occupazione».

E sul fronte del credito com’è la situazione?

«Il nostro Osservatorio congiunturale registra qualche segnale di miglioramento negli ultimi mesi: aumenta il numero di imprese in grado di far fronte autonomamente ai propri impegni finanziari e aumenta leggermente anche la quota di imprese a cui viene accordato il credito richiesto. Resta però ancora troppo basso il numero di imprese che accedono a nuovi finanziamenti: sono solo 7 su 100».

Un’ultima domanda: cosa ne pensa della promessa di Renzi di abbassare le tasse su famiglie e imprese nei prossimi tre anni?

«L’attuale pressione fiscale è incompatibile con qualsiasi prospettiva di ripresa e quindi mi pare che la scelta sia obbligata. E confidiamo nella piena realizzazione di questo annuncio».


Lutto nella moda. È morto Elio Fiorucci

elio fiorucciLa moda italiana e internazionale dice addio ad uno dei suoi innovatori. Il grande stilista e creativo Elio Fiorucci è stato trovato morto stamani nell’abitazione di viale Vittorio Veneto, a Milano. Aveva compiuto 80 anni lo scorso 10 giugno. L’ipotesi più accreditata è che si sia trattato di un malore. La salma è già stata messa a disposizione della famiglia.

Jeans attillati, maglie e scarpe colorate, oggetti in plastica e i celeberrimi angioletti. Sono tante le icone che ha disseminato nel costume con tocco gioioso e libero.

Nato a Milano, Fiorucci ha iniziato a occuparsi di moda insieme al padre. Ha aperto il suo primo – e memorabile – negozio, in Galleria Passarella, nel 1967, mentre la produzione di abiti è cominciata nel 1970. Ben presto il suo stile “pop” e rivoluzionario ha collezionato successi in tutto il mondo, con negozi negozi a Londra e New York. Dopo un’espansione trentennale, nel 1990 Fiorucci ha ceduto l’azienda alla società giapponese Edwin International, mantenendo a Milano il centro di design.

Nel 2003 ha fondato “Love Therapy”, una linea con dei nanetti colorati come logo. Ha collaborato anche con Ovs con la linea “Baby Angel”.

Da sempre animalista e vegetariano, nel 2011 è diventato garante del manifesto “La coscienza degli animali” promosso da Michela Brambilla e nel 2014 ha collaborato con il Wwf creando una t-shirt speciale contro la realizzazione delle pellicce d’angora.

«Con la sua scomparsa, Milano perde un imprenditore straordinario che ha contribuito a rendere la nostra città più globale e innovativa» è stato il pensiero di Carlo Sangalli, presidente della Camera di Commercio e di Confcommercio Milano. «Fiorucci ha saputo parlare a generazioni di giovani attraverso stimoli e idee, non convenzionali, che arrivavano dall’estero, ma che riusciva a interpretare e proporre con grande sensibilità e intelligenza – ha ricordato -. Stilista tra i più creativi, resta ancora oggi un esempio e un punto di riferimento perché rappresenta quello spirito milanese pioneristico in grado di vedere lontano e che dobbiamo avere sempre presente».


A Trigona il grazie del presidente Sangalli

Lunedì, a Milano, alla presenza del direttore generale di Confcommercio Francesco Rivolta e del direttore centrale Rete Associativa Romolo Guasco, s’è tenuto il Comitato tecnico dei direttori di Confcommercio Lombardia. All’ordine del giorno gli assetti istituzionali lombardi in attuazione della legge “Delrio”, la riforma delle Camere di Commercio, gli scenari regionali sui temi strategici dell’attività associativa. Durante il Comitato, è intervenuto anche il Presidente Carlo Sangalli che ha ringraziato Luigi Trigona per il lavoro svolto nei suoi 36 anni di attività come direttore dell’Ascom di Bergamo.


Orio, all’aeroporto videoinstallazione con video e immagini di Papa Francesco

Bergoglio ha deciso, non vivrà nell'appartamento papale ma rimarrà a Santa Marta“Papa Francesco, un pastore in cammino” è il titolo della videoinstallazione allestita nell’area partenze del Terminal passeggeri dell’aeroporto di Orio, dove resterà fino al 31 ottobre, coprendo tutto il periodo di Expo, dopo essere stata ospitata nel mese di maggio in anteprima da Aeroporti di Roma allo scalo di Fiumicino. Sette monitor, posti sul fronte dei gates nel nuovo blocco dell’aerostazione che si affaccia sulla pista e sullo skyline di Bergamo Alta, propongono le immagini emblematiche dei momenti di vita pastorale di Papa Bergoglio. Un lavoro di forte espressività mediatica, realizzato dal Centro Televisivo Vaticano in collaborazione con Officina della Comunicazione, con il contributo dell’Ubi Banca, Varigrafica e Press Up e la partnership tecnologica di Sony Italia, che mette in luce il messaggio di cristianità e amore verso il prossimo costantemente rilanciato dal pontefice e che si ritrova in ogni sguardo, gesto, carezza e abbraccio. Il ricamo di video, intessuti con la tecnologia digitale, inanella sequenze pubbliche e private, riflettendo l’intensità della missione di Papa Francesco sulla via della pace e del dialogo con la forza della speranza e il cuore votato alla misericordia. I passeggeri in attesa di imbarcarsi dall’aeroporto di Milano Bergamo potranno così rivivere, attraverso le sequenze filmate, l’attesa del conclave e la gioia di vedere il nuovo successore di Pietro dalla Loggia della Basilica Vaticana, ripercorrere i tanti viaggi, le cerimonie; rimirare i grandi incontri che sono avvenuti dentro e fuori le mura leonine, così come la vita semplice e quotidiana del pontefice. “Siamo onorati di ospitare un allestimento di così grande forza comunicativa, che trasmette un messaggio universale frutto di un racconto per immagini fatto di momenti emozionanti e di prof onda umanità – dichiara Miro Radici, presidente di Sacbo -. Nella terra di Giovanni XXIII, Papa e santo, si è portati a cogliere l’intensità della parola che giunge dal Soglio pontificio. Questa sensibilità è aumentata da quando Papa Francesco richiama ogni giorno i valori della pace e solidarietà cristiana, la necessità di operare in aiuto ai deboli e bisognosi, il diritto al lavoro e al cibo, l’importanza di affermare l’etica dei comportamenti individuali, la solidità della famiglia. Nella civiltà delle immagini, lo scorrere nelle sequenze salienti del Pontificato di Francesco tra persone in movimento, come quelle in transito in aeroporto, rappresenta un invito alla riflessione e a ritrovare dentro di sé l’armonia con tutto ciò che ci circonda”.


Addio a De Canio, Bergamo perde il più formidabile organizzatore di eventi culturali

Enzo, era del tutto estraneo alla normalità: non si vestiva normalmente, non faceva politica normalmente, non ragionava normalmente. Di normale, nella sua vita, c’è stata solo la morte: la maledetta strìa, che ci normalizza tutti, in un’obbligata postura orizzontale. A quella ci si deve inchinare: a tutto il resto Enzo De Canio non si è mai inchinato. Eccentrico intellettuale, dalla cultura vastissima e un po’ capziosa, da uomo d’altri tempi, si è trovato a nuotare in una vasca di girini: a misurarsi con un’epoca, con uomini, con situazioni miserabili. Che volete che vi dica di Enzo? Era un colossale rompiballe: quando aveva in mente un progetto, una conferenza, un’iniziativa, non ti mollava più.

Ogni giorno, con terrificante precisione, ti faceva uno squillo, ed iniziava con quella sua cantilena, sempre uguale da tanti anni: ciao, Enzo…Eppure, quanto mi piacerebbe che mi rompesse le balle ancora una volta! Quel che era, che è Enzo De Canio, ora che è morto, lo scriveranno tutti, come sempre accade: era un genio, era un uomo coerente, era un santo. Anche a me piacerebbe scrivere che eravamo amici da tanto, che mi mancherà, e, sfogando la rabbia e la malinconia, chiuderla lì, magari con qualche bella frase ad effetto. Ma a Enzo questo non sarebbe interessato. Così voglio dirvi quello che lui ha detto a me, dieci ore prima di morire: in articulo mortis, come avrebbe chiosato lui. Enzo è stato il più formidabile organizzatore di cultura di questa povera città, che la cultura, di solito, la vede col binocolo: ha portato a Bergamo centinaia di intellettuali e di studiosi di levatura assoluta, ultima Antonia Arslan. Mentre gli altri tramavano sottobanco le loro gherminelle, delegavano, comandavano, intascavano, Enzo, nel silenzio e, spesso, nella derisione, macinava conferenze, convegni, presentazioni. Non aveva a sostenerlo i partiti, i poteri forti né quelli deboli: ha lavorato, in instancabile solitudine, per dare alla nostra città una vita culturale degna di questo nome. Se non l’unico, certamente, di gran lunga il migliore. Per questo, la sua creatura, l’associazione “Alle radici della comunità”, è il suo lascito, ma anche il comandamento di chi gli abbia voluto bene: a Enzo non interessava la propria morte quanto quella del suo lavoro. Se vogliamo davvero ricordarlo, tutte le belle parole che ci salgono alle labbra conserviamole, per spenderle sulla strada che lui ha tracciato: facciamo che Enzo De Canio sopravviva nelle azioni e nel buon operare della sua associazione. Solo così, in un mondo di morti viventi, anche morendo, si può vivere ancora.


Ordine al Merito della Repubblica, onorificenze per 24 bergamaschi

Ordine al merito della Repubblica italianaSono stati 24 i bergamaschi che ieri 2 giugno, hanno ricevuto le onorificenze dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” nel corso delle celebrazioni per il 69esimo anniversario della Fondazione della Repubblica.

La cerimonia ufficiale commemorativa della ricorrenza s’è tenuta in piazza Vecchia, in Città alta, a partire dalle 10.

Il programma s’è aperto con lo schieramento dei reparti di formazione interforze delle Forze Armate e dei Corpi Armati Civili dello Stato, dei gonfaloni del Comune e della Provincia di Bergamo e dei Comuni della Provincia di Bergamo, dei medaglieri e labari delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma. E’ seguito l’afflusso delle Autorità e delle Rappresentanze civili e militari, l’ingresso della massima Autorità, l’esecuzione dell’inno nazionale e la lettura del messaggio del Presidente della Repubblica.

E’ stato il prefetto Francesca Ferrandino a consegnare i diplomi delle Onorificenze dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana”.

Ecco l’elenco

Vito Roselli (Albano Sant’Alessandro) – Cavaliere

Angelo Carrara (Albino) – Cavaliere

Edoardo Bassi (Alzano Lombardo) – Cavaliere

Eugenio Baroni (Bergamo) – Cavaliere

Domenico Savi (Bergamo) – Cavaliere

Antonio Talarico (Bergamo) – Cavaliere

Gennaro Maggio (Bonate Sopra) – Cavaliere

Dario Sorte (Brignano Gera d’Adda) – Cavaliere

Pietro Bianchi (Caravaggio) – Cavaliere

Alberto Cantini (Caravaggio) – Cavaliere

Luigi Costa (Caravaggio) – Cavaliere

Sergio Giuseppe Inverardi (Dalmine) – Cavaliere

Luciano Franza (Palosco) – Cavaliere

Giuseppe Bottino (Ponteranica) – Cavaliere

Andrea Pesenti (Romano di Lombardia) – Cavaliere

Giuseppe Passiatore (Seriate) – Cavaliere

Cristian Vavassori (Stezzano) – Cavaliere

Tarcisio Ravelli (Telgate) – Cavaliere

Dino Rota (Torre de’ Roveri) – Cavaliere

Stefano Maffeis (Urgnano) – Cavaliere

Renzo Nisi (Urgnano) – Cavaliere

Daniele Limonta (Stezzano) – Ufficiale

Roberto Arrigoni (Almenno San Salvatore) – Commendatore

Franco Marsetti (Bonate Sopra) – Commendatore


Battuta d’arresto per il Pd. E l’altro Matteo esulta

Diceva Enrico Cuccia che le azioni non si contano, si “pesano”. Converrà seguire le orme del padre nobile di Mediobanca se si vuole analizzare il risultato delle elezioni regionali rifuggendo dalle dichiarazioni di parte, di tutte le parti, che hanno contrassegnato le ore immediatamente successive all’apertura delle urne. Lasciamo da parte il 5-2 con cui molti hanno sintetizzato il responso popolare. E’ una formula che serve ai giornali per scattare una fotografia immediata ma aiuta solo in parte a comprendere quel che è successo. Se fosse solo una questione di bandierine piantate, il premier e segretario del Pd Matteo Renzi potrebbe ergersi a vincitore della tornata elettorale. Ma la conquista della Campania con Vincenzo De Luca, l’impresentabile dell’Antimafia inseguito anche dalla legge Severino, si porterà dietro un caos istituzionale e politico che non renderà agevole, almeno nei prossimi mesi, il governo di una delle Regioni più sofferenti del Paese. In Umbria la presidente uscente Catiuscia Marini si è salvata per il rotto della cuffia. Ma in Liguria e in Veneto per il Pd è stata una vera e propria Waterloo. In Riviera si è consumata una spaccatura a sinistra che ha portato alla fuoriuscita di un candidato che ha portato via i voti che, forse, avrebbero consentito a Raffaella Paita di battere Giovanni Toti. Ma se quest’ultimo ha vinto lo deve anche al fatto che la candidata imposta dal presidente uscente della Regione Claudio Burlando, per storia personale e gravami (è indagata per disastro colposo), non era probabilmente la migliore da schierare al via. In Veneto, la trottola Alessandra Moretti (in tre anni passata da deputata a europarlamentare a candidata alla Regione) è stata, come si dice adesso, asfaltata da Zaia. Una figuraccia che ha pochi precedenti a livello nazionale. Se dai singoli concorrenti, si passa al dato politico, va constatato che il Pd del 40 per cento delle Europee, che tanto aveva fatto gonfiare il petto al bulimico presidente del Consiglio, è ritornato intorno a quel 25% medio che tanto faceva ribrezzo al medesimo Giovin signore fiorentino. C’è di che riflettere per chi ritiene di essere investito del ruolo di salvatore della Patria contro e a dispetto di tutti. Dall’altra parte della barricata, non è che Forza Italia sia uscita in forma smagliante dalle urne. Sì, è riuscita a strappare la Liguria, ma lo deve ai guai del Pd e alla forza della Lega (di cui diremo dopo). Per il resto, in Puglia sono volati gli stracci e anche chi voleva fare la faccia feroce, come Raffaele Fitto, si è dovuto accontentare della sconfitta dei propri amici azzurri. Sai che consolazione. In Veneto ha stravinto Zaia, ma Forza Italia si è ridotta a poco più del 5 per cento. In Campania, nonostante la sfida provenisse da un candidato impresentabile, ha dovuto cedere la presidenza. Se l’è cavata, pur perdendo, in Umbria. Un bilancio pesante, che segnerà probabilmente la fine di una leadership e una svolta radicale nei rapporti di forza all’interno dello schieramento moderato o, più genericamente, di centrodestra. E qui veniamo ai vincitori. Difficile negare che alla Lega spetti il ruolo di forza trionfante. Di Zaia si è detto e Toti se è stato eletto lo deve al 20 per cento portato in dote dal Carroccio. Ma il 20 per cento conquistato in Toscana e nelle Marche (poco meno) dicono quanto Matteo Salvini sia stato capace, pur sulle ali di una campagna dai toni forsennati (o proprio grazie a questa), di portare sul simbolo di Alberto da Giussano, anche lui finora considerato impresentabile, messe di consensi che nemmeno il Bossi dei tempi d’oro riuscì a meritarsi. Quella Lega lì non esiste più, questa che esce dalle Regionali è un movimento in buona parte nuovo, anche nel corredo ideologico, pronto a giocarsi una partita di primo piano anche sul livello nazionale e non più nel ristretto arco pedemontano. Lo si diceva alla vigilia, ma ora è più chiaro: la sfida si restringe ai due Matteo. Il ruolo di terzo incomodo potrebbe giocarlo il Movimento 5 Stelle, l’altro vincitore delle Regionali al di là del fatto di non aver conquistato nessuna presidenza. Sul piano dei voti il consenso dei grillini è tornato a crescere e a consolidarsi dopo la battuta d’arresto delle Europee dello scorso anno. Certo, questa fiducia va spesa utilmente, disponendosi se necessario a sporcarsi le mani con gli altri partiti, a partire dai temi concreti come ha detto qualche candidato, perché altrimenti si rischia di consegnare alla pura testimonianza una voglia di cambiamento e di innovazione che va ascoltato e compreso.