Brexit, vi racconto come i britannici affronteranno il referendum

BrexitLa domanda a cui gli elettori britannici si troveranno a rispondere è semplice: rimarremo in Europa o la lasceremo? Prima che il Paese vada alle urne il 23 giugno, ci saranno una miriade di discussioni, dibattiti, manifestazioni, con il solito spiegamento di forze politiche, ex politici, leader economici, a cui seguiranno facce conosciute e in cerca di popolarità.
La risposta a questa domanda non è semplice, il dibattito è più che acceso e nei prossimi mesi farò del mio meglio per aggiornare i lettori de La Rassegna in merito alle ultime news sul Brexit. Iniziamo dal nome. Il mondo anglosassone ama le parole brevi e le abbreviazioni. Hanno già pensato a una parola facile da ricordare e usare sugli slogan. Ieri l’annuncio, da molti vissuto come una pugnalata alle spalle, del sindaco di Londra Boris Johnson che si schiererà per lasciare l’Europa. Strano per il sindaco della città più  internazionale d’Europa, con un padre dal passato da europarlamentare e un educazione da classicista. La reazione dei mercati non si è fatta attendere, con la sterlina crollata a picco sul dollaro e che tocca il valore più basso degli ultimi sette anni. Gli analisti delle grandi banche hanno espresso le loro posizioni, e preferenze: se per Deutsche Bank e Moody’s (l’agenzia di rating) è meglio restare, i loro colleghi di UBS, Citi ed HSBC non si sono sbilanciati, limitandosi a parlare dei rischi legati ad un’uscita.

I leader delle grandi aziende quotate in borsa sostengono la posizione del primo ministro David Cameron, e sono ormai oltre cento gli amministratori delegati che ci hanno messo la faccia, e un terzo di loro ha anche firmato una lettera ufficiale, che verrà pubblicata martedì dall’autorevole quotidiano finanziario Financial Times. Tra loro ci sono Vodafone, EasyJet, Shell, GSK, Brtish Telecommunication, WPP, la più grande agenzia al mondo di pubblicità. E ne vedremo molti altri nelle prossime settimane. I due schieramenti corteggiano infatti i grandi brand, che hanno più impatto dei partiti politici sugli elettori. Ci si aspetta inoltre che i Leavers – ovvero quelli che vogliono la Brexit – faranno di tutto per creare divisione tra le grandi aziende e quelle piccole. Come nel caso del referendum in Scozia, dove i secessionisti rivendicavano il ruolo di portavoce dei piccoli negozianti e commercianti, dei piccoli imprenditori, in opposizione alle multinazionali governate dalle élite.
Cameron ha presentato l’accordo stabilito a Bruxelles la scorsa settimana, chiedendo il sostegno del parlamento per rimanere in Europa, evidenziando il fatto che, in caso di dipartita dall’Europa, l’economia ne soffrirebbe, la disoccupazione aumenterebbe e il paese sarebbe meno sicuro davanti alle minacce del terrorismo e della Russia. Vedremo cosa accadrà nelle prossime settimane, se il sindaco Boris Johnson riuscirà a creare un seguito popolare, o se sarà’ la City a decidere il destino di questo voto.

 


Il malaffare dilaga. E intanto condanniamo a morte la civiltà

corruzioneOggi, nel definire le malversazioni, le truffe, le corruzioni, i furti, che sono divenuti la semplice quotidianità della cronaca politica, si tende ad usare toni sommessi, a minimizzare, a far passare come normale ciò che, viceversa, in un mondo civile dovrebbe essere un’assoluta eccezionalità. Sotto il capace ombrello del garantismo, che, a un dipresso, significa, dati i tempi biblici della giustizia italiana, né più né meno che oblio, tanto del peccato quanto del peccatore, si riparano ladri e truffatori di ogni risma e di ogni bandiera: sicuri dell’impunità, certi di farla franca e di poter tornare a rubare o a truffare, pressochè indisturbati. Sarà che, dentro il calderone, prima o poi, ci finiscono tutti, il che induce prudenza nel censurare e nel punire certe marachelle; sarà che si teme che il farabutto, ancorché tale, mantenga un grado di potere atto a fartela pagare o a venirti, prima o poi, utile, tutti stanno abbottonati, ogni volta che qualche politico, qualche grand commis, qualche boiardo viene scoperto con le mani nella marmellata. Io non so dire se questo dipenda anche da un’insopportabile assuefazione della gente e da un senso di impotenza, mista a disinteresse, che riducono il nostro popolo ad un gregge belante, in cui ciascuno si fa sempre e solo gli affari propri: fatto si è che, se a uno non tocca direttamente di andarci di mezzo, di quel che accade al prossimo nulla gli frega. E questa è la morte della civiltà: né più né meno.

Quando si perde completamente il senso altruistico della società, che verte sul considerare un torto fatto ad altri come se lo facessero a noi, questa società cessa di esistere: associarsi significa avere interessi comuni e, se questi interessi smettono di essere comuni, l’associazione non ha più senso. Per questo, io dico che chiunque rubi sulla pelle del popolo, che chiunque arraffi, intrallazzi, spadroneggi, alle spalle della gente, è un gran porco. Non è uno che ha sbagliato, uno che è scivolato: è proprio un porco, di quelli che vanno additati al pubblico ludibrio. Poco cambia se si tratti dell’Inps o della sanità, delle case popolari o dei centri di accoglienza: la porcheria è, comunque, gigantesca, perché attenta alla vita stessa della nostra democrazia, della nostra libertà. Il resto sono chiacchiere: cortine di fumo, nebbia per distrarre il pubblico dalla questione fondamentale. Il cavillo, l’appello alla legge, sono semplicemente azioni dilatorie: sistemi di distrazione di massa, per distogliere l’attenzione e la rabbia popolare dal colpevole, dissertando astrattamente sulla colpa e sulla pena, come dei Beccaria fuori tempo massimo. La civiltà giuridica dell’habeas corpus è una bellissima cosa: qui, però, ci troviamo di fronte allo sfacelo della Nazione. Siamo un Paese in cui gente plurindagata, pluricondannata, pluriporciforme, viene serenamente mantenuta ai vertici della pubblica amministrazione, trasferendola, semplicemente, da un settore all’altro, nella fiducia della dimenticanza e nella certezza dell’impunità: un Paese in cui si tagliano le ecografie, in cui si risparmia sulle manutenzioni, in cui si abbandonano i bisognosi, per riempire le tasche di qualche suino in grisaglia. Questo è insopportabile. Non è difficile da digerire: è, letteralmente, insopportabile.

Un politico, un dirigente, un amministratore che rubino, vanno perseguiti con severità esemplare: non sospensione dall’incarico, non censura, ma vent’anni di galera. Non sto mica scherzando: vent’anni di galera mi sembrano pena equa per chi abbia, di fatto ucciso dei vecchietti lasciati senza cure o vessato dei cittadini rimasti senza assistenza, rubando le risorse che a loro avrebbero dovuto essere destinate. Me ne frego dei moderni indirizzi rieducativi, che dicono che la prigione è inutile: sarà anche inutile, ma, certamente, rappresenta un deterrente migliore rispetto al niente. Io lo dico sempre: leva la patente a chi parcheggia sui posti riservati ai disabili e vedrai che, dopo cinque o sei patenti ritirate, a nessuno verrà più in mente di mollare l’auto dove non deve. Allo stesso modo, prendi uno che abbia rubato milioni di euro dirigendo enti pubblici o facendo il politicante e sbattilo in cella, ad apprezzare la bellezza dell’essere uguale agli altri, privato dell’assise onde andava superbo: e vedrai che rieducazione efficace! Perché tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: e, se la teoria fa a pugni con la realtà, è la teoria che va cambiata. Coi porci ci vogliono i porcari, non gli assistenti sociali: è ora di dire basta a tutto questo girarsi dall’altra parte, far finta di niente. Perché, ammesso e non concesso che, finché non tocca a noi, possiamo fregarcene, adesso, comincia a toccare a quasi tutti. Nel terzo millennio, dunque, la coscienza sociale dipende dalla quantità e non dalla qualità, con tanti saluti alla teoria delle rivoluzioni elitarie di Sorel: così, alla fin fine, mi auguro che le porcate aumentino ancora, superando il limite del sopportabile, in modo che la gente, se Dio vuole, si svegli. E venga la resa dei conti, tanto per i ladri che per i filosofi.


Attenti, perché c’è anche una dittatura della memoria

memoria storicaOggi mi piacerebbe parlarvi di memoria. Di come funziona la memoria, intendo. Per uno storico, la memoria è qualcosa di diverso da quel complesso insieme di processi elettrochimici che ci porta a fare riemergere dal nostro magazzino cerebrale frammenti del passato. Diciamo che, in un certo qual modo, per me la memoria è come per il salumiere la pancetta coppata: non voglio insinuare di possedere una memoria tesa e senza cotenna, però, oltre ad essere un fatto personale, per quelli come me, la memoria è anche un lavoro. Lo so che non suona tanto bene: viviamo in un’epoca in cui l’apparenza è tutto e, pertanto, anche la memoria si riveste di panni splendidi e viene raccontata con formidabili ricorsi alla retorica più raffinata. Solo che, sotto il vestito, molto spesso, non c’è nulla: la memoria manca, e rimane soltanto l’abito, indossato da un manichino privo di vita. Perché la storia, che della memoria rappresenta, per così dire, un distillato di libera vendita, o la si racconta tutta e la si racconta meglio che si può, oppure è meglio non raccontarla per niente.

Insomma, per farla breve, una storia raccontata male è un lavoro male eseguito, per un professionista della storia: affondare le unghie in una spugna, graffiare una lavagna, produrre un suono sgradevole. Prendere un microfono e rivolgersi ad una platea per tenere una lezione di storia non è esattamente come cantare una canzoncina o recitare una filastrocca: si suppone che la gente si aspetti da te almeno due cose, ossia la scientificità e l’onestà intellettuale. Intendo dire che queste due prerogative vengono, solitamente ritenute prerequisiti dal pubblico: il presupposto che ti muove ad assistere ad una conferenza storica è che, in quella sede non ti raccontino grossolane stupidaggini o panzane sesquipedali. Invece, purtroppo, molto spesso, per una ragione o per l’altra, vi sono dei relatori che raccontano un mucchio di sciocchezze. Alcuni per semplice incapacità: non tutti gli imbianchini maneggiano lo stucco veneziano con la dovuta abilità e non tutti gli storici lo fanno con la storia. Altri per patente malafede: perché sponsorizzati da qualche ideologia, da qualche partito di dementi, da qualche mainstream culturale.

Il problema della memoria, in quei casi, si riduce ad un’elementare questione commerciale: se un imbianchino ti rovina gli stucchi di casa, non lo paghi, lo paghi di meno oppure, in casi estremi, lo citi per danni. Se uno storico ti inculca nella testa idee sbagliate, criminalmente sbagliate intendo, idee che fanno di te una persona peggiore, non c’è modo di rivalersi: dirò di più, non c’è, spesso, modo di accorgersene. E la memoria, tanto individuale quanto collettiva, va a farsi benedire: i processi mnesici sono materia plastica. A differenza di quel che si può pensare, la memoria è influenzabile: iniettando all’interno di un sistema di memorie un virus, questo sistema può mutare, adeguarsi, modificare perfino i propri presupposti culturali. Vi sembra complicato? In realtà è semplicissimo: se io sento ripetere per anni lo stesso concetto storico, del tutto sbagliato e che utilizzi parole chiave semanticamente sbagliate, un po’ alla volta modificherò la mia memoria, adeguandola ai parametri che mi sono stati inculcati. Esiste, perciò, una guerra delle parole, che riguarda, specialmente, quelle che esprimono i concetti più alti, complessi ed importanti della nostra vita civile: chi riesce ad appropriarsi di determinati campi semantici avrà vinto la battaglia della memoria. Sarà la sua memoria a diventare la memoria di tutti.

Parole come “pace”, “democrazia”, “Olocausto”, “libertà”, non sono più vox media: non sono più, nella nostra memoria, riferibili indistintamente a qualunque consorzio umano, ma sono diventate appannaggio di una parte, di una metà della mela. E, quel che è peggio, all’interno di questa già di per sé deprimente lotta per il predominio linguistico, si è sviluppata una specie di manicheismo: chiunque contraddica parole e concetti di questa memoria indotta si colloca a mezzo tra la lesa maestà e l’iconoclastia. C’è, in definitiva, una dittatura della memoria, miei cari lettori: delicata, sotterranea, strisciante, ma pur sempre dittatura. Non si può possedere una memoria, tanto individuale quanto nazionale, che non risponda a certi parametri culturali, semantici, politici. E non esiste confronto tra i ricordi: non si dice condivisione, che sarebbe oggettivamente impossibile, ma neppure rispetto, in questo valzer di correttezze formali, per la memoria altrui. Capirete che, anche ammesso che la memoria dominante fosse la più vera, la più giusta, la più, per così dire, memorabile, si tratterebbe, comunque, di vessazione o di manipolazione della storia: se, poi, come sempre accade nelle vicende umane, questa memoria è incompleta, perfettibile, talvolta del tutto mendace, ci troviamo di fronte ad una violenza inaccettabile. E, a questo punto, non lo storico, ma l’uomo deve domandarsi: perché la accettiamo?


Ubi, tempesta sul titolo. Ma c’è chi ne approfitta

ubi31.jpgE’ bastato che trapelasse l’indiscrezione non confermata che Deutsche Bank, la prima banca tedesca seppure ultimamente un po’ acciaccata, non fosse in grado di rimborsare le cedole di un bond subordinato in scadenza 2017 perché il titolo finisse nella bufera con un calo a due cifre, nonostante tutti i proclami da parte dell’istituto e del governo sulla solidità del gruppo. Solo quando è stata fatta uscire, presumibilmente ad arte, l’indiscrezione di riparazione che il gruppo starebbe considerando un’operazione di riacquisto del proprio debito, l’isteria del mercato è rientrata. La banca continua ad essere sotto stretta osservazione, ma il fatto che abbia anche soltanto la possibilità di un’idea di buy back ha dato l’apparenza di una situazione di liquidità sotto controllo. I problemi rimangono, tanto è vero che giovedì i credit-default-swap, le coperture che assicurano dal rischio di insolvenza sono balzate a 265 punti base, così che la prima banca tedesca è sentita più rischiosa della prima banca italiana (Unicredit) che è ferma a 245, ma almeno i mercati si sono leggermente rilassanti. Al di là di tutti gli indici e i parametri, in fondo, quello che vogliono i clienti, e quindi gli investitori, da una banca è tranquillità e fiducia ben riposta. Quando questa viene minata, a torto o a ragione, il risultato sono le pazze oscillazioni di questo inizio 2016.

All’origine dei dubbi sulla solidità degli istituti italiani c’è infatti paradossalmente il salvataggio delle quattro banche commissariate, realizzato grazie alle risorse dello stesso sistema creditizio nazionale. Un’operazione che invece di essere vista come espressione di solidità degli istituti italiani, ha acceso un faro sulla possibilità che anche gli istituti di credito possano fallire e sull’esistenza dell’accordo europeo sul bail-in, con una differente rischiosità per chi ha rapporti con le banche. In fondo nulla di particolarmente diverso (se non per i possessori di quei 58 miliardi di obbligazioni subordinate in circolazione a fine anno) da quanto accadeva prima in Italia, ma sufficiente per mettere agitazione, come se all’improvviso ogni banca dovesse fallire. A volte basta una piccola ingenuità, un venticello, per incrinare la credibilità. E provocare un crollo del titolo, come è accaduto giovedì per Ubi, un clamoroso meno 12% finale dopo perdite in corso di seduta ancora più alte, nel giorno della pubblicazione di risultati forse non eccelsi in termini assoluti, ma comunque più che dignitosi nel contesto attuale, tanto da permettere un lieve incremento del dividendo. Lo scivolone è avvenuto, a parere di molti, su una questione in fondo marginale come il diritto di recesso. In ottobre, in occasione della trasformazione da popolare cooperativa in Spa, Ubi ha previsto la possibilità per i soci dissenzienti di uscire dalla società rivendendole le azioni, come il codice civile prevede in caso di trasformazioni. Nell’occasione è stato fissato un limite ai rimborsi, che incidono negativamente sul patrimonio, ad una quota che in ogni caso non facesse scendere il coefficiente Cet1 a regime sotto un livello calcolato su una media parametrata europea. A ottobre questo si traduceva in circa 350 milioni di disponibilità per l’operazione. A chiedere il recesso sono stati soprattutto fondi di investimento che avevano deciso di uscire al prezzo fissato di 7,288 euro per azione, valore che all’epoca era prossimo a quello di Borsa, con circa 35,5 milioni di azioni (poco meno del 4% del capitale) per un importo totale di circa 257 milioni, quindi ampiamente all’interno della previsione di spesa.

E’ successo però che in pochi mesi il cambiamento dello scenario e i contributi al fondo di risoluzione e in generale all’operazione di salvataggio dei quattro istituti commissariati, hanno eroso gli indici patrimoniali ed hanno ridotto a circa 13 milioni di euro (a fronte di richieste rimaste a circa 257 milioni) la possibilità di riacquistare le azioni da parte di Ubi senza scendere sotto il limite patrimoniale prefissato. Così solo il 5% delle domande di recesso potrà essere accolta. E chi pensava di poter vendere a 7,288 euro ora si trova titoli che valgono meno di 3 euro. Tutto logico, corretto e condivisibile, ma nonostante tutte le spiegazioni, il messaggio rovesciato che è passato è che Ubi non può pagare quanto annunciato. Il che formalmente non è nemmeno falso, anche se le ragioni sono diverse da una crisi di liquidità – il peggior rischio per una banca – come un’affermazione del genere potrebbe invece fare immaginare. L’ad Victor Massiah ha parlato di una “reazione assolutamente inorridita” da parte dei fondi. Fatto sta che si sono scatenate le vendite, con scambi per oltre 30 milioni di azioni, oltre il 3% del capitale, quasi quanto i titoli che hanno chiesto il recesso (che però sono congelati nell’operazione) e più dell’intero pacchetto dichiarato dal Patto dei Mille. Grandi vendite, quindi, ma quando ci sono scambi vuol dire anche che ci sono grandi acquisti. E si può immaginare anche che ci siano costruzioni di posizioni importanti a prezzi scontati che poi si vedranno in assemblea. Se ci fosse una mano forte che ha rastrellato quanto è stato precipitosamente venduto si sarebbe creato in una giornata il terzo maggiore azionista della banca. I giochi insomma non sono ancora fatti, mentre per il titolo è da aspettarsi ancora un’ ampia volatilità.

 


La pipì nel cespuglio e l’errata percezione del diritto

Mi piacerebbe tornare sull’argomento del professore che piscia in un cespuglio e, undici anni dopo, lo licenziano per una falsa autocertificazione, perché, secondo me, la cosa, oltre ad essere adatta a diventare un apologo sulla scuola italiana, rappresenta anche un significativo esempio di come venga percepita le giustizia in Italia. La storiella, ormai, credo la conosciate tutti, dato il cancan mediatico che ha accompagnato la vicenda: denunce sui giornali, interpellanze parlamentari, manifestazioni studentesche e così via. Il punto centrale di tutta questa situazione surreale, però, temo risieda altrove: non nel fatto che sia pazzesco verbalizzare una pisciata in un cespuglio, nottetempo, in un posto a casa di Dio. Nemmeno nel venialissimo peccatuccio di dimenticarsi dell’episodio all’atto dell’autocertificazione per l’immissione in ruolo: sarebbe meglio ricordarsele, certe bagattelle, ma può capitare. Penso perfino che lo Schwerpunkt non consista tampoco nella draconiana, quanto ridicola, severità di un licenziamento in tronco, per una bambocciata del genere: sebbene la scuola si sia dimostrata, tanto per cambiare, ottusamente forte coi deboli e debole coi forti, neppure questo mi pare il dato essenziale.

Quello che vorrei sottoporre all’attenzione dei miei pochi, fedeli e pazientissimi lettori è il risultato finale di tutta la spiacevole vicenda. A nessuno, per la verità, sembra essere venuto in mente che, tra l’avere regole stupide e il non aver regole affatto, possano esistere delle regole sensate. E che le regole seguono, per solito una logica di coerenza: se uno, per esempio, avesse svaligiato una banca, ma fosse, nella vita normale, un bravissimo dentista, avrebbe poco senso organizzare un sit-in dei suoi pazienti fuori dal tribunale per reclamarne la scarcerazione. Insomma, il caso dell’insegnante dimentico mi pare che abbia messo a nudo il concetto, un tantinello fantasioso, che abbiamo della giustizia e dei suoi meccanismi. Il fatto è che il malcapitato docente, bravissimo a quel che mi si dice, nonché padre di numerosa prole, non andava licenziato perché la ragione del licenziamento è risibile, non perché è bravo a fare il suo mestiere: non so se rendo l’idea?

Il primo problema, perciò, riguarda la percezione del tutto sbagliata che gli Italiani hanno del diritto: non dei loro diritti, ma proprio del diritto, dello Jus. E’ la norma generale che, se si rivela ingiusta, va modificata o, in subordine, diversamente interpretata: e questo non in base alle medaglie al valore deIl’imputato, ma all’inconsistenza dell’imputazione. Il secondo punto è che, come la responsabilità penale è del tutto personale, così sembra che vengano percepiti i diritti medesimi: una visione assolutamente singola e personalizzata della legge, che, viceversa, è quanto di più collettivo e pubblico possa immaginarsi. Come questa norma balzana, ve ne sono altre decine, che fanno ridere i polli e che ingabbiano i cristiani, mentre i malandrini se la ridono bellamente, continuando a malandrinare: solo che ce ne accorgiamo solo quando ci toccano. Fino a quel momento, ci disinteressiamo del tutto dell’ormai endemica disfasia tra la ratio giuridica e le norme del nostro diritto: ci preoccupiamo degli omicidi stradali quando qualcuno stira una persona a noi cara, ci lamentiamo dell’incertezza della pena se vediamo a spasso il ladro che ci ha svuotato l’appartamento, manifestiamo davanti al tribunale se ad essere vittima di una burocrazia assurda è il nostro insegnante. Altrimenti, ce ne stiamo lì, a coltivare il nostro orticello, serenamente sbattendocene di tutte le altre vittime, di tutte le altre ingiustizie, più o meno patenti.

Questo, signori, si chiama egoismo. E su questo vorrei porre l’accento: io spero vivamente che al professore in questione venga restituita la sua cattedra, con tante scuse, ma non perché Misiani fa le interpellanze o perché quattrocento ragazzi, qualche professore ed un megafono si traslano in piazza Dante un sabato mattina. Io vorrei che gli venisse restituita la sua cattedra perché è giusto: perché la ragione del suo licenziamento è stupidamente sbagliata. E che questa applicazione tanto pedissequa quanto miope della legge non dovesse toccare più a nessuno: compresi quelli che non hanno dalla loro parlamentari interpellanti o manifestazioni megafonanti. Rendo l’idea? Mi direte: ma noi non sappiamo nulla di altri casi, magari in Sardegna o nelle Marche, ci mobilitiamo qui e ora, perché di questo siamo al corrente! Orbene, è proprio qui la questione: se la norma va contro il sentimento di giustizia, si cancelli la norma, così non capiterà di nuovo, quantunque ed ovunque! E le tonitruanti interpellanze lascino il posto agli emendamenti: le prime sono aoristive, puntuali, individue, mentre i secondi lasciano una traccia nella civiltà giuridica di un Paese. Aggiungo che, nello specifico, sarebbe bene che i cittadini imparassero la distinzione, nemmeno troppo sottile, tra un certificato del casellario richiesto da privati e quello richiesto dalla Pubblica Amministrazione, onde evitare spiacevoli equivoci. Ma, forse, con una scuola che butta via milioni di euro per l’educazione alla legalità, sarebbe chiedere troppo.


Banche, l’onda ribassista e le possibili sorprese in assemblea

a-ubi.jpgIn sei mesi Ubi ha praticamente dimezzato il suo valore in Borsa e da inizio anno la quotazione è scesa di circa un terzo, tornando ai livelli (3,808 euro) dell’aumento di capitale di cinque anni fa e a un valore che è quasi la metà del valore del diritto di recesso stabilito in occasione della trasformazione in Spa. Non è nemmeno la performance peggiore di un settore bancario in generale caduta, all’interno di una Borsa comunque in calo anche per fattori internazionali, dalla discesa del prezzo del petrolio al rallentamento economico non solo in Cina. Non ci sono motivi concreti che indichino un peggioramento della salute delle banche tale da portare a un crollo così repentino. La Borsa però vive anche, e a volte soprattutto, di aspettative e di sensazioni che portano a rialzi immotivati come a ribassi irrazionali. Questo non vuol dire che sia in atto un complotto contro le banche italiane o contro l’Italia in generale. Preoccupazioni reali di fondo esistono e caso mai si tratta di riuscire a capire quanto siano state amplificate.

Il motivo principale è quello delle sofferenze bancarie, le perdite legate ai prestiti che non vengono restituiti, oltre 200 miliardi di euro nell’intero sistema bancario, mediamente già svalutate in bilancio per il 60%, ma con 80 miliardi di euro ancora da gestire. Si è aggiunto il timore che dopo i quattro istituti commissariati (Etruria, Marche, Carife e Carichieti) che con il loro salvataggio a novembre hanno scatenato i dubbi sul settore, altri si possano aggiungere, portando a cascata ulteriori costi alle altre banche. E più recentemente è esplosa anche l’insofferenza del mercato sulla incertezza delle aggregazioni, una questione che interessa in particolare le Popolari e quindi Ubi, per il suo ruolo riconosciuto di potenziale aggregatore. Non si vedono infatti all’orizzonte fusioni dalle prospettive chiare e lineari che diano certezza di successo. Tutte sono operazioni problematiche con diversa gradualità e per vari motivi, tanto che l’impressione è che alla fine piuttosto che procedere a un cattivo matrimonio, almeno per chi non è obbligato dai conti, sia meglio restare single. Il mercato vede con preoccupazione, ad esempio, che la solidità patrimoniale di alcuni istituti, e tra questi c’è Ubi a tutto diritto, possa diluirsi o addirittura scomparire dall’unione con istituti più deboli. Ma resta anche perplesso sulla possibilità che possa derivare un istituto più solido dall’unione di due debolezze ed è altrettanto preoccupato che non si trovi soluzione per le banche dall’equilibrio fragile. Il consolidamento degli istituti è infatti visto come una necessità e i ritardi nella sua realizzazione li paga l’intero sistema bancario, che ha già sborsato più di 3 miliardi per tenere in piedi i quattro istituti

La tempesta borsistica, inoltre, si è scatenata nel periodo di limbo che precede la comunicazione dei dati societari, attesi nei prossimi giorni, che dovrebbero dare un aggiornamento, e auspicabilmente tranquillizzare, sulla solidità degli istituti, riguardo a struttura patrimoniale, salute dei prestiti, loro copertura, accantonamenti e, non ultimo, redditività e prospettive di dividendo, elementi che in Borsa hanno sempre la loro importanza.  L’incertezza accentua tutte le tendenze e anche la scarsa trasparenza sull’effettivo andamento dei famosi “colloqui di tutti con tutti” contribuisce a rendere poco chiara la situazione, alimentando la volatilità. Per le Popolari c’è poi l’ulteriore incertezza legata alla riforma, che dal punto di vista temporale, si sta rivelando improvvida. La trasformazione in Spa non ha al momento portato ad alcuna aggregazione come era negli auspici dei promotori della normativa, ma ha anzi aperto altri fronti di instabilità, con la possibilità di cambiamenti delle maggioranze e quindi della gestione.

Tutte queste tensioni si scaricano sulle quotazioni di Borsa, con prospettive tra l’altro di grande complessità per quegli istituti, Veneto Banca e Popolare di Vicenza, che in Piazza Affari stanno per sbarcare, non per obbligo della riforma, ma come logica conseguenza. E non è totalmente vero che una banca sia totalmente indifferente dalle quotazioni di Borsa. Facendo il caso eclatante del Monte dei Paschi, che proprio nei giorni scorsi ha presentato il suo primo bilancio in utile dopo cinque anni, quello che conta per la sua solidità è la patrimonializzazione netta concreta di quasi 10 miliardi, non che il mercato gli riconosca un valore, in termini di capitalizzazione di Borsa, di appena uno e mezzo. La bassa capitalizzazione non incide sulla gestione ordinaria, ma può avere però implicazioni importanti in operazioni straordinarie, dall’equilibrio tra le parti nelle aggregazioni di cui tanto si parla, al successo di eventuali aumenti di capitale che potrebbero essere necessari per la questione delle sofferenze, fino allo stesso assetto interno, perché con un investimento non astronomico neanche per la finanza nazionale, dove molti imprenditori si trovano con grande liquidità dopo avere ceduto le loro azienda, si possono creare pacchetti in grado di determinare il controllo di un istituto. Tanto per fare dei numeri, il 5% di Ubi adesso lo si compra con 170 milioni, il 5% del Banco o della Popolare di Milano con 150,il 5% della Bper per 110: il 5% di Montepaschi per 80 milioni (quando un anno fa ce ne volevano 400). Il 5% di Carige poco più di 20. Non si può escludere che ci sia chi è interessato al ribassismo per poter comprare domani a un prezzo inferiore a quello di ieri e magari presentarsi con posizioni forti al cambio dei vertici in assemblee demoralizzate per il calo delle quotazioni.


Ma si potrà combattere lo smog spegnendo stufe e caminetti?

caminoChe la situazione bergamasca sia tragica, può essere: che non sia seria è del tutto fuori discussione. Ci sono mille e mille modi di affrontare un problema, ma quello adottato in questi giorni a Bergamo per cercare di tamponare l’emergenza inquinamento sembra lo stralcio di un copione dei Monty Python. Lo scrive benissimo il valoroso Isaia Invernizzi su Bergamonews: la situazione è paradossale. Lo Stato incentiva l’utilizzo di caminetti e stufe a pellets e, qui da noi, quei medesimi strumenti incentivati sono additati al pubblico ludibrio come principali responsabili dell’inquinamento e messi all’indice. Adesso, tutto si può dire e fare: per carità, siamo in un paese libero. Ma veramente qualcuno può pensare che i picchi allarmanti di PM 10 e, soprattutto, di PM 2.5, che da settimane turbano i sonni della comunità orobica, siano colpa di caminetti e stufe a legna? Davvero qualcuno può sostenere, senza mettersi a ridere, che, tra caldaie obsolete, uffici pubblici con climi da sauna, camion ed automobili a gogo, impianti industriali e via discorrendo, l’inquinamento dipenda dalla legna dei caminetti? E perché non dalle deiezioni canine o dal meteorismo degli obesi, stupidaggine per stupidaggine?

Se la sanzione, poi, è partita dai dati raccolti dalla centralina di via Garibaldi, o la centralina ha un comportamento socialmente pericoloso oppure chi ha elaborato i dati dovrebbe rivedere i propri parametri: quante credete che siano le persone che, in centro città, possiedono un caminetto? E, di questi, quanti lo tengono acceso notte e dì e ci riscaldano la casa? Mi viene in mente il mio amico Giovanni, che ha speso una valanga di soldi per una stufa ipertecnologica a massima resa, ha speso anche di più per trasformare la propria abitazione in una casa ad impatto ambientale prossimo allo zero, coibentata ed isolata e, adesso che potrebbe godersi i frutti dei suoi investimenti ecologici e della sua coscienza naturalistica, si vede indicare al volgo come “Giovanni l’Inquinatore”. Senza contare che il suo gioiello ad alta tecnologia dovrà rimanere desolatamente spento, propter legem. Andiamo, signori pubblici amministratori, almeno stavolta evitate di fare i Robespierre col collo degli altri: anche un canbarbone potrebbe dirvi che nessuno – dicasi nessuno – si berrà mai la storiella della necessità e dell’efficacia di un provvedimento di emergenza come questo. Anzi, diciamocelo bello chiaro: questo è un pannicello caldo, una pochade nata per dare qualcosa in pasto al popolaccio che chiede pane.

Siccome nessuno di voi ha la minima idea di cosa fare per arginare il fenomeno delle polveri sottili, giacché nessuno ci aveva pensato per tempo, tanto che siete andati avanti a sperare nella pioggia, come quei fessi che leggono i meteo su Facebook ed aspettano da anni la nevicata del secolo, adesso provate a metterci delle pezze che, come si dice in Veneto, sono peggio del buco. Perché che gli amministratori possano essere incompetenti, imprevidenti, inefficienti, ci può anche stare, e ci siamo abituati: ma, che ti prendano anche per i fondelli, ecco, quello ci sta un tantino meno! Volete essere draconiani: draconiani davvero? Andate a controllare le temperature negli uffici, nelle scuole, nei locali: mandate in giro frotte di controllori per le caldaie, bloccate le auto euro 3. Questo non rappresenterà certamente la soluzione ad un problema che necessiterebbe di ben altri strumenti e di ben altre sinapsi: ma, perlomeno, darete ai vostri concittadini la sensazione che qualcosa si faccia e vada nella direzione giusta. Poi, superata questa emergenza, non tornatevene a sonnecchiare, in attesa di un altro inverno con nuovi picchi di polveri sottili, nuove emergenze e nuove bischerate emergenziali: progettate un piano anti-inquinamento, basato sulle famose ciclabili, sul trasporto pubblico, sull’elettrico, sul rinnovamento del parco caldaie, su controlli severi. E, vedrete che, anche senza provvidenziali uragani o bora di levante, un pochino alla volta si tornerà a respirare.

Ma ve le devo dire io queste cose? Non potevate arrivarci da soli, o sacri rappresentanti della volontà popolare? Vi do un consiglio gratuito, e non c’è neppure bisogno di ringraziarmi: lo faccio volentieri. Dato che l’unica cosa che pare interessare ai politicanti è la garanzia di essere rieletti a fine mandato e di tenere le chiappe ben appoggiate sopra la poltrona, vi suggerisco, in quest’ottica, di cambiare strategia: la gente è un tantinello stufa di proclami e promesse cui non fa mai seguito niente. E, se va avanti così, la vostra poltrona prenderà la via dell’esilio. Quindi se non volete darvi una svegliata per amore dei vostri amministrati, datevela per amore vostro: vostro di voi, intendo, e delle vostre poltroncine. Perché si può pure scherzare sull’inquinamento e sugli inquinatori, se sei un povero Cimmino qualsiasi e scrivi articoletti tra il serio ed il faceto: ma, credetemi, a fare dell’umorismo sui polmoni della gente, se si è dei politici, va a finire che, politicamente, si rischia grosso. Se, tra un provvedimento di proibizione dell’uso dei fiammiferi svedesi e una censura alle biciclette pieghevoli vi rimane un attimo di tempo, rifletteteci….


Sofferenze bancarie, tutti i dubbi sui salvataggi

Banca EtruriaI problemi delle sofferenze bancarie sono noti da tempo e non solo tra gli addetti ai lavori. Quei duecento miliardi di euro di prestiti non restituiti – oltre a dimostrare che le banche toglieranno l’ombrello anche a chi ne ha bisogno per darlo a chi non ne ha (ma troppo spesso c’è chi si porta via il parapioggia) – stanno da tempo drenando la redditività del sistema per destinarli ad accantonamenti su crediti, oltre che al rafforzamento patrimoniale imposto dalle autorità di vigilanza. Il risultato è che per far quadrare i conti da anni le banche stanno cercando di ridurre i costi, operazione che si traduce prima di tutto in risparmi in personale e sportelli, e aumentare i ricavi, operazione non facile soprattutto in tempi di tassi quasi zero.

Nonostante tutto questo fosse ormai abbondantemente noto, almeno per chi lo avesse voluto sapere, la Borsa sembra che l’abbia scoperto solo quando a metà gennaio la Banca centrale europea ha fatto la richiesta di informazioni supplementari. Lì si è disegnata la lavagna dei buoni e dei cattivi, con un massacro delle quotazioni innanzitutto per gli istituti oggetto dell’indagine. Seppure con il beneficio del dubbio e dell’errore, e secondo il principio che anche i peggiori sospettati possono sempre dimostrare la loro innocenza, come è del resto nell’obiettivo di questa ispezione, l’iniziativa del Single supervisory mechanism, la vigilanza dell’Eurotower, con l’invio di questionari alle banche europee per un esame dei non performing loans (i crediti non performanti, con eufemismo inglese), in parallelo con l’attività ispettiva a verifica del livello delle coperture ha spezzato in due il sistema creditizio italiano.

Da una parte Banco Popolare, Bpm, Bper, Mps, Carige e Unicredit, che sono state “nominate”. Dall’altra Ubi, Intesa, Mediobanca,Credem e Popolare di Sondrio, che non lo sono state. Ma la bufera solo in una prima fase si è concentrata sul primo gruppo, prima di generalizzarsi. Perché è vero che alcuni istituti possono avere più problemi di altri a sostenere il peso della zavorra, ma il sistema creditizio si appoggia su se stesso. Il crollo di un istituto viene sopportato dagli altri, per evitare un effetto domino. Finora questa regola ha funzionato. Dal Banco Ambrosiano al Banco di Napoli, alle crisi degli istituti monosportello c’è sempre stato un cordone di salvataggio che ha permesso di risolvere egregiamente i problemi, a volte anche prima che scoppiassero.

Ma a metà novembre si sono viste le prime crepe di questo sistema, che funziona, ma è oneroso: il decreto per evitare guai peggiori e dare una prospettiva di sistemazione alle quattro banche commissariate (Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti), che tutte insieme valgono l’1% del mercato, ha comportato il ricorso al fondo di garanzia istituito dalle banche italiane proprio per questi casi. Era già stato fatto un anno prima, per risanare la più piccola Banca Tercas-Caripe, poi andata alla Popolare di Bari, senza particolare attenzione dei media, disinteressati alle conseguenze dei maggiori costi sopportati dalle banche. Questa volta però il conto è più salato: 3,9 miliardi, che presumibilmente rientreranno solo parzialmente dall’incasso derivante dalla vendita degli istituti.

In questo momento, con i commissariamenti ridotti a pochi casi e relativi a piccoli istituti, ci si trova in una situazione di equilibrio instabile. I salvataggi degli ultimi mesi appesantiranno i conti del 2015, rendendo più complicato il compito di accantonare risorse per le sofferenze e per irrobustire il patrimonio, ma aprono dubbi anche sul futuro prossimo. Le maggiori preoccupazioni arrivano ovviamente dalle banche più chiacchierate, ma ci si chiede se le banche sane, che già stanno pagando per problemi altrui, saranno in grado di continuare a saldare il conto. Salvataggi avventati possono trascinare nel baratro il volenteroso salvatore, anche se al momento non si presentano grandi alternative e il rischio è che la volatilità (al ribasso) che si è scatenata di fronte alla sistemazione di banche che valgono l’uno per cento del mercato si possa moltiplicare quando l’intervento riguarderà istituti di maggior peso.

 


Una volta credevo nella Giustizia. Poi è successo che….

tribunale di BergamoUna volta, credevo che la giustizia fosse una cosa magnifica e semidivina: ci credevo per davvero. Erano gli anni cupi del terrorismo, ma per me erano anche gli anni belli e spensierati del liceo. La mia morosa storica di allora era figlia di un giudice e, probabilmente, io i giudici me li immaginavo tutti come lui e, con loro, va da sé, la giustizia che essi incarnavano. Il papà della mia fidanzatina era una persona timida e gentile: scrupolosissimo e modesto, andava al lavoro tutte le mattine in filobus, con puntualità assoluta. Potevi regolare l’orologio sul fatto di vederlo fermo ad aspettare il mezzo pubblico, con la sua borsa di pelle floscia. Ecco, allora, per me, la giustizia era questo: un servitore dello Stato che lavorava duro, senza fronzoli e senza indulgere ad alcuna forma di protagonismo.

Col passare del tempo, cominciai a notare che certi magistrati occupavano sempre più spesso le prime pagine dei giornali, fino a diventare ospiti fissi dei telegiornali: al contempo, cominciai a cogliere i primi segnali di una certa tendenza dei medesimi a prendere cantonate clamorose, e fu per questo che votai senza esitare per la loro responsabilità civile, nel 1987. La velocità con cui il Parlamento cancellò gli effetti di quel voto, e la sostanziale truffa ai danni degli elettori, mi convinsero definitivamente che la giustizia, come la vedevo io, non era poi così giusta. E che i giudici, probabilmente, non erano tutti quanti come il padre della mia morosa. Da allora, continuai a nutrire i miei dubbi, ma la cosa rimase, per così dire, allo stadio latente, giacché, per fortuna, non ho mai avuto a che fare con un giudice, se non per una partita a carte o per una conferenza. Recentemente, però, ho dovuto ricorrere alla giustizia, e l’impressione che ne ho tratto mi ha profondamente deluso, così ho pensato di raccontarvi la mia esperienza.

Non pretendo che si tratti della norma: magari sono stato semplicemente sfortunato, però mi pare che la faccenda sia abbastanza significativa, se non altro come apologo. Circa due anni e mezzo fa, un signore che non conosco, per futili motivi (la solita discussione su Facebook degenerata in battibecco), ha pubblicato nel proprio sito il mio curriculum vitae, leggermente, dirò in maniera eufemistica, chiosato dai suoi commenti. Ne derivava un quadretto piuttosto deprimente: io ero un mezzo uomo (sic), un millantatore, un imbroglione, un analfabeta e un cretino. Il tutto detto con una prosa un tantino più colorita ed imbarocchita. Quel che è peggio, tuttavia, è che il sicofante pubblicò anche il mio indirizzo ed il mio numero telefonico, invitando implicitamente suoi presunti sodali a fare giustizia sommaria sulla mia persona. Naturalmente, lo querelai, tramite il mio avvocato, che presentò subito un’istanza urgente per l’oscuramento della pagina incriminata, con tutte le motivazioni del caso. Aggiungo che, nella mia professione, accade abbastanza di frequente che potenziali clienti cerchino informazioni tramite internet: potete immaginarvi la bella impressione che possono trarre nel leggere, come prima cosa, quella simpatica paginetta di insulti e di diffamazioni. Insomma, per dirla chiara, ci ho smenato anche dei bei soldi.

La pratica mi pareva di quelle che possono essere evase in cinque minuti, senza aggravare il già drammatico sovraccarico della giustizia orobica: fai chiudere la maledetta pagina e, per l’udienza ci sarà tempo. Macchè: i mesi passavano e la paginazza era sempre lì, a campeggiare non appena si digitava il mio nome su Google (sono sicuro che qualcuno di voi lo farà subito ed esclamerà: orca, è proprio vero!). Io tormentavo il mio povero avvocato e lui sollecitava, sollecitava: in fondo, sarebbe bastato leggere quel che aveva scritto il tipo balordo per capire al volo che si trattava di una cosa sgradevole e potenzialmente pericolosa. Sono passati due anni e mezzo, e il blog è ancora al suo posto: in due anni e mezzo, questo magistrato, evidentemente, non ha trovato il tempo di scrivere due righe e mettere una firma.

Ecco, questo episodio ha cancellato in via definitiva l’associazione d’idee: papà della morosa-magistratura. Cari magistrati, avete trasformato un vostro ammiratore in un detrattore: bel risultatone! Tra l’altro, il diffamatore è recidivo: ho scoperto che un mio amico di Roma lo ha a sua volta querelato per tutt’altre diffamazioni. Gli auguro miglior fortuna, naturalmente. Si tratta, lo so bene, di un episodio piccolo, minimo, marginale. Ma, per chi lo vive, non è marginale neanche un po’. A volte, qualche magistrato tende a dimenticarselo.


Ma a Bergamo i ciclisti sono solo carne da elezioni?

biciclettaL’altro giorno, in vena di sportività, ho tirato fuori la bicicletta. L’aria era tersa, la temperatura relativamente mite, così mi sono detto: cosa c’è di meglio di una bella pedalata? Avevo alcune commissioni in giro per la città e, sinceramente, non mi andava di bardarmi con casco e guanti da moto: in fondo, Bergamo dovrebbe essere una città ideale per il traffico ciclopedonale. Stefano Zenoni, ciclista impenitente, ancorchè, talvolta, un tantino sfortunato negli atterraggi, ha sempre sostenuto la necessità di potenziare l’uso della biciletta in città, ed io sono del tutto d’accordo con lui. Perfino il nostro sindaco, quando non ha problemi di parcheggio, si fa ritrarre a cavallo di una semibicicletta, uno di quei cosi con la pedalata assistita che permettono a chiunque di arrivare a Selvino senza versare una goccia di sudore: da sudatore selvinese, mi repelle l’idea, ma apprezzo il tentativo.

Insomma, la nostra amministrazione cittadina pare molto orientata verso il bike-friendly, perciò, tranquillo e beato, ho tentato di mettere in pratica la loro accattivante teoria. La quale, come moltissime altre teorie progressiste, alla riprova dei fatti si è rivelata una bufala, di quelle da mozzarella dop. Perché girare per Bergamo in bicicletta, se escludiamo l’asse Sant’Alessandro-Santo Spirito, ovvero la passeggiata domenicale dei tamarri inurbati, è qualcosa a metà tra la Soluzione Finale e l’eutanasia: se non ti gassano, ti stirano, insomma. Non esiste una pista ciclabile, là dove ce ne sarebbe più bisogno, vale a dire lungo gli assi di attraversamento urbano e nei quartieri semicentrali: le piste ci sono in periferia, ma lì le saprebbe progettare anche Fuksas, con tutto quello spazio! In altre parole, i ciclisti, a Bergamo, sono carne da elezioni: finita la festa, gabbato lu santu!

 

Ad esempio, l’idea della BiGi è un’ottima idea: giusto potenziare il servizio di Bike Sharing (il solito inglese, che due palle!), però, domandiamoci un po’ a cosa servano le BiGi se mancano le Biste Giglabili. Non esistono soltanto i reduci del Sessantotto che prendono la bici per andare da casa loro (sempre, rigorosamente, in centro che più centro non si può) a qualche libreria di via XX settembre: ci sono anche i cittadini comuni, che usano la bici per spostarsi e non per fare propaganda. E quelli, ve lo posso garantire, uscirebbero in bicicletta tutti i giorni, per andare al lavoro, per fare due spese, anche solo per muoversi un pochino, se la cosa fosse praticabile. Invece, prendono, spesso a malincuore, l’automobile per fare un paio di chilometri: inquinano, si stressano, perdono tempo e denaro. E porca l’oca: ma fatele queste benedette ciclabili! Darete fastidio a quattro automobilisti, a qualche negoziante fermo al Pleistocene, ai soliti che blaterano di politica e poi pensano che il Daesh sia un detersivo: ma farete la gioia di quella gente normale che rappresenta la pratica della vostra grammatica ideologica.

 

Le persone vere: non la Smart City dei Fritz Lang de noantri! E’ la solita vecchia storia: si fanno i parcheggi periferici ma non si fanno i collegamenti, si noleggiano le biciclette ma non si fanno le ciclabili, si fa la casa ma non si costruisce il tetto. Diamo per buono il fatto che ogni nuova amministrazione abbia bisogno di un po’ di tempo per tirarsi insieme: per capire quali sono i bottoni da schiacciare, distinguere la lavanderia dalla toilette, imparare a lavorare. Poi, però, uno si aspetta risultati: non si può amministrare Bergamo come se fosse un laboratorio architettonico e basta. Per carità, il progetto della Montelungo sarebbe bellissimo, se non ci fosse costato la catastrofica cessione dei Riuniti alla Guardia di Finanza, operazione di un’ambiguità assoluta, nonostante le fanfaluche sui miglioramenti urbanistici propinate ai residenti. Ma non c’è soltanto quello: abbiamo bisogno di infrastrutture che migliorino la nostra esistenza e non soltanto di panorami mozzafiato o visioni alla Le Corbusier.

 

Dunque, io, come cittadino, come elettore (ebbene sì: l’ho votato!) e come uno che paga vagonate di soldi in tasse, voglio le ciclabili: le pretendo, non le chiedo per favore! Questa amministrazione ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia e, adesso, è tempo che metta in pratica quanto ha promesso di fare. Perché il tempo del consenso sulla fiducia sta per scadere, e la gente comincia ad essere un po’ stufa di chiacchiere. Io voglio poter andare da Longuelo a Redona, da Santa Lucia a Boccaleone, da Colognola allo Stadio, senza rischiare la pelle o i polmoni: in altre città, meno teoricamente Smart e molto più concretamente Clever l’hanno già fatto. Basta stringere qualche carreggiata, allargare qualche strettoia, costruire qualche ponticello: se si vuole fare, si può farlo in tempi brevi. Altrimenti, devo arguirne che non si voglia fare: che questa bella pochade del “tutti in bicicletta” sia soltanto l’ennesima trovata pubblicitaria. E io pago…