Il tax freedom day arriva prima, ma per i contribuenti resta l’ “inganno”

tasseIl tempo di celebrare il 2 giugno la Festa della Repubblica e il giorno seguente è il «tax freedom day», ovvero la data della liberazione fiscale che, quest’anno arriva dopo 154 giorni di lavoro, tre in meno rispetto al 2015, quando la scadenza cadeva il 7 giugno. Il “tax freedom day” segna lo spartiacque della pressione fiscale: dal primo gennaio fino a quella data quanto si è guadagnato è stato destinato al Fisco, dal giorno successivo fino a fine anno si lavora per il proprio interesse. Il calcolo arriva dall’Ufficio studi della Cgia, l’organizzazione degli Artigiani di Mestre, che ha esaminato il dato di previsione del Pil e lo ha diviso per i 365 giorni dell’anno per ottenere un dato medio giornaliero. Il gettito di imposte, tasse e contributi che gli italiani versano allo Stato è stato quindi rapportato al Pil quotidiano, ottenendo così il «giorno di liberazione fiscale» che appunto arriverà il 3 giugno, meno di due settimane prima del grande ingorgo tributario del 16 giugno quando tra Imu, Tasi, Irpef, addizionali, Irap, Ires, Iva e Tari gli italiani verseranno più di 51 miliardi di euro al Fisco. I tre giorni in meno sotto il giogo del fisco nel 2016 sono dovuti a un calo di gettito di oltre 5 miliardi legato soprattutto alla quasi totale abolizione della Tasi sulla prima casa. E se la situazione è un po’ migliorata rispetto al 2015, non va dimenticato che vent’anni fa, nel 1996, la liberazione fiscale avveniva il 29 maggio, ovvero cinque giorni prima.

In ogni caso, le elaborazioni della Cgia confermano che quando il premier Renzi proclama che il peso fiscale si sta riducendo non dice una bugia. Ma non dice nemmeno la verità. Tutto dipende da cosa si considera come tributo. Se ci si limita a guardare l’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, in effetti non ci sono aumenti perché le aliquote sono sempre le stesse e il peraltro minimo drenaggio fiscale, ovvero il passaggio ad aliquote superiori per effetto dell’inflazione, è comunque compensato dall’introduzione di nuove detrazioni. Se si guarda alla fiscalità sugli immobili c’è stato complessivamente un calo dovuto alla già citata parziale esenzione della Tasi sulla prima casa. Ma se le tasse sono la somma pagata per la prestazione di un servizio offerto da un ente pubblico, allora la data di liberazione fiscale dovrebbe scivolare nuovamente in avanti perché quella di far pagare servizi pubblici prima gratuiti (o meglio, a carico della fiscalità generale) è la strada che gli enti locali stanno percorrendo sempre più spesso per compensare i tagli operati dal governo centrale. Che così può senza tema di smentita dire di stare riducendo l’imposizione anche se il contribuente non ne vede gli effetti, dato che il suo reddito sfuma comunque.

Solo che questo avviene sotto un’altra forma, quella di maggiori prelievi dalla fiscalità locale, non solo in termini di incremento delle tariffe. Per restare a Bergamo è questo quello che sta accadendo, ad esempio, con il prossimo pagamento dei parcheggi anche di domenica. Si tratta solo dell’ultimo tassello di una trafila di servizi che prima il pubblico non faceva pagare e adesso lo fa, dall’ingresso nei musei cittadini al “contributo volontario” per acquistare materiale di consumo nelle scuole. La giustificazione che anche in altre città, in particolare Milano, si paga il parcheggio di domenica – “dimenticando” però che in molte altre questo non avviene, o per quanto riguarda i musei, che a Londra sono gratuiti nientemeno che il British Museum e la National Gallery – apre ampi scenari di emulazione inquietanti per i contribuenti. Dato che a Milano, ad esempio, si paga già l’ingresso nella zona centrale, come del resto avviene in provincia per alcune strade di montagna, potrebbe essere a questo punto il prossimo passo. Per inciso quella dei parcheggi a pagamento sembra una formula in decisa contraddizione con tutti gli appelli per rivivificare il centro. D’accordo sul fatto che ci sono necessità di cassa da parte del Comune, ma i conti li fanno anche i cittadini che piuttosto di spendere sei euro per tre ore di struscio per il centro se ne vanno in un posto dove il parcheggio è gratis e con i soldi risparmiati si comprano due gelati. Alla salute di Palafrizzoni e nel tentativo di portare ancora un po’ indietro nel calendario la data della liberazione fiscale.


L’omicidio di Sara e gli insopportabili leoni da tastiera

In questi giorni, su Facebook, i commenti pensosi riguardano soprattutto la povera ragazza romana, strangolata e bruciata dal suo ex fidanzato. Una storia terribile, che, comprensibilmente, ha suscitato raccapriccio e sdegno in quel vasto e variegato mondo che forma l’esercito degli editorialisti inediti. In linea di massima, i commenti si dividono, piuttosto equamente tra chi si augura che l’assassino rimanga in carcere vita natural durante, con annesso lancio delle chiavi della cella, e chi se la prende con i due automobilisti cui la povera ragazza avrebbe chiesto, inutilmente, aiuto, prima di venire uccisa. Premesso che non ho la minima idea del contesto in cui è maturato questo ennesimo, spaventoso, delitto, vorrei fare un paio di considerazioni delle mie sulla reazione del popolo della rete. La prima è riferita a quelli che auspicano un ergastolo effettivo per il truce omicida: scordatevelo. E ve lo dovete scordare perché, in questo buffo e triste Paese, quelli che, come voi, protestano animatamente per i femminicidi, per solito, sono gli stessi che ritengono che il carcere sia diseducativo, che hanno partorito le varie leggi Gozzini, che stanno sempre dalla parte di quel Caino che nessuno dovrebbe toccare. Ecco, questo signore, che ha strozzato e bruciato la propria ex fidanzata, una ragazza di ventidue anni, è Caino: pochi meglio di lui potrebbero interpretare il ruolo del segnato da Dio, che ha ammazzato il fratello per futili motivi.

E, dunque, a questi signori del dolore, a queste vestali della comprensione, non posso che dire: volevate Caino? Eccolo qua. Guardatelo bene in faccia: è uno qualunque, che, per la fine di un rapporto che, evidentemente, non sapeva accettare, ha ucciso la ragazza di cui era innamorato e l’ha bruciata. E’ questo, Caino: non ha la faccia bieca degli aguzzini delle SS. Nessuno deve toccarlo? Benissimo: poi, però, non ci menate il torrone con la violenza sulle donne, perché, probabilmente, un assassino ucciderà comunque, ma, senza qualche forma di deterrente, lo farà sicuramente più a cuor leggero. E voi, gente da botte piena e moglie ubriaca, accettate, una buona volta, il prezzo delle vostre corbellerie buoniste: il male esiste e non si sradica con le chiacchiere. Se un omicida, che è fondamentalmente un vigliacco, sa che, se lo beccano, marcirà per sempre in una galera, almeno un pensierino in più sulla convenienza di uccidere state certi che lo farà. Quanto al riflettere sulla valenza morale dell’omicidio: cosa volete che rifletta uno così? C’è una sola cosa che questo genere di persone arriva a capire: il caso in cui non gli conviene sgarrare. E, sapendo che certamente non la pagherà cara, sgarrerà più sereno. Quanto, poi, ai commentatori che se la prendono con quelli che non si sono fermati e che, a dir loro, dovranno portarne in eterno il rimorso sulla coscienza, rispondo facile facile: sicuri che voi vi sareste fermati? Alle tre e mezzo di notte, vi sareste fermati per far salire in auto una ragazza sconosciuta che domanda aiuto: non avreste, per caso, pensato al solito trucco per derubarvi, oppure al fatto che qualcuno avrebbe potuto prendersela con voi, magari sparandovi?

Perché non viviamo precisamente in tempi rassicuranti: io, che normalmente mi fido del prossimo e non sono precisamente uno che si tiri indietro, sono stato derubato alle cinque del pomeriggio, in via Gavazzeni, da una ragazzotta armata di coltello, che mi aveva chiesto un passaggio al ponte di Boccaleone. Poca roba, cinquantamila lire, e lei era evidentemente una tossica: avrei potuto darle due pappine, ma ho preferito darle i soldi. Fatto si è che, a concedere un passaggio, che vi piaccia o no, cari i miei figli dei fiori, si rischia: immagino che, alle tre del mattino, questo pensierino possa pure sfiorarvi. Dunque, come la mettiamo? Tutti eroi voialtri leoni da tastiera? Tutti pronti a rischiare chiappe, denaro ed automobile per scendere in lizza, come un cavaliere antico, a difesa della donzella in pericolo? Ma non fatemi ridere: piagnucolosa banda di pacifisti da tinello. C’è un solo modo per limitare i danni: e quel modo si chiama, che vi piaccia o meno, repressione. E’ un circolo vizioso: insicurezza, paura, impunità, sfacciataggine. Bisognerebbe invertirlo e renderlo virtuoso: sicurezza, tranquillità, certezza della pena, prudenza. Lo so che parlo ai muri e che nessuno mai penserebbe di collegare due cose tanto, apparentemente, distanti, come questo dramma d’amore malato e la sicurezza dei cittadini. Eppure, forse, in un altro contesto civile, quegli automobilisti si sarebbero fermatevi. Pensateci.

 


Ubi? Non trattiamola da supereroe del sistema bancario

veneto bancaUbi Banca è da tempo tirata per la giacchetta per intervenire a salvare altri istituti, neanche fosse un supereroe del sistema bancario. Forte di un patrimonio eccedente le strette necessità, ma che comunque non può essere sprecato, alcuni la vorrebbero intervenire al capezzale del Monte dei Paschi, altri a sostegno degli istituti veneti. Eppure data la situazione incerta, e probabilmente con molti scheletri nelle casseforti, dei candidati, se Ubi decidesse di proseguire nella sua aurea solitudine non le si potrebbe dare torto. Gli ultimi insistenti rumors riguardano un possibile intervento in Veneto Banca. Le ipotesi di crescita verso Est si rincorrano da tempo: c’è stato qualcosa di più di un interessamento con l’istituto veronese che ora sta dando vita a Banco Bpm, ma si era parlato anche di Popolare Vicenza e di Veneto Banca. “Sistemata” la Popolare di Vicenza con il fondo Atlante, resta quindi soltanto l’ipotesi dell’ex Popolare, ormai Spa, con sede a Montebelluna. Ed è auspicabile che al momento questa resti soltanto un’ipotesi o neanche questo, come del resto continua a sostenere la stessa Ubi banca con ripetute smentite sul fatto che sia aperto un dossier.

Ci sono fondati motivi per i quali l’operazione non appare particolarmente allettante. Innanzitutto perché si sta per preparare un aumento di capitale da un miliardo a servizio dell’Ipo dall’esito molto incerto, tanto che non si esclude un intervento del fondo Atlante. Esattamente come avvenuto poco tempo fa alla Popolare di Vicenza, dove il Fondo versando 1,5 miliardi si è trovato con il 99% del capitale, dato che la sottoscrizione si era fermata all’8%, nonostante il prezzo stracciato (0,1 euro per azioni che tre anni prima erano state collocate a 62,5), peraltro adeguato al valore dell’istituto. Anche per Veneto Banca (nella quale è confluita alcuni anni fa la Banca di Bergamo) si prospetta un aumento di capitale che farà diluire la quota degli attuali soci, anche se non in maniera così netta come nella Vicenza. Del resto in occasione della trasformazione in Spa di fine 2015 è stato fissato un diritto di recesso ai soci Veneto Banca a 7,3 euro ad azione, a fronte dei 30,5 euro del valore (attribuito dalla banca stessa) di un anno prima.

Le criticità a Montebelluna del resto non mancano e vanno dai dubbi legati alla mole dei crediti deteriorati, conseguenza anche di una crescita vertiginosa avvenuta attraverso acquisizioni senza guardare troppo per il sottile, alla bassa redditività e al calo dei depositi. E poi ci sono le stime del piano messo a punto dal nuovo Ceo Cristiano Carrus (ex Creberg), che prevedono un utile di 152 milioni al 2018 e di 249 milioni al 2020, ritenute dagli analisti troppo ottimiste. Tra i «pro», invece, c’è l’opportunità del consolidamento. Veneto Banca, infatti, per Banca Imi, l’investment bank di Intesa Sanpaolo (capofila del consorzio di garanzia che garantisce l’aumento di capitale, salvo futuro intervento del fondo Atlante ), è un candidato potenziale nel risiko grazie alla forte presenza in zone attraenti e allo spazio per potenziali sinergie. Se proprio il Fondo Atlante, che già controlla la Popolare di Vicenza, dovesse intervenire anche in Veneto Banca, si troverebbero sotto lo stesso cappello due istituti che in passato si erano corteggiati senza però arrivare all’accordo. Ma dato che potrebbe intervenire il Fondo Atlante a fare il lavoro sporco dell’aggregazione e soprattutto della sistemazione delle sofferenze dei prestiti (o Npl-non performing loans), non dovrebbe intervenire Ubi che ha disposto una partecipazione con 200 milioni al Fondo, ora dotato di 4 miliardi, proprio per non affrontare il problema degli Npl e di evitare interventi diretti che peserebbero sui bilanci.

Acquisire una quota importante, se non il controllo di Veneto Banca, in sede di aumento, vorrebbe dire infatti esporsi a un esborso di cassa comunque importante, assottigliando pericolosamente i suoi cuscinetti patrimoniali. E in questa fase congiunturale ricostituirli con un aumento di capitale non è operazione dall’esito scontato. Inoltre si assumerebbero rischi rilevanti per l’ampiezza del portafoglio crediti deteriorati, per le pendenze legali legate alla vendita di azioni ai clienti e per le difficoltà sul fronte della raccolta e dei ricavi e in generale della gestione operativa. Se proprio Ubi fosse interessata a Veneto Banca lo potrà fare con minori rischi quando la situazione si sarà meglio definita e stabilizzata. Sarà importante, a questo proposito, vedere come e a che prezzo sarà concluso l’aumento di capitale e da chi sarà formato l’azionariato dopo l’operazione. In questo momento in ogni caso l’istituto ha bisogno di risorse fresche, che Ubi Banca non ha intenzione di farsi drenare, mentre dopo l’aumento di capitale, se Veneto Banca avrà riportato i suoi indici patrimoniali sopra il livello stabilito dalla Bce, un’eventuale operazione potrebbe anche essere impostata carta contro carta. Ma al momento è solo un’ipotesi che si potrà verificare nei prossimi mesi, o forse anche di più. Quando magari l’interesse potrebbe essere per un più succulento pacchetto “Popolare Vicenza-Veneto Banca” ora inesistente.

 

 


Perché noi bergamaschi siamo dei poveri fessi

tutor-comoTorno or ora, come ogni maggio che Dio manda in terra, dal festival della storia di Gorizia: una kermesse da 45.000 presenze in tre giorni, cui gli organizzatori dimostrano la bontà di invitarmi. Non ho intenzione, tuttavia, di attaccarvi la solita mella su quanto siano bravi i Goriziani ad organizzare manifestazioni storiche e quanto ne siano incapaci da queste parti. Dopo la boutade dell’assessore che fa iniziare la Grande Guerra il 23 di agosto, presumo che non valga la pena di spendere altre parole sull’argomento. No, le mie considerazioni sono di altro genere, e riguardano aspetti che travalicano una valutazione semplicemente politico-amministrativa, per invadere il campo dell’antropologia o, se preferite, della psicosociologia. Insomma, per farla breve, ho elaborato la forte convinzione che noi siamo i più cretini d’Italia. Noi Bergamaschi, intendo: pensiamo di essere chissà quali furboni, invece siamo dei poveri fessi. Tutto ce lo urla a chiare lettere, ma noi, caparbiamente, procediamo col crapone basso,e  non ce ne accorgiamo.

Cominciamo dai trasporti: sorvolo sul fatto che, nel nostro territorio, abbiamo un’autostrada intasata come lo scarico di un bidet ed un’altra che non serve a nulla e che costa come il fuoco. Tra Milano e Brescia, ossia dove ci siamo noi, funziona un affaretto che si chiama “tutor”, anche se dovrebbe chiamarsi “fregator”, visto che frega e non tutela: il “tutor”, se la tua velocità media è superiore a quanto stabilito dal codice, ti bacchetta, a suon di multone. Il che sarebbe buono e giusto, se la cosa funzionasse ovunque così: se la legge, una volta di più, si dimostrasse uguale per tutti. Perché, credete che in tutta Italia esistano questi simpatici oggettini che controllano la velocità di crociera degli automobilisti? Nemmeno per sogno: tornando da Gorizia sono stato superato da ogni sorta di veicolo a quattro e due ruote per cui i limiti di velocità sembravano essere lirica trecentesca. Dovendo deviare su Conegliano, per evitare una coda gigantesca, ho potuto apprezzare le virtù velocistiche degli utenti delle Autovie Venete, che, tra Portogruaro e Sacile abbattono il muro del suono con peculiare assiduità. Insomma, noi paghiamo e loro corrono.

Ma veniamo all’annosa questione dei parcheggi, su cui, a Bergamo, si scrive e si dice di tutto: a Gorizia, le zone blu sono relativamente poche, non esistono autosilos perché la gente parcheggia in parcheggi pubblici gratuiti, esattamente come si faceva anche da noi, quando i bilanci comunali erano meno periclitanti: senza troppe balle, senza chiacchiere ecologiche, senza scuse, i Goriziani lasciano l’automobile, anche in centro, parcheggiata nelle piazze e ai bordi delle vie, e vanno in giro a piedi. Certo, Gorizia è piccolina: siccome, invece, a Bergamo, per andare a piedi dalla Torre del Galgario a piazza Pontida ci vogliono due mesi, ecco spiegati gli inghippi. O non sarà che questa bella storia dei parcheggi sia soltanto un sistema per spennare la gallina dalle uova d’oro, ossia noialtri babbalei nati tra i due fiumi?

E veniamo al costo della vita, ossia alla sopravvivenza, che è materia di cui m’intendo ben più che di storia. A Bergamo, tutto quanto, dagli affitti ai taxi, dai campi da tennis alla biancheria, costa mediamente più che altrove: non parlo della Sila o del Campidano, parlo di province limitrofe o analoghe alla nostra. Dunque, mi domando e vi domando in cosa possa consistere questo valore aggiunto: qual è il fattore che fa lievitare i prezzi bergamaschi. Io ho il sospetto che la cosa possa, in parte, derivare da una certa mancanza di arbitrio ‘elegantiarum’ da parte dei clienti orobici, ma non si può spiegare tutto con le sciurette a caccia di griffe. Piuttosto rimarcherei l’idea di tontaggine, perché, anche qui, noi ci dimostriamo dei tonti: ci sorbiamo le chiacchiere del venditore, laddove dovrebbero essere il leguleio ed il retore ad usare bene le parole, e i venditori le merci, va da sé. Ascoltiamo rapiti, annuiamo, ordiniamo ed imbustiamo paccottiglia, magari beandocene: tanto può la suggestione sul raziocinio. E potrei continuare a lungo ad elencare materie in cui il Bergamasco mantiene, con i suoi donativi, il resto del Paese, oppure dove si fa gabbare da qualche dulcamara.

Un ultimo esempio: la manutenzione stradale. Uno capisce di essere arrivato a Bergamo anche solo dai rimbalzi dei propri ammortizzatori: l’asfalto dell’asse interurbano è imbarazzante. Eppure, qualcosina in tasse lo scuciamo, tutti assieme: dove vanno a finire quei cumuli di palanche? Ma, tanto, chi dilapida, chi ci frega, chi fa pagare a noi per le magagne di tutti, sa benissimo che il vero carattere della razza bergamasca non consiste nel rimanere come brace sotto la cenere, sibbene come mulo sotto il basto o, se si preferisce, come il pio bove, solenne come un monumento, ma bovinamente disponibile a trarre l’aratro dove il bifolco desideri, con pia e bovinissima solerzia. Ecco, questo pensavo, tornando da Gorizia: che noi siamo proprio condannati, dal nostro peggior difetto, che è anche la nostra maggior virtù, ad essere sempre trattati come i più pirla del reame, per la nostra proverbiale tendenza a rispettare le regole, a starcene in coda, a pagare il dovuto, a contribuire, insomma. Mi piacerebbe immaginare che, come Brighella, a forza di fregature, ogni tanto mettiamo mano al bastone: ma questo, ahinoi, succede solo nelle commedie dell’arte. Nella commedia che si chiama Italia, siamo irrimediabilmente condannati a subire supinamente. E, a giudicare dal successo di pubblico e di critica di certi personaggi locali, verrebbe quasi da pensare che, in fondo in fondo, ci faccia perfino piacere.


Becco e bastonato, così m’ha ridotto la Giustizia italiana

Posso dire che non ci capisco niente? Di come funziona la giustizia in Italia, intendo dire: davvero non mi ci raccapezzo. Non capisco se sono io che ho un’idea un po’ troppo astratta dell’applicazione del diritto e delle procedure, oppure sono proprio i meccanismi ad essere inceppati, fino a ribaltare il senso delle cose. Eppure, un tantino di giurisprudenza l’ho masticata anch’io: prima di laurearmi in storia medievale, ho studiato legge,e non ero nemmeno tanto male, come studente. Si vede che non avevo colto il senso ultimo di quello che studiavo: colpa mia. Però, qualcuno mi dovrebbe spiegare quello che mi è successo, perché, sinceramente, da solo non riesco a spiegarmelo. Qualcuno tra i più affezionati dei miei tre lettori, forse, ricorderà quella faccenduola di cui ho già scritto tempo fa: la mia querela ad un pazzo che mi aveva insultato ferocemente in un suo blog su internet e che aveva nuociuto notevolmente alla mia, già scarsa del suo, carriera professionale. Allora, mi lamentavo della lentezza con cui il magistrato incaricato di esaminare la causa pareva operare: se avessi saputo come sarebbe andata a finire, probabilmente, mi sarei risparmiato la fatica di scrivere. Perché, qualche giorno fa, mi è arrivata una notifica della polizia locale, in cui mi si invitava a passare a ritirare una comunicazione che mi riguardava.

Dati i tempi e i miei rapporti notoriamente splendidi con il comando dei vigili urbani, mi sono un filo preoccupato, pensando a qualche multa non pagata o simili. Invece, era la notifica del tribunale di Bergamo, in cui mi si diceva che si comunicava alla parte offesa, cioè al vostro affezionatissimo, che la sua querela era stata archiviata, per l’impossibilità di identificare il querelato. Il che potrebbe pure starci: un sostituto procuratore avrà di sicuro cose più importanti da fare che indagare sul nome e cognome di un matto che insulta pubblicamente un galantuomo. Il fatto è che il predetto querelato, forte di non si sa bene quali certezze circa la sua impunità, non è affatto ignoto: si è firmato per esteso con nome, cognome e, perfino, secondo cognome. Bastava semplicemente aprire il link di quel blog per leggerne le generalità: mancavano solo il suo numero di scarpe e il colore degli occhi. Ne deduco che l’incaricato a questo tipo di operazioni, che immagino essere un agente della polizia giudiziaria o di quella postale, non ha neppure cercato il blog in oggetto, limitandosi ad una metaforica alzata di spalle. L’effetto di questa metafora è stata l’archiviazione della mia querela, con il precipuo risultato di avermi fatto spendere dei bei soldini, visto che gli avvocati, anche se sono tuoi amici, bene o male li devi pure pagare. E, come se non bastasse, a distanza di anni, su internet la pagina in cui mi si dà del mezzo uomo, dell’analfabeta e di tutta una serie di altre amene varietà antropologiche è lì, che campeggia trionfalmente, appena uno digiti il mio nome.

Il bello è che sembra che questo gentiluomo, sul quale ho raccolto privatamente qualche informazione, dato che è stato querelato (spero con miglior fortuna), per altre ragioni, anche da un mio amico, che mi ha spiegato di che genere di soggetto si tratti, stia preparandosi ad entrare in magistratura, se non ci è già entrato, visti gli anni trascorsi. La cosa ha, naturalmente, rafforzato a dismisura la mia ammirazione per la categoria, come potrete facilmente immaginare. Insomma, per riassumervi l’ennesima disavventura cimminiana: ho trovato un soggetto disturbato, che, in seguito a futile discussione su Facebook, ha pubblicato un articolo fortemente diffamatorio nei miei confronti, che da almeno tre anni campeggia in rete. Dopo due anni e mezzo abbondanti dalla presentazione di querela da parte del mio avvocato, mi si comunica che non si può risalire all’identità di uno che si firma con nome e cognome e che, per questo, la mia querela viene archiviata. Dunque, mi tocca pagare le spese legali, e gli insulti rimarranno per chissà quanto, a perenne memoria del mio scorno. Becco e bastonato: altro che parte offesa! Ora, miei buoni lettori, ditemi voi: cosa dovrei pensare di una giustizia che funziona così? Certo, questa è una questione minima: una diatriba sfociata in querela, nulla di più. Ma non posso evitare di pensare che, se le offese avessero riguardato il magistrato che ha archiviato la mia querela, adesso, probabilmente, sarebbero, perlomeno, sparite da internet. E, se la giustizia non è uguale per tutti nelle piccole cose, duro fatica a pensare che lo sia nelle grandi. La prossima volta che mi dovessero diffamare, immagino che sceglierò un’altra strada. Intelligenti pauca.


Troppi stranieri delinquono, ecco perché sono spregevolmente indignato

reati_sicurezzaAnche ieri c’è stato un episodio di criminalità: stavolta un violento scippo ai danni di una ragazza. Ancora una volta, sia pure con tutte le cautele dettate dalle precise direttive in materia, i mezzi di comunicazione, alla fine, hanno dovuto aggiungere che il delinquente era uno straniero. E io dico basta: non basta agli stranieri, intendiamoci. Basta con questa commedia: con questa conventio ad celandum, in cui tutti fanno finta di nulla, perché il primo che dice che il re gira nudo per strada diventa il bersaglio per ogni tipo di reprimenda. Il re è nudo: qui non c’è giorno in cui non salti fuori che uno straniero, un clandestino, un richiedente asilo, un immigrato, chiamatelo un po’ come vi pare, che tanto avete capito tutti benissimo a cosa mi riferisco, ha commesso un reato. Di solito, si tratta di robetta, furti, scippi, piccole rapine, violenze private: il monopolio dei delitti più importanti ce l’abbiamo ancora noi italiani. E sono soddisfazioni anche quelle! Ma nelle marachelle da taccheggiatori, sui treni o sugli autobus, in quelle piccole violenzine quotidiane che, alla fine, ti lasciano la sensazione di vivere in un far west privo di sceriffi, il monopolio è del tutto straniero: poco cambia se si tratti di romeni o di rom, di marocchini o di ghanesi, sono stranieri. E hai voglia di far finta di niente, quando ce n’è uno al giorno, di questi edificanti episodi.

Eppure, tutti fischiettano con aria indifferente, tanto pesa è la cappa di piombo che aleggia sulle nostre teste: è talmente densa questa opprimente dittatura mediatica e politica, da impedirci perfino di accettare quello che ci dicono i nostri occhi e la nostra mente Ed è la solita storia che vado lamentando da anni: è la teoria che ammazza la realtà, quando la realtà smentisce la teoria clamorosamente. E, siccome la teoria dice che gli immigrati sono risorse, che sono quasi tutti buoni tranne uno o due che sono solo birichini e che vengono da una tradizione simpaticamente ladrona, noi dobbiamo fare finta che le ragazze si scippino da sole, che la violenza la facciano solo gli zii-orchi tra le mura domestiche, che i frontali ubriachi li abbiano nel palmarès soltanto i bergamaschi. Ma possibile che la gente abbia così paura del giudizio di questi arcicensori, autonominatisi custodi delle nostre coscienze? Bastano quattro comandina a costringerci a tapparci occhi, bocca ed orecchie, come le proverbiali tre scimmiette? Basta aprire i giornali: basta seguire le notizie online, ascoltare i telegiornali locali. Lo schema si ripete, ossessivamente: qualche straniero, stufo di bighellonare senza fare un tubo da mane a sera, spinto dalla noia e dalla vigoria dei trent’anni, si cerca qualche svago. E palpa un sedere di qua, violenta una ragazza di là, molesta una signora di su, allunga una mano di giù.

Voi cosa fareste, se foste qui da soli, senza niente da fare fino a sera, se aveste trent’anni e nessuna bergamasca vi si filasse di striscio? Oggiù, anche la carne richiama la sua parte! E queste sono imprese da disperati, non da veri delinquenti: i veri delinquenti sono quelli beccati tre, quattro, cinque volte a spacciare, a rubare, a ricettare, che rimangono qui, protetti da leggi mal concepite ed applicate anche peggio, tra il silenzio della stampa e l’approvazione di quei politicanti che, su queste risorse, hanno costruito la propria fortuna, tanto politica quanto, qualche volta, economica. Così, dico basta: leopardianamente basta. Se tutti quanti s’illudono, se la cantano e se la suonano e sono felici e contenti di tenersi in casa questi problemi, io, perlomeno, non farò parte del coro: io dico che questa teppaglia che commette ogni sorta di reato, tutti i giorni dell’anno, senza soluzione di continuità, a me fa schifo. E che non ce la voglio, a casa mia. E che chi sgarra, deve sloggiare: punto.

So benissimo che non cambierà niente, che non mi si filerà nessuno, che le sciurette della Bergamo bene scuoteranno il capino impermanentato pensando: il solito Cimmino, che individuo spregevole! Verissimo: sono un individuo spregevole. Però, non ho mai rubato cinque lire, mai palpato un sedere non consenziente, mai violato l’altrui proprietà: e questo mi dà il diritto di essere spregevolmente indignato. E una certa praticaccia in opera d’inchiostro mi dà la possibilità di scriverlo, che sono indignato e che voi tutti, ciechi, sordi e muti, avete semplicemente paura. Paura di non rientrare nel canone che qualcuno ha stabilito per voi: a prescindere dal vero. Dal maledetto vero. Così, dico basta: non per arginare il fenomeno, che non è arginabile, ma per non sentirmi anch’io colpevole del disastro, per un sussulto di dignità. E, quando domani, leggerete dell’ennesimo reato commesso da uno straniero, pensate a me, che rido di voi.

 


Tra mamma e zia defunta, ecco l’impiegata comunale che non t’aspetti

Torre BoldoneLe occasioni di dire bene di qualche scheggia di istituzioni, di questi tempi, sono talmente rare che, quando capitano, non si può proprio perdere l’occasione di parlarne. Così, dopo tanti articoli in cui ho coperto di contumelie funzionari inefficienti, politicanti ignoranti o vigili pedanti, stavolta vi voglio sottoporre un brevissimo apologo, in cui, una volta tanto, i miei rapporti con la gestione della cosa pubblica mi hanno procurato piacere e soddisfazione. Dovete sapere che, qualche giorno fa, è morta improvvisamente una mia cara zia: era l’unica delle cinque sorelle di mia madre a non essersi sposata ed incarnava, anche per questo, la classica figura della zietta premurosa, che si fa in quattro per il prossimo, in infinite opere caritatevoli, oltre che, naturalmente, per i nipoti. Nelle sue ultime volontà, aveva espresso il desiderio di essere cremata: anche da morta, evidentemente, non voleva occupare troppo spazio o dare troppo fastidio.

Fatto si è che, non avendo altri parenti più prossimi, l’autorizzazione per la cremazione doveva essere firmata dalle due sorelle superstiti, vale a dire mia madre e mia zia Marinella. Per quel che riguarda la seconda, nessun problema: Marinella è la più giovane del sestetto e se la sbriga benissimo da sola. Mia mamma, però, ha novantaquattro anni ed un piede alquanto sifolino che, da qualche tempo, le impedisce di andarsene a spasso con passo bersaglieresco, cosa che era la sua specialità d’antan. Quindi, la firma dell’autorizzazione si è fatta un tantino complicata. Ve la faccio breve: mia zia è morta al “Bolognini” e il comune di residenza di mia mamma, ossia Torre Boldone, avrebbe dovuto inviare a Seriate l’autorizzazione via fax per sbloccare la procedura. Reso un po’ prevenuto dalle mie precedenti esperienze con la pubblica amministrazione, ho telefonato all’ufficio anagrafe di Torre Boldone, per domandare come dovessi procedere: erano le 8.45 e pensavo addirittura che non mi avrebbe risposto nessuno. Invece, contro i miei pregiudizi, mi ha subito risposto un’impiegata, gentilissima e disponibile, che mi ha spiegato nel dettaglio cosa avrei dovuto fare: anzi, per la verità, me l’ha anche ripetuto un paio di volte, avendo, evidentemente, capito subito che aveva a che fare con uno un tantino duro di comprendonio. Passo da mia mamma e ritirare la sua carta d’identità, indispensabile per la compilazione del modulo dia autorizzazione e me ne vado bel bello al Comune di Torre Boldone.

Ma la genetica non è un’opinione: se io sono un tantino duro, mia mamma è graniticamente negata alla realtà fenomenica. Difatti, la sua carta d’identità era scaduta nel 1993! Giunto allo sportello dell’anagrafe, con il mio bravo documento inutile da 23 anni, mi sarei meritato di sentirmi dare dell’asino somaro, a titolo individuale e familiare: viceversa, la gentile signora di cui sopra si è limitata ad attivarsi per risolvere la questione, non prima di aver espresso il proprio dispiacere per l’inconveniente. Non so dirvi se questo sia dipeso da una certa dimestichezza nel trattare con utenti pirla o da una congenita dolcezza di carattere: il risultato, comunque, è stato che il mio problema, previo intervento finale della zia Marinella nel ruolo di staffetta motorizzata, si è risolto in tempi rapidi, con piena soddisfazione di tutti. Lo so che efficienza e cortesia dovrebbero far parte del bagaglio deontologico di chi si rapporti con la cittadinanza: sta scritto nella “mission” di tutti i comuni d’Italia.

Siccome, però, tra la “mission” e la dura realtà c’è di mezzo l’oceano, io vi dico che a me questo modo di operare garba assaissimo e che voglio approfittare di questa mia rubrichetta per ringraziare quella sconosciuta signora e tutti gli impiegati come lei, che, anziché farsi i fatti propri, cercano di mettersi nei panni degli utenti, dandosi da fare oltre i loro obblighi istituzionali per facilitarne le incombenze burocratiche e, in definitiva, l’esistenza. Mia mamma mi aveva spesso tessuto le lodi del suo Comune di residenza, vantandone il riciclaggio ecologico, la cortesia degli addetti e degli abitanti, il benessere diffuso: confesso, però, che avevo attribuito tutto quanto all’incontrovertibile tendenza materna all’ottimismo nei confronti degli esseri umani. Ho dovuto ricredermi, in una circostanza, certamente spiacevole, ma resa, diciamo così, molto meno spiacevole dalla semplice cortesia personale. Ci vuole così poco ad accontentare un cittadino. Ci vuole così poco ad essere un pochino più umani.


Le attività produttive se ne vanno e Bergamo va in crisi d’identità

bergamo centro ritC’è un legame tra il caso dell’Italcementi, destinata in un prossimo futuro a spostarsi, con drastico ridimensionamento, ai confini cittadini del Kilometro Rosso, e la necessità di un rilancio del centro (che non si può solo limitare al Sentierone) in crisi di identità sempre più diffusa. Il decentramento delle industrie è un processo ineluttabile legato a questioni organizzative, logistiche e viabilistiche che le porta, non solo a Bergamo, fuori dalla città. Restano dentro i confini, tra le poche significative eccezioni superstiti, l’Abb (che però ha spostato la produzione a Dalmine) e le Trafilerie Mazzoleni, oltre alle Arti Grafiche e la Perofil (che già si erano peraltro spostate dal centro all’estrema periferia). Molto lungo è invece l’elenco, dalla Magrini alla Cesalpinia, dalla Filati Lastex alla Masenghini, dove la produzione ha lasciato lo spazio al residenziale.

Ma anche le sedi direzionali tendono a lasciare il centro in fondo per gli stessi motivi, di necessità di spazi più adeguati e funzionali, migliore accessibilità e possibilità, almeno in passato, di valorizzazione dell’immobile destinandolo a qualcosa d’altro. Alcune sedi bancarie sono completamente scomparse (la Banca Provinciale Lombarda), altre sono dimagrite (il Credito Bergamasco), altre restano a rischio (Ubi, non tanto per il futuro bancone, quanto per il tentativo di golpe sempre pendente – forse adesso meno – per un trasferimento a Brescia). Al Kilometro Rosso oltre all’Italcementi vorrebbe andare anche la stessa Confindustria Bergamo con la prospettiva che tra pochi anni via Camozzi si spopoli dal punto di vista lavorativo. Anche gli Uffici Statali lasceranno l’anno prossimo Largo Belotti, dove già da tempo si cerca un futuro per l’ex teatro Nuovo.

Pure buona parte del commercio però è uscito dal centro, prima quello all’ingrosso, poi anche molte attività al dettaglio, al seguito della grande distribuzione e dello sviluppo dei centri commerciali. In questo caso ai soliti problemi di accessibilità si aggiungono una serie di fattori specifici: un po’ incide l’avanzata di Internet, con il commercio elettronico che vale il 4% degli acquisti degli italiani, un po’ è colpa del calo e della trasformazione dei consumi, molto dipende dai problemi e costi di accessibilità da parte dei potenziali clienti, moltissimo è causa dei costi degli affitti che a fronte anche delle minore entrate per le ragioni precedenti rendono insostenibile per molte attività la permanenza in centro.

Ad aggravare la situazione generale è la “sdentatura” delle strade: i tanti “buchi neri” che si creano quando ad un’attività che lascia (che sia un’industria, un negozio o una caserma) non se ne sostituisce un’altra. Quando questa situazione non è solo temporanea, ma si consolida, la perdita di attrattività è assicurata e trascina al ribasso anche le altre attività. Perché in fondo il problema del centro si riduce a una questione banale. Come confermano le “notti bianche”, che però sono eventi sporadici, che rendono solo più evidente la differenza con la normalità, per rilanciare le occasioni per frequentarlo. Se vanno progressivamente perse le ragioni d’andarci, per lavoro, per shopping o per altre attività, la frequentazione delle persone andrà sempre di più verso altri poli, più attrattivi e accessibili, con buona pace di tutti i dibattiti sul rilancio.


Fondo Atlante, quell’opportunità tra salvataggi e business

Il fondo Atlante, un nome che indica bene lo sforzo che si propone di sostenere, è bene che ci sia, ma è soprattutto strano che sia arrivato così tardi. A prima vista sembra un progetto paradossale. Perché le banche italiane, che tutte, chi più chi meno, hanno già per loro conto sofferenze, ovvero prestiti che difficilmente rientreranno, per un totale complessivo di 200 miliardi lordi, dovrebbero mettersi a comprare le sofferenze degli altri? I critici, anche tra le stesse banche che in certi casi obtorto collo hanno dovuto accondiscendere alla partecipazione al fondo, sostengono che in questo modo, per salvare istituti decotti, si mettono a rischio anche gli istituti sani. Del resto, in sintesi, il fondo Atlante non è che una sorta di consorzio che per sostenere il sistema creditizio ed evitare che il crac di una banca abbia un effetto domino sulle altre si propone di comprare i crediti complessi degli istituti in difficoltà e sostenerli patrimonialmente in caso di necessità di aumenti di capitale che il mercato non è disposto a sottoscrivere. Eppure quello che da un lato sembra solo un salvataggio visto dall’altra parte è anche un’opportunità di business. Del resto c’è chi dell’acquisto dei crediti in sofferenza ha fatto il suo profittevole mestiere e non sembra un caso che al fondo Atlante si sia decisi di arrivare quando alcuni fondi internazionali si sono fatti avanti per rilevare Carige (il fondo Apollo) e la Popolare di Vicenza (il fondo Fortress) puntando proprio ai loro prestiti incagliati.

Banca EtruriaDel resto Fortress, fondo quotato a Wall Street, aveva annunciato nell’estate di due anni fa che avrebbe puntato un miliardo di euro per investire sui crediti in sofferenza delle banche italiane, desiderose di alleggerire le posizioni anche per rientrare nei limiti patrimoniali previsti dalla vigilanza. In questa ottica, infatti, tutti gli istituti, negli ultimi anni, hanno ceduto prestiti non performanti (i cosiddetti “non performing loans”), cioè fidi che i debitori non riescono più a rimborsare. Un servizio che ovviamente viene pagato: nel caso delle quattro banche salvate a novembre (Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti), ad esempio, il valore di cessione delle sofferenze è stato portato ad una media del 22,3% del valore nominale, data da una media ponderata tra il 31% assegnato alla porzione garantita da ipoteca e il 7,3% a quella chirografaria, senza garanzie. Ma ogni credito è una storia a sé. Un conto è il pagherò di un pizzicagnolo e un altro è quello di un mutuo su un immobile assistito da un’ipoteca. Ma è anche un conto un’ipoteca su un palazzo in via Montenapoleone e un altro su un appartamento in un condominio di Zingonia destinato alla demolizione. Quindi si tratta di andare a vedere, caso per caso, cosa c’è nel lotto e, con arte un po’ da antiquario e molto da rigattiere, trovare le pepite in mezzo al ciarpame senza valore.

Chi acquista in blocco pagando una frazione del valore nominale, può fare grandi profitti se riesce a farsi rimborsare dai creditori più di quella frazione o a valorizzare in maniera superiore ad esempio gli immobili che ottiene dall’ipoteca. E’ un lavoro da specialisti che richiede tempo – aiuterà molto l’annunciato decreto che prevede lo snellimento della procedura e la velocizzazione del recupero crediti – e anche le mani libere nel trattare il creditore che non sempre le banche hanno. Ma è redditizio tanto che secondo quanto stimato da Alessandro Rivera, a capo della direzione “Sistema bancario e finanziario” del Tesoro, il fondo Atlante potrebbe avere un rendimento del 6-7%. E questo nonostante le spinte perché l’acquisto dei non performance loans non ai prezzi di mercato, come potrebbe essere il 22,3% adottato per le quattro banche, ma vicino ai prezzi di libro (cioè al valore nominale detratti gli ammortamenti che mediamente sono intorno al 50%), in modo più favorevole agli istituti che li cedono, riducendo così anche la quota di potenziale recupero e di profitto per l’acquirente. Solo l’annuncio dell’arrivo di Atlante peraltro ha già portato ad un aumento dei prezzi di cessione dei Npl, a conferma che forse prima il business era sbilanciato a favore degli acquirenti. Del resto l’Abi stima che le sofferenze bancarie nette, quindi considerata la parte già spesata in bilancio, ammontino a 83 miliardi, quindi ci si avvicina al 40%, sempre come media (che è comunque quasi il doppio della valorizzazione adottato per le quattro banche), a fronte dei 200 miliardi di sofferenze lorde. C’è quindi margine da spartire tra minori profitti per l’acquirente e minore perdita per le banche che vendono: ma l’interesse per l’operazione resta.

Anche dagli aumenti di capitale, il secondo pilastro degli interventi di Atlante, che sarà probabilmente quello più importante, è possibile un ritorno nonostante l’intervento sia di ultima istanza di fronte al fatto che nessuno vi vuole partecipare. Il primo intervento di Atlante sarà con ogni probabilità l’investimento di una cifra vicina all’impegno massimo di un miliardo e mezzo nell’operazione di aumento di capitale iperdiluitivo che dovrebbe finire per dare al Fondo stesso il controllo della Popolare di Vicenza. Un istituto che viene valutato attualmente solo 10 milioni di euro, cioè una frazione del solo patrimonio tangibile, e dove i margini di recupero sono molto ampi. L’operazione Atlante quindi dovrebbe combinare salvataggi e business (con i rischi d’impresa del caso). Per quanto ci possano essere perplessità – a partire tra l’altro dalla capacità di intervenire con un patrimonio nel complesso contenuto (le adesioni hanno superato i 4 miliardi, ma tra Vicenza e Veneto Banca sono in arrivo aumenti che potenzialmente potrebbero richiedere l’intervento del Fondo per più di metà di quella cifra) di fronte a una montagna di 200 miliardi di sofferenze – c’è anche da dire che è bene considerare un’opportunità quella che in fondo era una strada senza alternativa.


Chi vuol chiudere l’ospedale condanna anche la Val Brembana

Ospedale San Giovanni BiancoConverrà affidarsi alla Sacra Spina. Chissà che una preghiera collettiva ai piedi della reliquia che nelle scorse settimane ha mostrato un “segno” che a qualcuno ha fatto gridare al miracolo non sortisca effetti migliori della marcia di protesta di 3-4 mila cittadini della Valle Brembana, scesi in strada per chiedere la salvaguardia dell’ospedale di San Giovanni Bianco.
Nonostante la mobilitazione popolare e malgrado l’affannarsi in ogni sede di sindaci e amministratori locali, il destino della struttura sanitaria è sempre più precario, fino al punto da non poter escludere (certo non a breve termine) una chiusura o una riconversione. Difficile immaginare un futuro sereno quando, secondo la collaudata tecnica del carciofo, il presidio perde un pezzo dietro l’altro. Nemmeno il tempo di digerire la chiusura del punto nascite, ed ecco il ridimensionamento della pediatria, la revisione degli orari del pronto soccorso, il timore di ulteriori tagli.
Da vertici della sanità bergamasca arrivano rituali e poco convincenti rassicurazioni. “L’ospedale non si tocca” giurano. Ma nello stesso tempo compulsano tabelle e normative. Proprio quelle che rendono poco credibili le loro parole. Perché il punto è tutto lì. E’ nell’assoggettare un ospedale di montagna alle logiche generali, nel considerare le strutture sanitarie tutte uguali, tutte misurabili su freddi parametri statistici ed economici. “Se non ci sono almeno 500 nascite all’anno, un reparto non può rimanere aperto” detta la Regione. E San Giovanni, che si è fermato circa alla metà, ha pagato dazio. Pazienza se un lieto evento in Valle Brembana ha un valore che va al di là del numero. E’ il segno della gente di montagna che non si arrende allo spopolamento, che rimane gelosamente attaccata al suo territorio, che continua ad immaginare un futuro in realtà isolate.
L’ospedale è un polmone che dà fiato alla Valle, è l’angelo custode su cui contare nel momento del bisogno. Se questo viene meno, svaniscono anche le ragioni per rimanere. Bisognerà rifletterci seriamente e ritrovare la coerenza tra i rituali richiami all’importanza della montagna e le decisioni che si prendono. Stupisce, quindi, che proprio chi fa della tutela delle radici il proprio atout propagandistico e valoriale se ne dimentichi quando procede con logica da piccolo ragioniere di paese.
Fa ridere pensare che le sorti della Sanità lombarda dipendano da qualche centinaio di migliaia di euro per i supposti sprechi dovuti al mantenimento dei servizi a San Giovanni Bianco. Non scherziamo, dai. I soldi buttati sono quelli finiti nelle tasche degli amici degli amici per consulenze inesistenti o per servizi pagati tre-quattro volte il loro valore. Basta ricordare solo gli ultimi scandali che hanno fatto finire in carcere in Lombardia l’ex assessore alla Sanità Mario Mantovani e il presidente della commissione Sanità Fabio Rizzi. Ma in questi giorni è in corso a Milano il processo a carico dell’ex governatore Roberto Formigoni e anche in questo caso sono emersi giri di denaro da decine di milioni assolutamente non giustificati se non da logiche di potere o familistiche.
E allora, finiamola di fare i rigoristi sui più deboli, su chi ha tutti i titoli per chiedere una attenzione che vada al di là delle occhiute regole di bilancio. Se è stato giusto riconvertire gli ospedali di Trescore, Calcinate, Sarnico, è altrettanto sacrosanto chiedere che a San Giovanni Bianco siano date tutte le risorse per mantenere viva ed efficiente una struttura di vitale importanza per una parte così significativa del territorio. Non è campanilismo, è semplice buon senso. Così come non è affatto una questione di quattrini. O meglio, lo è ma non fino al punto da impedire una decisione ponderata e legata alla specificità del caso. Insomma, è una mera questione di volontà politica. Il presidente (e assessore alla Sanità ad interim…) Roberto Maroni, se c’è e vuole davvero dimostrare di essere vicino al territorio, batta un colpo.