Dall’Ape all’anticipo del Tfr, quando a vincere è la propaganda

tfr-busta-pagaNel rispetto delle minoranze è corretto anche dare conto di provvedimenti governativi che interessano a pochi. Ma quando i mass media dedicano spazio eccessivo a normative che a un primo sguardo distratto possono sembrare interessanti, ma che poi sono di limitata utilità generale, è legittimo pensare che non ci sia stato un esame critico di quanto veniva proposto, ma si faccia solo a grancassa promozionale. E’ avvenuto ad esempio con la possibilità di ottenere l’anticipo del Tfr. Il provvedimento non era in sé malvagio, ma non era nemmeno eccezionale, per via di una struttura tecnica fragile. Da aprile 2015, in pratica, viene data ai lavoratori dipendenti la possibilità di chiedere il pagamento in busta paga del Trattamento di fine rapporto, che di regola viene versato appunto al termine del contratto di lavoro. Secondo un’elaborazione della Fondazione consulenti del lavoro di alcuni mesi fa su oltre un milione di retribuzioni esaminate solo 567 dipendenti avevano chiesto l’anticipo. All’incirca lo 0,05%. Il provvedimento, insomma, è risultato interessante per alcuni – bene che abbiano potuto approfittarne -, ma presentarlo come un successo politico è fuori luogo. Anche perché nella relazione tecnica della legge di stabilità il governo aveva ipotizzato che, a regime, la norma potesse interessare circa il 40% dei lavoratori destinatari dall’operazione, dimostrando scarsa consapevolezza di quello che serve ai loro elettori. E il bersaglio è stato assolutamente non centrato per una semplice ragione: c’era un’eccessiva penalizzazione fiscale, tanto che si poteva sospettare, in maniera maligna, che l’obiettivo fosse più quello di far incassare l’Erario che i lavoratori.  Il prelievo sull’anticipo è infatti a tassazione ordinaria, rispetto a quella separata prevista sul Tfr, e quindi è conveniente solo per le fasce più basse di reddito. Morale: chi poteva farne a meno, lo ha fatto.

Un probabile bis del caso si prospetta con l’ “anticipo pensionistico”: prevede la possibilità di andare in pensione fino a tre anni prima rispetto alla data ora fissata a 66,7 anni, quindi a 63,7 anni ricevendo un prestito da restituire poi in 20 rate. Le assicurazioni dovranno garantire i rimborsi alle banche in caso di decesso. Nei tre anni di anticipo in pratica, si inizia a spendere la pensione che si maturerà solo tre anni dopo. E dalla “vera” pensione che scatterà comunque ai 66,7 anni si inizierà a rimborsare quando è stato incassato in precedenza. Quello che viene chiamato pomposamente “anticipo pensionistico” o in maniera simpaticamente ammiccante “Ape” in pratica è un prestito bancario, che qualcuno deve pagare, così come dovrà pagare la necessaria assicurazione, clausola in caso di morte. Se a pagare è il dipendente, si troverà quindi con un anticipo di tre anni, di importo inferiore a quello della reale pensione e in seguito pensioni ridotte fino a quando non verrà rimborsato l’anticipo percepito (e relativi interessi). Se lo Stato interverrà a pagare gli interessi di fatto sarà un beneficio per banche e assicurazioni. Se invece sarà l’azienda a pagare, allora è probabile che la possibilità sarà concessa solo quando c’è l’interesse a fare uscire qualcuno, sempre che l’impresa sia in grado di farlo.

La convenienza è insomma molto relativa.  Indubbiamente il fatto che ci sia questa possibilità può interessare qualcuno per il quale la decurtazione della pensione per qualche anno non crea problemi, magari perché ha altri redditi, ma è altamente improbabile che sia la soluzione definitiva per il problema. Tra l’altro, queste riforme sulle pensioni non sono ancora effettive se non previste per il 2017. Nel frattempo se ne continua a parlare, chi non è interessato al problema non lo approfondisce ed ha l’impressione che il governo si stia dando da fare. Invece sta essenzialmente giocando, perché i problemi sono ben altri. E lo si vede da un terzo esempio recentissimo: la concessione da parte della Ue della copertura con garanzia di Stato fino a 150 miliardi di euro per intervenire con iniezione di liquidità solo verso banche solvibili e soltanto fino a dicembre. Questo in effetti era un problema alcuni anni fa, ma da quando la Bce offre denaro a tasso zero non se ne sente più parlare. Quindi è più che probabile che quello che viene passato come un successo politico sia semplicemente un provvedimento che non verrà inutilizzato, e quindi inutile. Ma serve comunque a coprire il non risultato ottenuto sulla possibilità di intervenire sulle sofferenze bancarie, questo sì il vero problema per il sistema del credito, per l’Italia e in fondo per la stessa Europa. Ma la politica che pensa soltanto ai motivi interni – questo non soltanto in Italia, basti pensare a cosa ha combinato in Gran Bretagna il dimissionario premier Cameron con l’assolutamente evitabile referendum sulla Brexit – può ben sbandierarsi come il governo del fare. Non importa se fa le cose inutili e non quelle fondamentali.

 

 


Il dibattito culturale e politico regredisce. E così ci avviciniamo alla catastrofe

Officials of the Parliament try to stop deputies fighting after a member of the Futura e Liberta (FLI) group decided to give her voice to Italian Prime Minister Silvio Berlusconi during a confidence vote at the Chamber of Deputies, the Italian lower house, on December 14, 2010 in Rome. Italy held its breath as lawmakers staged a knife-edge confidence vote on Prime Minister Silvio Berlusconi's government that could bring down the flamboyant Italian leader. AFP PHOTO / ANDREAS SOLARO (Photo credit should read ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images)

Le società primitive, ossia quelle non regolate da un diritto esplicito e condiviso e prive di una sorta di superiore necessità che investisse di autorevolezza indiscutibile le istituzioni e le regole (augeo, in latino, significa proprio ‘aumentare’: di qui l’idea di autorità), fondavano il rispetto di persone, cose o luoghi su dei tabù. In pratica, il diritto era sostituito dalle paure ancestrali o da un’idea magico-religiosa dei fenomeni, per cui determinate figure, certe attività, alcuni santuari, erano inviolabili, pena una maledizione o una punizione divina: anche il termine ‘sacro’ trae origine da questo oscuro periodo pregiuridico e significa, appunto, originariamente, ‘intoccabile’. Non vi preoccupate, non intendo tenere un corso accelerato di epistemologia: volevo solo farvi capire che il concetto, irrazionale e superstizioso, di tabù affonda le proprie radici nell’alba della nostra civiltà. Oggi, in quest’epoca clamorosamente ignorante, anticulturale e credulona, si sta tornando a ragionare per tabù: si stanno riproponendo forme di percezione della realtà che, con i comprensibili mutamenti, in fondo ricalcano il sentimento delle cose che caratterizzava l’uomo arcaico, il cittadino protostorico, il barbaro.

Nel nostro mondo, tanto evoluto quanto poco sofisticato, si stanno progressivamente accantonando le spiegazioni, a favore dei dogmi: la ragione a favore di un’irrazionale compartimentazione del lecito e dell’illecito, del giusto e dell’ingiusto, che non poggia su basi giuridiche o logiche, ma semplicemente su aspetti fideistici e superstiziosi. Su dei tabù, insomma. E’come se, oltre ad aver vinto la guerra delle parole, una certa parte della nostra società, adesso, pretendesse di abolire direttamente le parole, sostituendole con un sistema binario di luci che si accendono e si spengono: quando si toccano certi argomenti, si accende la lucina del tabù e si chiudono le orecchie e le sinapsi dell’ascoltatore. Accade, ad esempio, nel caso di questioni tanto controverse quanto divisive: gli orientamenti sessuali, l’immigrazione, il fascismo e l’antifascismo, la religione. L’atteggiamento di un uomo libero e civile, alla luce di duemilacinquecento anni di evoluzione (sia pure a strappi) del pensiero umano, dovrebbe essere quello di ascoltare, argomentare e decidere: se le idee di un altro paiono più documentate o convincenti delle sue, l’uomo civilizzato le accoglierà, in tutto o in parte, modificando di conseguenza la propria opinione. Nel caso inverso, egli sosterrà in modo vincente le proprie idee, contribuendo alla crescita e alla consapevolezza del proprio interlocutore. Almeno, dovrebbe andare così.

La sapienza e la saggezza dovrebbero insegnarci che l’idea di un bene assoluto o di un male assoluto, così come quella di un’assoluta verità, sono patetiche utopie, buone per l’astratta argomentazione filosofica: la civiltà si basa su di una sintesi tra le idee e la realtà, e non si può abolire il mondo reale, solo perché non coincide con le nostre idee. Viceversa, con buona pace di generazioni di pensatori, oggi ci si muove spesso per puri dogmi: per categorie fisse e prive di qualunque analisi, ed autoanalisi, critica: esattamente come nella società dei tabù, esistono aree di pensiero che sono proibite, pena la scomunica, l’isolamento o, peggio, l’aggressione, tanto verbale quanto fisica. E non c’è sopraffazione più intollerabile di quella che avviene in nome di una malintesa democrazia: nulla, ai miei occhi, appare più insensatamente brutale dell’impedire ad un altro di manifestare la propria opinione, in nome della libertà. Chiunque non colga questa insanabile contraddizione, mi dispiace dirlo, è un troglodita o, in subordine, un perfetto imbecille. E’intollerabile che, non appena qualcuno si discosti dalla vulgata, questi venga immediatamente catalogato come paria, omofobo, islamofobo, razzista, fascista e chi più ne ha più ne metta, sia che esprima concetti elevatissimi, sia che farnetichi, semplicemente per il fatto di non concordare con questo canone opprimente.

Il quale canone non gode neppure di padri nobili: non è frutto del distillato intellettuale di generazioni di grandi pensatori. Nasce da accozzaglie di luoghi comuni, di torbidi passaparola, di pulsioni inconsulte, di mode, di slogan da quattro soldi. Soprattutto, muove dalla manipolazione ossessiva del consenso, tramite il bombardamento ideologico, semantico, semplicemente lessicale: in pratica è una sintesi tra l’ipnosi di massa e la pubblicità. Perciò, vorrei che lo sapeste, quel che muove, nel nostro mondo, determinati atteggiamenti censori, certe prese di posizione, alcuni luoghi comuni del dibattito culturale e politico, è semplicemente un regresso alla civiltà primitiva, a quella religio (che significa ‘superstizione’) che, nelle parole del grande scrittore latino Lucrezio, con i suoi tabù ed i suoi anatemi, è in grado di produrre catastrofi. Ci era arrivato un poeta del primo secolo avanti Cristo, e noi ce ne stiamo progressivamente dimenticando: se questa è civiltà!


La parabola di Maroni, il governatore comprimario

Tutti presi come eravamo a misurare gli effetti della Brexit, ci siamo persi che il presidente della Regione Roberto Maroni ha nominato, dopo nove mesi di interim per l’arresto di Mario Mantovani (a cui avrebbe fatto seguito, pochi mesi dopo, quello del consigliere Fabio Rizzi), il nuovo assessore alla Sanità. Forse qualcuno lo ricorderà: il governatore prima ci ha raccontato che avrebbe tenuto per un po’ l’incarico in virtù dell’importanza del settore e soprattutto alla luce della necessità di mettere in acqua la nave della nuova riforma sanitaria; e poi, si è lanciato nella promessa che avrebbe scelto una figura di alto profilo, non legata a questo o quel partito ma indipendente e capace di rilucere di virtù proprie. Tant’è che erano circolati diversi nomi, compreso pure quello dell’ex rettore dell’Università di Bergamo, Stefano Paleari.

Peccato fossero tutte fandonie, propaganda data in pasto all’opinione pubblica per cercare di far dimenticare la vergogna delle manette tintinnanti all’interno di Palazzo Lombardia. Il prescelto, infatti, alla fine è stato Giulio Gallera, tra i fondatori di Forza Italia a Milano, più volte consigliere a Palazzo Marino, capace nel giro di due anni di passare da sottosegretario in Regione alla Città metropolitana (2014) ad assessore al Reddito di Autonomia (ottobre 2015) ed ora al vertice del settore più delicato di quelli coordinati e gestiti nel capoluogo lombardo.
Senza nulla togliere alle qualità personali (pare sia molto simpatico e sfoggi discrete doti calcistiche nelle partitelle tra politici), la sua nomina altro non è che il frutto delle alchimie politiche (leggi manuale Cencelli), aggiornate ai rimescolamenti usciti dalle elezioni milanesi del 5 e 19 giugno scorsi. Il centrodestra ha perso, onorevolmente certo, la sfida ma nei rapporti di forza tra i partiti quello di Gallera ha quasi doppiato (20 a 11%) la Lega. E allora Maroni, con il fiuto di chi capisce come tira il vento (cioè contro la politica), non ha perso tempo e ha impalmato il buon Gallera. Con buona pace di promesse e annunci vari.

Chi si stupisce, tuttavia, sbaglia. Che Maroni non abbia una elevata statura politica ormai lo stanno capendo tutti. Di sicuro lo sanno da tempo i suoi concittadini di Varese dove, essendosi il governatore candidato alle ultime comunali (perse), gli hanno tributato poco più di 300 preferenze, non proprio da primato del mondo. Ma anche i leghisti avevano già dovuto prendere atto che mentre il cerchio magico e una parte della famiglia Bossi faceva il bello e cattivo tempo con le risorse della Lega lui beatamente pensava ad altro. E quando poi si è trattato di prendere in mano il volante del malmesso Carroccio, buon per i padani che si è fatto avanti in pochi mesi l’astro nascente Matteo Salvini perché altrimenti il Sole delle alpi si sarebbe trasformato in una stella cadente.
Alla guida della Regione più ricca e vivace d’Italia non ha saputo far altro che giochicchiare a centrocampo, rifugiandosi nel tatticismo politico della macroregione che verrà (ma quando mai?) e nel referendum sull’autonomia che nemmeno riesce a fissare. Nel frattempo, intorno a lui tutti i capoluoghi di provincia sono stati conquistati dal centrosinistra (ultima roccaforte caduta proprio quella di Varese, e qualcosa vorrà pur dire…). E così che oggi appare accerchiato in uno scenario in cui da possibile leader si è risolto ad essere un comprimario. Come dimostra la nomina di Gallera. Eppure, proprio le elezioni di Milano avevano dato un segnale chiaro, visti i consensi ottenuti da una figura come quella di Stefano Parisi. Forse Maroni nel leggere quel risultato si è dimenticato i suoi celeberrimi occhiali rossoneri. O forse, a dispetto di una proclamata diversità, anche lui è figlio di quella politica politicante che giorno dopo giorno continua imperterrita a scavarsi la fossa da sola.

 


La Brexit e l’errata concezione della sovranità condivisa

brexit2Alla televisione è stato intervistato un inglese, espressione della “ordinary people” o, come diremmo noi, della “ggente”, che ha votato “leave”, ma era disperato perché, quasi testuale, “non pensavo che avrebbe vinto”. Sono cose come queste che fanno ritenere che la vera grande riforma sarebbe ripensare il suffragio universale e inserire, in alternativa al limite anagrafico dei 18 anni per il diritto di voto, una soglia minima del quoziente d’intelligenza. Comunque sia, alla fine gli inglesi (e i gallesi) hanno deciso di andarsene spezzando l’Europa e lo stesso Regno Unito. Se non ci vogliono, come europei, i problemi maggiori se li sono procurati da soli e la cosa migliore sarebbe lasciarli andare al più presto. Ce ne faremo una ragione e, come in tutte le crisi – parola greca e quindi europeissima che vuole dire anche opportunità – c’è da auspicare che coglieremo l’occasione per passare, possibilmente con rapidità, da un’Unione europea a qualcosa che assomigli di più agli Stati Uniti d’Europa. Quel cambio di passo che il Regno Unito, a partire dal rifiuto dell’euro, ma anche con tante riserve, non ultima la richiesta (ottenuta) di una sorta di deroga su welfare solidale e immigrazione, ha dimostrato di volere frenare, più che ritenere un obiettivo.

Da un punto di vista economico, i danni peggiori li avranno gli inglesi, che ritengono di essere importanti per loro stessi, come se fossero ancora l’impero ormai dissolto da oltre mezzo secolo, e non perché sono (o erano) la porta dell’Europa.  Le conseguenze ovviamente le avrà anche l’Europa, che però, soprattutto se coglierà l’occasione per una governance più efficiente, ha una maggiore forza per superare queste e le forze centrifughe emulatrici che si sono diffuse dopo il voto. Questo è infatti l’aspetto più paradossale. Il Regno Unito ha voluto uscire, nonostante l’Europa l’ammonisse che insieme si è più forti, perché non voleva che Bruxelles decidesse per lei. Adesso è il Regno Unito che dovrà ripetere quello che le diceva l’Europa a Scozia e Irlanda del Nord che non vogliono che Londra decida per loro.

La situazione che si è creata in poche ore sembrava fantascienza: tre milioni di britannici che chiedono di cancellare la Brexit, gli Scozzesi che vogliono di nuovo l’indipendenza per restare in Europa, Gibilterra che non vuole uscire dall’Unione e gli Irlandesi del Nord che vogliono riunirsi alla Repubblica di Irlanda, obiettivo al quale forse sono più vicini adesso che con tutti gli attentati dell’Ulster. Con la ciliegina di una proposta di secessione della stessa Londra, fedele al remain, dal resto del Regno Unito. E anche su questo c’è un effetto a cascata, che stuzzica le velleità separatiste. Se si lasciasse correre, si andrebbe verso una frammentazione jugoslava o una parcellizzazione che ricorda quella dell’Italia prerisorgimentale, quando per andare da Milano a Bologna, percorso di poco più di 200 chilometri che adesso con il treno Frecciarossa si fa in un’oretta, bisognava attraversare tre confini con rispettive dogane (quattro se si voleva arrivare a Firenze).

A questo siamo arrivati per una demente prova di forza di politica interna voluta dal dimissionario premier inglese Cameron, in un referendum assolutamente evitabile, e per una diffusa questione di identità distorta, mista ad una democrazia che va bene solo fino a quando viene deciso quello che piace. Tutto ruota intorno ad un’errata concezione della sovranità condivisa. Non è imposizione quando si partecipa a una decisione. Ed è quello che avviene ai Paesi, finora Regno Unito compreso, che fanno parte dell’Unione europea, dove diventa comodo scaricare la colpa su Bruxelles, dimenticando che le decisioni vengono prese collegialmente dai rappresentanti dei vari Paesi, Regno Unito e Italia compresi, così come al governo centrale di Roma le decisioni vengono prese insieme  dai rappresentanti dei vari territori italiani. Per qualcuno però è imposizione la decisione che non viene condivisa, nel senso che non si è d’accordo. Allora si tende a ridurre il territorio fino a quando non si riesce ad avere una maggioranza della propria opinione, se non addirittura l’unanimità, che poi sarebbe la situazione ideale dove le decisioni non sono sentite come imposizione. Ma questo ridurrebbe gli Stati a dimensioni di condomìni (o anche meno). Lo si è visto anche in un quartiere cittadino, Borgo Santa Caterina, dove per la questione dell’asfaltura qualcuno ha parlato di imposizione del Comune di Bergamo. Si arriverà anche qui alla richiesta di indipendenza?


Il popolo “ignorante” e gli irriducibili marchesi del Grillo

C’era una volta il popolo. Non la plebe, intendiamoci, il popolo: quello che, ad un certo punto della storia dell’umanità, ha smesso di essere il popolo incazzato per diventare il popolo sovrano. Il popolo, credetemi, è un sovrano assoluto: verga le proprie carte col motto del gran Luigi car tel est nôtre plaisir, governa arbitrariamente, secondo istinti e pulsioni difficili da decifrare. Dopo essere stato rabbonito o imbonito, dopo averlo vezzeggiato, minacciato, spaventato, finalmente, decide: non decidono gli architetti o i ciabattini, i medici o le infermiere, ma tutto il popolo, tutti quanti. Questo sistema viene definito ‘democrazia’, per analogia con la parola greca δημοκρατία, che, però, non voleva affatto dire governo del popolo, sibbene del  δῆμος, che, ad Atene, significava, a un dipresso, “quartiere”: insomma, un sistema elettorale a base distrettuale. Tanto è vero che, nella culla della democrazia, votava una percentuale risibile della popolazione: immigrati, mezzi stranieri, donne, schiavi e così via se la potevano solo sognare, la nostra democrazia.

Ciò detto, ad un certo punto del difficile ed accidentato percorso verso l’emancipazione dei popoli, una serie di intellettuali, ovviamente tutti borghesi e privilegiati, si è inventata un nuovo modo di intendere l’esercizio del potere: la democrazia moderna, appunto. Di fatto, questa democrazia consisteva nel fare il bene del popolo: dato, però, che il popolo, anche allora, era un tantino ondivago e non proprio erudito in materia di diritto pubblico, si riteneva che lasciargli fare sarebbe stato alquanto catastrofico. Così, questi signori incipriati optarono per quella che definirei la bisnonna della visione democratica d’oggidì: la democrazia per interposta persona. Un sovrano, un principe, un politico, sinceramente innamorati del popolo, ma coscienti del fatto che il popolo è come un bambino un po’ duretto, decidevano, come bravi tutori, per il suo meglio: interpretavano, per così dire, quelle esigenze che il popolo ha, ma non sa di avere, perché è un tantino sempliciotto. Nacque, così, il dispotismo illuminato, sotto l’impresa voltairiana: tout pour le peuple; rien par le peuple. Mica scemo, Voltaire: la botte piena  e la moglie ubriaca. D’altronde, è ancora quello cui si attribuisce quella scemenza sul difendere fino alla morte l’idea di chi non la pensa come te: un furbo del genere non avrebbe mai detto una simile idiozia e, infatti, non la disse mai. Sono pillole di educazione alla cittadinanza che vi regalo volentieri.

Ma torniamo alla nostra democrazia. Più o meno alla fine del XIX secolo, questa idea di libertà e di parità si arricchì di un nuovo suggestivo elemento: i partiti popolari. Fino a quel momento, i partiti esprimevano gli interessi di ristrette cerchie di maggiorenti: i rentiers, gli industriali, la casta militare e così via. Da quel momento, alcuni partiti ricorsero alle piazze: al popolo senza distinzione. Naturalmente, il loro primo obiettivo fu quello di ottenere il suffragio universale, in modo che tutti potessero votare e, sperabilmente, votare per chi aveva dato loro questa possibilità. Per la cronaca, i primi ad applicarlo furono i Finlandesi, nel 1907: ma non mi ringraziate, è solo educazione alla cittadinanza, nulla più. Fin da subito, sull’idea di democrazia ci fu qualche, chiamiamolo così, dissapore: il congresso di Erfurt del 1891 sancì la nascita della socialdemocrazia, ossia la via riformista alla democrazia sociale, ma fruttò al padre di quella bella trovata l’epiteto di “traditore”, di cui lo felicitò quel futuro paladino della libertà e del diritto che rispondeva al nome di Vladimir Il’ič Ul’janov, che molti di voi conoscono con il soprannome di Lenin.

Insomma, erano appena nati e già si prendevano a sberle: quella di Lenin, magari, era solo una provocazione, di quelle che smentisci il giorno dopo, dicendo che non ti avevano capito, però ebbe una certa fortuna, nel corso del Novecento. D’altronde, quando gli toccò, Lenin risolse la questione del suffragio a modo suo, abolendolo semplicemente, perché dove c’è il governo perfetto, non c’è nessun bisogno di domandare al popolo se è felice: lo è di default. Ed arriviamo quasi ai nostri giorni: sorvolo sul Sessantotto, con la sua idea libertaria che sembra la voglia di un sedicenne di avere le chiavi di casa per tornare la sera tardi, perché quella non fu nemmeno un’ idea, ma una tensione pelvica. Parliamo, piuttosto di chi, da qualche decennio, detiene i rotoli sacri della legge: dei gran sacerdoti della democrazia. Tutta brava gente: di quella che applica con una certa pervicacia la regola del “bù per me, mia bù per te”, che sarebbe la versione attuale del “io so io e voi nun siete un cazzo!”, che molti attribuiscono al celebre film Il marchese del Grillo: ma io che mi sono autoimposto di educarvi alla cittadinanza, vi svelerò trattarsi di un sonetto del Belli ritoccato.

Vi dirò, concludendo la breve lezioncina, che questi signori non si sono, in definitiva, spostati granché dalle posizioni dei loro padri politici putativi. Tra i più noti paladini di questa innovativa visione del popolo con la museruola troviamo, nell’ordine, uno che parla di libertà ed applaudì l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, uno che cita nazismo e fascismo riferendoli al Paese che ha perso 382.600 soldati per liberarcene e, infine, uno che si lamenta per l’ignoranza di un popolo cui ha regalato per quasi trent’anni perle come “L’isola dei famosi”, contribuendo in maniera determinante a farne una plebe affamata di spazzatura. Così, cari i miei involontari allievi di questo succinto corso di educazione alla cittadinanza, la mia domanda finale è: perché mai, dati i presupposti, dovremmo pensare che chi non la pensa come i sopraddetti debba pensarla sbagliata? La storia sembrerebbe dirci l’esatto contrario. Ma, forse, la storia è solo un dettaglio, in democrazia.


Ecco perché non sarò più “complice” di questa finta democrazia

elezioniQuando hai un congruo numero di primavere sulle spalle, fossero pure spallacce da alpino come le mie, il ballo sull’aia perde, di necessità, un poco del suo fascino primordiale: non dico che si diventi saggi, ma, perlomeno, non ci si abbandona a sogni di idilli agresti e di gonne a balze fruscianti nel fremere della giga e della passacaglia. Ricordo la sincera emozione con cui seguivo le vicende elettorali, quando la nebbia dorata dei diciott’anni o poco più mi rendeva cieco alla noia e alla disillusione: la ricordo come ricordo i batticuore liceali, i foruncoli o il motorino che arrancava in salita. Sostanzialmente, ero un idiota. Amavo a vanvera e, col senno di poi, a vanvera votavo. Non che oggi non sia un idiota, intendiamoci: però, perlomeno, so distinguere tra l’amore e un Frecciarossa che si avventa verso le mie terga, tra una competizione elettorale seria ed una ridicola ordalia. Lo dico perché, come molti di voi – anzi, più di molti di voi – ci ho disperatamente creduto in questa specie di stanco cerimoniale che chiamano democrazia: confondevo, lo ammetto, il concetto squisitamente politologico di democrazia con quelli, straordinariamente più umani, ma meno applicabili al reale, di giustizia, civiltà, senso della comunità.

Invece, ho capito, coll’implacabile incedere degli anni, che la democrazia è un’altra cosa: è una disgustosa alchimia, un tecnicismo, un astratto comporre tessere di un domino che non ha come scopo la vittoria del bene, ma solo la vittoria del proprio bene, fosse pure estendibile a milioni di persone. Io, oggi, ve lo confesso, odio i politici navigati: quelli che ti prendono per il gomito e, in disparte, ti parlano della politica come se fosse un argomento ieratico, da iniziati. Ti fanno capire, con questo gesto viscidamente inclusivo, che anche tu fai parte dell’eletta schiera degli illuminati, ma che gli altri, quelli che votano, sono come plastilina, sono gregge di ovini, miti ma inevitabilmente portati a seguire un cane da pastore. E, dietro a questa miseranda attività carbonara ci sono i partiti: l’istituzione centrale della democrazia e, al contempo, la più inutile delle creature della modernità. A cosa servono i partiti: ve lo siete mai chiesto? Invadono le pagine dei giornali e gli schermi televisivi, portano alla ribalta emeriti cialtroni presentandoli come inarrivabili guru, debordano giganticamente, costano cifre enormi, si intrufolano in ogni licita, in qualunque, concorso, in tutti gli appalti: a quale scopo? Cui prosunt? A se stessi, cari i miei due lettori: semplicemente a se stessi.

Ormai, i partiti esistono unicamente per mantenere la propria determinante quanto superflua presenza nella vita del Paese: sono loro la democrazia e non rappresentano il popolo sovrano, ma le corporazioni, le categorie, la curva. Quindi, perchè mai andare a votare? A che serve porsi tante domande, cercare tante risposte, se, alla fine, sulla bilancia della politica, il tuo voto vale quanto quello dei decerebrati che passano le ore in fila per comprare un cellulare, che scrivono la preferenza che gli hanno detto di scrivere, che, magari, sperano nel successo di questo o di quello per mangiarci su, per riempircisi le tasche? Ve la faccio breve: non serve a niente. Perché la democrazia ha fallito: non è affatto la miglior forma di governo possibile, è semplicemente l’unica rimasta. E, finchè non se ne troverà una nuova, che soppianti le teorie politiche nate nel XVIII secolo, ce la dobbiamo tenere. Ma non con il mio voto: non con la mia correità, please.

Questo è il mio commento ai risultati delle amministrative: chissenefrega se ha vinto Sala contro Parisi, se Roma ha votato in massa per la Raggi, se Fassino ci ha tolto il disturbo ed è rientrato nel suo loculo. Cambierà poco o nulla, perché la democrazia non è più in grado di cambiare le cose: perfino i tempi della politica si sono dilatati al punto che, tra una campagna elettorale e l’altra, l’elefantiasi delle strutture impedisce a chiunque di riuscire a completare anche solo un frammento degli ambiziosissimi programmi della vigilia. E, allora, io, trilussianamente, vi confesso che me ne strabatto: Franza o Spagna purchè se magna! Anzi, spero, nel fondo del mio vecchio cuore di rivoltoso e teppista, che, ad un certo punto, da una parte si magnerà troppo e, dall’altra, si magnerà troppo poco, perché, solo così, forse, la gente capirà che è tutta una gran presa in giro: che nessuno cambierà mai, dal di dentro, un sistema che gli ha concesso lusso e potere, autorità e fama, a prescindere da qualsivoglia merito individuale. La rivoluzione, insomma, la faranno gli affamati, gli sfruttati, i vilipesi. La gente perbene, che ha sempre subito gli insulti di una finta democrazia rappresentativa, costruita a suo esclusivo danno. E, intorno all’albero della libertà, questa volta, non ci saranno i giacobini a zampettare come baccanti: loro penderanno dai rami, insieme agli abiti lisi e stropicciati di monsieur Voltaire.


Brexit, ecco come i britannici stanno vivendo la vigilia del referendum

BrexitManca una settimana al referendum sul Brexit e il panorama appare più incerto che mai. Certo non ci saremmo aspettati, alcuni mesi fa, di arrivare a questo punto, con un testa a testa così serrato e la possibilità, per certi aspetti piena di incognite, di un voto per l’uscita. E’ una settimana cruciale in cui nessuno, nenanche i più disinteressati alla politica, non possono ignorare il fatto che il voto è alle porte ed è il momento di informarsi e decidere. Dopo che l’autorevole Economist si è schierato per lo status quo, il Sun, giornale popolare e letto dalla “classe operaia”, si è schierato dall’altra parte. Nelle prossime ore altre testate, se ancora non l’hanno fatto, prenderanno una posizione. In questo senso le battute finali di una campagna elettorale non sono molto diverse da paese a paese: anche qui i politici appaiono trafelati, iperventilati, e soprattutto ovunque, a tutte le ore in tv, sui giornali, sui siti. Sono sovraesposti, si attaccano continuamente ma ancora non riescono a dare chiarezza su quel che più conta per l’elettorato, ovvero i fatti. Manca una prospettiva chiara perché nessuno conosce con certezza le implicazioni di uno scenario diverso da quello attuale. E le risposte, anche quando arrivano, non sono né giuste né sbagliate. Per esempio con una Brexit le importazioni costerebbero di più e andrebbero a toccare i costi della spesa quotidiana delle famiglie, ma dall’altro lato aiuterebbero le esportazioni.

Se con la Brexit i costi delle case precipitassero sarebbe davvero una calamità? Chiedetelo a chi è giovane e si sente tagliato fuori per sempre dalla possibilità di acquistare casa e scoprirete che si tratta di uno scenario auspicabile. Nella maggior parte dei referendum lo status quo ha la meglio, ma in questo caso è diverso, perché lo status quo non è quello che sta scritto sul documento elettorale. L’Unione europea cambia di giorno in giorno, creando leggi difficili da prevedere. La Brexit ha inoltre significati diversi a livello individuale. Se la Brexit passasse, il nuovo primo ministro potrebbe negoziare l’accesso al mercato europeo e dare in cambio il mantenimento delle legge attuali sulla libera circolazione degli europei in UK. Nessuno sa cosa significa davvero. Nemmeno gli economisti, che fanno previsioni ma, come sappiamo bene, non hanno poteri di preveggenza. Se sapessero prevedere il futuro, il crash finanziario del 2007 non sarebbe avvenuto, o ci avrebbero almeno avvisati. I britannici sono ormai stanchi di sentir parlare di referendum ad ogni ora, ma perlomeno non devono recarsi alle urne come i cugini americani e votare per Hillary Clinton o Donald Trump, due dei candidati meno popolari nella storia delle elezioni americane di sempre.

 


Gli svizzeri dicono “no” al reddito minimo, ma in Italia potremmo farci un pensierino

Reddito minimo in SvizzeraSi può pensare che qualcuno possa rinunciare a ricevere, gratis et amore dei, 2mila euro per tutta la vita? Chi butterebbe nel cestino una vincita alla lotteria istantanea “Turista per sempre”, senza neanche aver speso i soldi del biglietto, ottenuto solo per essersi iscritti a una sorte di sito chiamato anagrafe? Solo gli svizzeri, probabilmente. Come infatti hanno fatto, con una valanga di “no”, alla proposta di introdurre un reddito di base incondizionato per ogni cittadino, dalla nascita alla morte. Sarebbe quel reddito di cittadinanza che qualcuno vorrebbe introdurre anche in Italia. Bellissima come idea, quella di fare in modo che tutta la popolazione possa condurre “un’esistenza dignitosa” e partecipare alla vita pubblica. Il referendum per i promotori aveva anche una base “filosofica”: era una provocazione per invitare a ragionare sul fatto che in Svizzera, come del resto in tutto il Mondo occidentale, si perdono sempre più posti di lavoro a causa dell’automazione della produzione, mentre una percentuale significativa e crescente di persone svolge un lavoro non riconosciuto e non pagato, come la cura dei bambini e soprattutto di parenti malati o anziani.

La riflessione è giusta, ma per pagare tutti, i soldi si devono comunque recuperare da qualche parte e stamparli tipo Monopoli non è una soluzione accettabile. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha detto chiaramente che il reddito minimo “o lo porta l’arcangelo Gabriele o deve essere prodotto da quelli che lavorano”. I quali, in Italia, già mantengono in media con quasi il 40% del loro reddito lo Stato. Che attraverso le varie sovvenzioni già adesso fa vivere una parte non insignificante degli italiani alle spalle degli altri. A volte legalmente, secondo una civile forma di convivenza che riconosce la solidarietà, anche se questa a volte sconfina nella presa in giro. A volte illegalmente, in un Paese che si divide in fessi e furbi, e non solo in uomini e caporali, e dove l’indebito finisce per essere considerato un atto dovuto o un diritto acquisito. Si può immaginare quindi che l’occasione di avere un reddito per non fare niente in Italia possa essere considerata ghiotta da chi ritiene che a pagare ci sia sempre alla fine un Pantalone. In Svizzera invece no. Nel referendum non veniva specificato quanto sarebbe stato regalato ogni mese, perché la questione sarebbe stata delegata al legislatore. In ogni caso sono cifre al cui confronto gli 80 euro che Renzi fa uscire in tutte le salse sono acqua fresca. I promotori dell’iniziativa ipotizzavano infatti 2.500 franchi al mese (circa 2.250 euro) per gli adulti e 625 franchi (circa 560 euro) per i minorenni, da versare, secondo le versioni più estreme, indipendentemente dal reddito e dalla situazione patrimoniale dei beneficiari, a ogni cittadino e perfino ai residenti regolari da oltre cinque anni. Il pagamento indistinto, visto dall’Italia, servirebbe anche per tagliare la testa al toro di tutte le autodichiarazioni e degli Isee “taroccati”. Va precisato che 2.250 euro sono una bella cifra, peraltro esentasse, superiore a molti stipendi italiani, ma corrisponde a un terzo del reddito medio svizzero, che è di circa 6.700 franchi (5.900 euro), a fronte di un costo della vita superiore al nostro. In Italia, dove il reddito medio è circa la metà di quello svizzero, si può dire che la proposta al referendum avrebbe potuto riguardare circa 1.100 euro al mese, più o meno il livello massimo della cassa integrazione. Eppure nessuno dei 26 Cantoni del Paese e il 76,9% dei votanti  – era necessaria la doppia maggioranza – ha approvato la proposta. Perché il “contratto sociale” è pericoloso ed utopistico. E caso mai preoccupa il fatto che uno svizzero su cinque abbia votato a favore pensando che possa essere sostenibile.

Stando ai sondaggi condotti prima del voto la diffidenza contro il reddito di base incondizionato è legata a due motivi: il timore che un reddito mensile garantito agisse da disincentivo al lavoro – e c’è chi farebbe la firma per una vita da cassintegrato, magari con qualche integrazione in nero – e la convinzione che la proposta, il cui costo era stato stimato dagli oppositori in circa 209 miliardi di franchi all’anno (quasi 190 miliardi di euro), non fosse assolutamente finanziabile. Questo in un Paese di 8 milioni di abitanti come la Svizzera, figuriamoci in Italia che ha una popolazione di 60 milioni. Eppure paradossalmente nel nostro Paese, dove una proposta del genere sarebbe in ogni caso insostenibile e non solo per via del debito pubblico, ci sarebbero alcuni vantaggi. Va detto che il reddito di cittadinanza proposto in Svizzera avrebbe riassorbito tutti gli altri strumenti di welfare. Quindi niente più assegni di disoccupazione e ammortizzatori sociali, pensioni minime, assegni familiari e così via. E presumibilmente anche via a buona parte delle detrazioni fiscali, in un disboscamento della burocrazia e una semplificazione senza precedenti, con l’eliminazione di tutte le eccezioni e di tutti i privilegi veri e presunti. Se si pensa che in Italia la percentuale di Prodotto interno lordo per prestazioni sociali è vicina al 29% forse qualche professionista della vita di espedienti con un reddito di cittadinanza andrebbe finito addirittura per perderci. Molti osservatori svizzeri avevano fatto notare che un reddito di cittadinanza così alto avrebbe messo in pericolo la meritocrazia. In Italia questa è così rara che non ci sarebbero rischi su questo fronte, ma probabilmente ci sarebbero troppi italiani che, fatti due calcoli, tra guadagnare mille euro tutta la vita senza lavorare e guadagnare poco di più lavorando fino a un’età della pensione che continua a spostarsi non avrebbero dubbi sulla scelta. Del resto, se il sistema fosse sostenibile, diventa difficile dare loro torto.


La morte di Buonanno e l’umana pietà ormai perduta

Parce sepulto, scrivevano i nostri antenati, tanto più saggi, tanto meno incarogniti dalla miseria in cui ci tocca di rivoltarci, come porci in brago. E chiosava lo zacinzio, alla maniera sua, che era un po’ pallosetta, ma, alla fine, rimaneva impressa: dal dí che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose…E tutto questo voleva dire che, se è ben lecito dare addosso al nemico, con la spada o, se di necessità, con il coltello, una volta morto se ne deve avere pietà. Umana pietà, intendo. Perché un vivo è un vivo: può nuocere, ribellarsi, difendersi. Ma un morto non può far più nulla, se non suscitare nei propri cari strazio e nostalgia ed infinito rimpianto. Chiunque sia il morto, fosse pure stato, da vivo, l’uomo peggiore che abbia calpestato la terra, il senso dell’onore ed il rispetto per i suoi familiari – che anche i demòni hanno mamme, e spose e bambini dagli occhi stellanti – impongono di astenersi dall’insulto e dallo scempio. Va da sé che queste leggi bimillenarie, per avere efficacia, devono rivolgersi a chi abbia, se non il sentimento, perlomeno una vaga percezione di cosa siano l’onore e il rispetto: tutti coloro per i quali queste due parole sono soltanto il titolo di una ributtante serie televisiva non vengono considerati nel novero.

Scrivo queste cose sull’onda dello sdegno che mi ha preso, di fronte allo spettacolo immondo offerto dalla canea in occasione della tragica morte del politico leghista Gianluca Buonanno: un branco di sicofanti da tastiera, in nome di una democrazia e di un pacifismo evidentemente strabico fino alla smorfia, si è scagliato contro il defunto, coprendolo di contumelie ed inneggiando sconciamente alla sua scomparsa. Buonanno, va detto per onestà di cronaca, è stato spesso autore, da vivo, di dichiarazioni imbarazzanti, in tema di immigrazione, difesa personale e di altre questioni piuttosto sensibili. Anzi, per la verità, si è reso protagonista di uscite piuttosto riprovevoli e di sceneggiate davvero prive di eleganza. Ora, però, che è morto, umanità ed educazione impongono che subentri il cordoglio o, se proprio non si può fare di meglio, perlomeno il silenzio. Gioire o scrivere battute esecrabili su internet qualifica gli autori come una subumanità, ferma a principi civili trogloditici. E questo è apparso ai miei occhi: lo sfacelo di un sistema civile, a tutto vantaggio di una brutalità di sentimenti e di concetti che fa vergogna alla nostra gente e al nostro Paese. Perché anche la più meschina e barbara delle giustificazioni, ossia quella dell’occhio per occhio, cade di fronte alla superiore necessità di non infierire su di un caduto: di fermarsi ad un passo dalla camera ardente, dove è spazio solo per la morte e non per le miserie umane. Invece, perfino persone che dovrebbero avere la capacità di discernere tra ciò che è moralmente lecito e ciò che, invece, sconfina nella bestialità, hanno ballato sulle ceneri di questo poveretto: hanno riso e scherzato con ghigni di jena. Ed erano gli stessi che accendevano lumini, che disegnavano coi gessetti, che piangevano per la Francia e per il Belgio: come se ci fossero morti diverse e morti diversi, una volta superata l’orrenda soglia.

Bestie sono, non uomini: questo voglio dire, stanco di distinzioni, di discussioni, di inascoltabili motivazioni atte a giustificare atteggiamenti tanto dissimili in circostanze tanto definitivamente assimilanti. Bestie ben vestite, istruite, pettinate: bestie che distinguono sapientemente tra un romanzo di Canetti ed uno di Musil, come distinguono animalescamente tra un morto siriano ed uno palestinese, tra un annegato nel canale di Sicilia e Buonanno, schiantatosi in macchina vicino a Varese. Tutto questo è contrario ai principi che informarono la nostra civiltà fino dall’alba dei tempi: è un regresso che suona come la condanna della nostra epoca all’oblio che meritano tutti i periodi di barbarie. E ridere come pagliacci per la morte di un uomo deprecabile, se pure questo Buonanno lo sia stato, vuol dire diventare come lui, peggio di lui: vuol dire abdicare dalla propria umanità per farsi bestia. Bestia che cerca di ragionare e di spiegare la propria bestialità con le parole ed i concetti degli esseri umani, ma senza possederne il senso: proprio come la scimmia o il pappagallo, quando imitano gesti e parole dell’uomo, per pura mimesi. Ma che, dentro, rimangono scimmia e pappagallo. Insensibili perfino di fronte all’ultimo dei misteri.

 

 


Treviglio rilancia Pezzoni. E l’etica va a farsi benedire

Se volete capire com’è ridotto questo Paese non state ad ascoltare chi vi racconta i risultati delle ultime elezioni con il bilancino del farmacista in mano, barcamenandosi tra la non vittoria di Renzi (variante della non sconfitta di Bersani), il supposto trionfo del Movimento 5 Stelle (che va bene solo a Roma e Torino e per il resto o non c’è o fa la comparsa) e le beghe dell’improbabile coppia Salvini-Meloni contro Berlusconi sulle macerie del centrodestra che fu (ad eccezione di Milano). No, spingetevi fino a Treviglio, perché qui più che altrove è possibile misurare qualcosa che va al di là della ragionieristica conta dei voti, qualcosa che dovrebbe stare alla base della convivenza civile prima ancora che della contesa politica. Ed è quella parola fastidiosa, ma tanto carica di significato, che si chiama etica (od onestà se preferite metterla giù più piatta).
Un valore che stride fortemente con l’elezione a consigliere comunale di Giuseppe Pezzoni. Sì, proprio lui, l’ex sindaco che non più tardi di qualche mese fa è stato costretto a lasciare il palazzo di piazza Manara tra i fischi e le contestazioni dopo aver ammesso di aver dichiarato il falso vantandosi di una laurea mai conseguita. Provate a pensarci, siamo al cortocircuito totale. Una persona ritenuta (da sè e dai suoi stessi compagni di viaggio politici) non più degna di ricoprire l’incarico di sindaco nel volgere di un semestre viene riportata in municipio sull’onda delle preferenze (quasi 400, il secondo più votato).

La prima considerazione che viene in mente è che è stato tutto uno scherzo e tanto valeva rimanere in sella. Ma qui c’è poco da ridere. C’è un salto (nel vuoto) di qualità che non può non essere sottolineato. Perché passi che Pezzoni non abbia consapevolezza che il tradimento del patto di onestà che si contrae con i cittadini al momento della candidatura sia inescusabile. E passi pure (ma siamo nel campo delle estremizzazioni retoriche) che partiti pronti a tutto pur di non abbandonare la stanza dei bottoni decidano di affidarsi ad un ronzino vincente. Non può passare, invece, che ci siano centinaia di elettori che considerino un falso (che è valso, tra le altre cose, l’incarico di dirigente dell’Istituto dei Salesiani che, forse non ancora del tutto secolarizzati, si sono precipitati a denunciare la malefatta) come un orpello del tutto irrilevante. Una crosticina su un corpo levigato e splendente.
Come se per Pezzoni valesse quel che si diceva ai tempi di Tangentopoli di un intraprendente ministro bresciano. “Non sarà pulito, però lui le strade le costruisce…”. E infatti a Treviglio non son pochi quelli che dicono “avrà detto il falso, ma come sindaco non c’è nessuno meglio di lui”. E così, all’insegna di un poco orobico scurdammoce ‘o passato, tutto si azzera e si ricomincia. Poco poco, vista la mole di preferenze, a Pezzoni sarà affidato un assessorato e la falsa laurea finirà nel cassetto del folklore.
Treviglio, Italia.

Questo è il Paese. Quello dove un leader pieno di conflitti d’ interesse e subissato di inchieste (con annessa condanna per evasione fiscale) viene più e più volte sommerso di voti. Dove un candidato alla Regione Campania alle prese con una condanna per abuso d’ufficio viene portato in trionfo. Dove il fondatore di un movimento e la sua intera e allargata famiglia vivono alle spalle dello stesso movimento per anni (e tutti lo sanno, ma fanno le vergini solo di fronte allo scoppio della tradizionale inchiesta che solleva il coperchio) tra idolatrie e osanna. Dove, inutile che ce la raccontiamo, ciascuno di noi invoca per gli altri il rigoroso pagamento di tasse, imposte e balzelli varia, salvo cercare in ogni modo di schivarle per sé.
E allora, forse, il problema non è Pezzoni, non sono i trevigliesi che l’hanno votato. Quella è solo la febbre. Il dramma è che non abbiamo più nemmeno la capacità di guardare il termometro.