La dinamica degli stipendi tra deflazione e potere d’acquisto

eurosito.jpgSi potrebbe parlare di magico mondo dell’economia, perché nonostante i cultori di questa scienza si affannino con numeri e diagrammi per dimostrarne la razionalità, alla fine sono più determinanti l’impressione e l’illusione. Così è con l’inflazione. A Bergamo, come nella media italiana, a ottobre l’indice dei prezzi al consumo è sceso dello 0,1% rispetto a settembre. E il tasso tendenziale rispetto allo stesso mese dell’anno precedente è calato dello 0,2%. Nonostante i dati ufficiali, che non si possono confutare, affermino tendenze deflazionistiche, l’opinione dei consumatori è che i prezzi continuino a salire. Questo perché le valutazioni “nasometriche” enfatizzano alcune componenti a discapito di altre. Si avverte di più, per esempio, un aumento della benzina di un suo successivo calo. O, ancora, si concentra l’attenzione sulla decisione del Comune, discutibile semmai per altri effetti non economici, di aumentare di venti centesimi all’ora il parcheggio, o sulle tariffe idriche, trascurando variazioni in alto e in basso ben più sostanziose. Le percentuali non aiutano. Il rincaro dei parchimetri bergamaschi è stato di venti centesimi all’ora: si va da un aumento dell’11% (da 1,8 a 2 euro), nella zona rossa, quella più centrale ad uno del 25% (da 80 centesimi a un euro) nella zona gialla. Di fronte ad aumenti del 25% sembra incredibile che complessivamente i prezzi possano calare, ma così è, perché i parcheggi sono solo una componente marginale (se non nulla, per chi non ha un’automobile) della spesa.

Quindi, anche se non sembra, siamo in deflazione, una fase di flessione tendenziale dei prezzi che dipende ancora in buona parte dal calo dei beni energetici, ma anche da una contrazione della ricchezza e dei consumi. Se la crescita dell’inflazione spaventa perché porta a una riduzione del potere d’acquisto, la deflazione, che pure permette di comprare più beni con lo stesso importo, è pericolosa perché è espressione di una caduta dell’attività economica. Gli acquisti, in particolare quelli importanti, investimenti compresi, vengono rinviati nella convinzione che in futuro il prezzo si abbasserà. Di rimando i venditori cercheranno di collocare i loro prodotti a prezzi inferiori, innescando una spirale negativa per la quale le stesse imprese, vedendo diminuire gli acquisti da altre imprese, cercano di ridurre i costi con conseguenze sull’occupazione e quindi sui redditi. In questa trappola sono caduti paesi come la Grecia e, in passato, il Giappone, negli anni 2000-2006 (inducendo poi la Banca centrale a lasciare i tassi allo zero per cento per favorire la liquidità circolante). Dagli anni Ottanta in poi non si sono verificati casi eclatanti di deflazione in Occidente, anche se la Germania ha registrato una contrazione dei prezzi al consumo per un breve periodo nel 2009, così come gli Usa tra il 2008 e il 2009. Ad agosto 2014, l’Italia è entrata in deflazione: non succedeva da quasi sessant’anni, e cioè dal settembre 1959. Ma non è una situazione da rimpiangere: non è una premessa né di dolce vita, né di boom.

Con la deflazione, o comunque con l’inflazione zero, il denaro, anche restando fermo, si “rivaluta” in termini di crescita di potere d’acquisto. Questo però solo all’inizio. Alla fine anche questa rischia solo di essere apparenza, seppure più difficile da cogliere. I recenti dati Inps hanno infatti mostrato che anche se i prezzi sono rimasti invariati gli stipendi sono, per quanto possibile, ancora più “fermi”. Il monte salari che risulta all’istituto, per effetto evidentemente di uscite di lavoratori con paghe più alte sostituiti da altri con stipendi più bassi, determina un calo del salario medio lordo 2015 degli italiani di quattro euro, a quota 21.341 euro, rispetto all’anno precedente. Negli ultimi cinque anni, inoltre, l’inflazione è salita del 7% a fronte di retribuzioni cresciute di meno della metà, intorno al 3%. Se la deflazione ha “salvato” il potere d’acquisto l’anno scorso, non lo ha fatto però in quelli precedenti, caratterizzati non a caso da consumi cedenti. E difficilmente lo tutelerà in futuro. L’inflazione zero al momento è infatti legata ancora all’onda lunga del ribasso del prezzo del petrolio. Adesso però le quotazioni sono in ripresa, tanto che diversi esponenti della Bce si aspettano in primavera un’inflazione all’1,5%. E’ da escludere però che gli stipendi si adegueranno a questo ritmo e allora anche chi contesta il presunto partito dell’austerità dovrà prendere atto che il rigore se non ce lo si dà da soli prima o poi diventa un obbligo.

 

 


I tifosi, gli immigrati e l’assurda logica dello Stato

polizia stadiQuesto Paese, ormai, non ha più il problema del malgoverno o, come spesso ci sembra di percepire, del nongoverno: ormai siamo alla distopia, al Paese immaginario, uscito dalla fantasia di un narratore specializzato nella confezione di incubi sociali. Soltanto un Aldous Huxley votato al più fosco pessimismo, infatti, avrebbe potuto descrivere uno Stato in cui tutto procedesse al contrario, rispetto al semplice buon senso, e in cui le istituzioni, nate come manifestazione tangibile della volontà dei cittadini, si frapponessero ideologicamente tra gli stessi cittadini ed il loro quieto vivere. Ormai, la frattura tra la vita vera delle persone comuni e le scelte dell’establishment politico ed amministrativo è talmente profonda da poter realmente parlare di Stato reale, ossia l’insieme nazionale degli italiani dotati di facoltà civili e giuridiche, e Stato virtuale, vale a dire l’idea di Stato che sovrintende alle sconcertanti decisioni di chi ci governa. Eppure, tanto appare palese il malessere della gente comune, quanto le istituzioni sembrano non accorgersene e, anzi, procedere sempre più speditamente nella direzione opposta a quella invocata, in nome di non si capisce bene quale superiore fine. E queste istituzioni, occhiute, sparagnine, vessatorie, quasi che gli Italiani fossero un popolo nemico, invaso e colonizzato, di cui temere la subdola doppiezza e la genetica tendenza all’imbroglio, e non lo stesso popolo di chi li governa ed amministra, decidono sempre per il peggio, sempre per la cosa più stupida, più pasticciata, meno sensata.

Che pensare, ad esempio, di certe decisioni riguardanti la sicurezza pubblica, che dimostrano, al contempo, sovrano disprezzo per le istanze, talvolta disperate, dei cittadini, e un’incapacità razionale e progettuale che rasenta, appunto, la letteratura di genere? Prendiamo un caso recentissimo, fresco di cronaca: la partita giocata tra Atalanta e Roma domenica scorsa. Ogni volta che qualcuno lamenta il degrado e la scarsa sicurezza delle nostre città, la risposta dei politici è sempre uguale: le forze dell’ordine sono sotto organico, non hanno mezzi, non hanno neppure la benzina per pattugliare le strade, insomma, hanno le pezze sul sedere e fanno quello che possono. Poi, per scortare all’aeroporto un autobus – dicasi uno – di tifosi romanisti, vedo sfrecciare in via autostrada quattro motociclisti della polizia locale, due automobili e un furgone blindato. Il tutto, mentre il traffico viene bloccato da altri due agenti piantati ai semafori. Insomma, per capirci, coi soldi che io verso di tasse, che sono una montagna e che rappresentano un unicum europeo, anziché pagare le ronde, i controlli, i presidi, che servirebbero a restituire ai cittadini intere zone della città, si preferisce assecondare l’uzzolo di qualche scalmanato che sbava per dei mutandoni che corrono dietro ad una palla, schierando un esercito a tutela di una partita di football. E questo sarebbe un Paese civile? Al confronto, il Burkina-Faso è Basilea!

Ma lasciamo pure perdere la civiltà, tema su cui, in Italia, si rasenta il suicidio sociale: parliamo di pura e semplice logica. Vediamo nel dettaglio come funziona questa mirabolante logica, tanto per chiarire con che gente abbiamo a che fare. Fase uno: si fa entrare in Italia un numero sconsiderato di immigrati, spacciandoli per profughi, quando quasi tutti sono semplici immigrati economici, che non si vuole o non si è in grado di controllare, rimandando a casa chi non ha il diritto di stare qui. Fase due: non si pongono limiti né di tempo né di quantità a questi ingressi, perché ci mangia sopra troppa gente legata a doppio filo coi politici e, finchè la dura, tutti ci guadagnano. Fase tre: si destina all’alloggio di questi poveracci tutto quel che si trova, dalle tende agli alberghi requisiti, fino a quando a qualcuno non viene la brillante idea di coniugare due temi cari all’intelligentsija come accoglienza e pacifismo, ospitandoli in qualche caserma, ormai inutile reperto di un’era di barbarie e di violenza militarista. Per meglio far capire il messaggio, si devolve al nobile scopo un complesso che avrebbe dovuto ospitare un reparto di Polizia, e che viene riconvertito all’alloggio degli immigrati, nonostante le reiterate proteste degli abitanti della zona: dura legge, ma in nome della giustizia, questo e altro.

Fase quattro: però, si scopre che la situazione è ingestibile, che si rischia l’insurrezione, che le strade sono sempre più insicure e che, soprattutto, la cadrega comincia a vacillare. E, allora, cosa si fa? Fase cinque: si torna al punto di partenza, come in un gioco dell’oca, dove vince il più demente: si invoca l’esercito nelle strade. Quello stesso esercito scacciato dalle caserme, viene richiamato in città (alloggiandolo non si capisce dove), per proteggere i cittadini da quegli immigrati che la Marina Militare è andata a prelevare fin sulle spiagge della Sirtica: ciò che si dice un’operazione interforze, insomma. E soltanto in un Paese ormai schienato dall’abitudine all’idiozia, solo al cospetto di un popolo bue che pretende le partite di football più che la sicurezza delle strade, solo in un mondo appeccorato come l’Italia cose del genere possono passare senza che scoppi una rivoluzione civile. In nome della più elementare giustizia.

 


Altro che referendum, ci può salvare solo un nuovo Umanesimo

referendum-2Voteremo, il 4 dicembre: dopo una campagna referendaria pletorica, infarcita di stupidaggini reciproche, di sgambetti e di una noia popolare che ha raggiunto livelli sbadigliometrici mai toccati: voteremo, ma servirà a poco o niente. Non perché una Costituzione, sia pure compromissoria e sbilanciata come la nostra, non sia una cosa importante, ma per un equivoco di fondo, che rende questo voto una desolante prova di forza e non una consultazione dei cittadini. E’ inutile ripetere da tutte le parti che non si tratti di un referendum su Renzi e la sua ghega: è nato perché Renzi voleva dimostrare di essere forte e finisce con Renzi che non vuole dimostrare di essere debole, ma la sostanza è quella. Il punto, però, se permettete, è un altro, e riguarda le ragioni per cui si vota, piuttosto che gli obiettivi per cui si va alle urne. Prendiamo l’elezione del presidente degli Stati Uniti: una cerimonia farsesca, con due candidati ugualmente impresentabili e con un elettorato da elettroshock. E stiamo parlando del Paese di cui siamo i lacchè da settant’anni: che ha in casa nostra le sue testate nucleari e che ci detta la politica, tanto estera quanto interna. Eppure, questo mastodonte della democrazia puritan-bottegaia, è riuscito ad esprimere, con il suo sistema elettorale, tanto invidiato ed ammirato dai soloni di casa nostra fino a pochi giorni fa, due personaggi che sarebbero imbarazzanti anche alla festa di compleanno di Gianni & Pinotto. E noi non siamo da meno.

Non si salva nessuno: chi proclama serenamente idiozie da ricovero coatto al Cottolengo, chi si fa beccare con le zampe nella marmellata, chi strilla come la Sora Rosa quando chiama a tavola ‘li regazzini’, chi strempia, chi si azzuffa, chi smentisce a ripetizione tutto ciò che aveva detto il giorno prima. E, quando avremo, finalmente, deciso se la Costituzione ci sta bene com’è oppure no, noi ci troveremo daccapo a dover sperare in un intervento divino, che ci liberi da questa classe politica, con qualche diluvio aliter pioggia di fuoco. E nessuno, dico nessuno, che si accorga che il problema non sono i mercati, le alchimie regolamentari, le leggi elettorali: il problema sono gli esseri umani.

Noi viviamo un terrificante deficit di umanità, indipendente dalle valutazioni di Moody’s o dalle fanfaluche da dopo sbornia di qualche tecnocrate di Bruxelles: noi non abbiamo esseri umani di accettabile livello da mettere alla guida di questo Paese. E il nostro grande modello americano mi pare lo stia dimostrando ad abundantiam: siamo senza una classe dirigente degna di questo nome, perché gli uomini, gli uomini veri intendo, quelli dotati di cuore, cervello, senso dell’onore, dignità, non li fabbrica la Bocconi con lo stampino. Sono l’élite umana che esce da famiglie solide, da scuole formative, da una società dotata di senso civico e di rispetto delle regole. E noi, mi spiace dirlo, non abbiamo più nulla di tutto questo, sotto al bel cielo d’Italia, che, un tempo faceva fiorire i limoni: abbiamo anziani abbandonati come roba vecchia e ritenuti incapaci di trasmettere valori, il che dicesi tradizione.

Abbiamo giovani privi di sentimento, di orgoglio, di Patria: apolidi deculturati che si aggirano tra le meraviglie e le schifezze del mondo, senza distinguerle, senza giudicarle, in un’atarassia inconsapevole e bovina. Abbiamo quarantenni abituati ad un successo senza regole: all’idea che, per vincere, si può pure comprare l’arbitro. E cosa volete che cambi se, in questa palude, si pesca alla mosca o col galleggiante? Cosa credete che cambi un’elezione, un referendum, perfino un colpo di Stato? Noi siamo senza uomini, perché all’uomo è stata tolta la centralità: le banche, le istituzioni, i partiti non sono gli uomini, sono i sistemi. Ma un sistema senza uomini di valore è soltanto fuffa: è come farsi governare da un flipper. Ci vorrebbe un nuovo Umanesimo: uno di quelli che, ciclicamente, ci salvano dalla barbarie e rimettono in linea le lancette della storia, facendole ricominciare ad avanzare. Ma ci vogliono decenni, a volte secoli, per ripartire. E noi, ora, siamo nel bel mezzo di un’età di ferro: siamo i naviganti sfortunati che sono incappati nella bonaccia, in un mare grigiastro e puzzolente, con i porti lontanissimi, remoti. E dobbiamo remare.

Perciò, votiamo, perché è nostro dovere, convintamente, per il sì o per il no: ma sappiamo anche che è ad altro che dovremmo dire sì oppure no. E’ ad una Weltanschauung, ad un modo di perdere la propria anima che ci dovremmo opporre. Perché è solo pensando al futuro dei nostri nipoti che possiamo mettere mano al nostro presente: per noi, ormai, i giochi sono fatti, siamo gente che sceglie tra Trump e Clinton, che ascolta le bubbole di giornalisti infami ed indegni del tesserino, di politici senza un briciolo di amore per la nostra gente. Ma per quelli che verranno c’è ancora speranza: è per loro che dobbiamo cominciare ad invertire la rotta e a riscoprire i valori veri. Quelli che fanno di una bestia un uomo.

 

 


Immigrazione, quel che il Canada ha capito ben prima di noi

migranti - CopiaDa inizio anno sono sbarcati in Italia 160 mila migranti, secondo i dati Unhcr, la Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. In tutta Europa, contando in particolare anche la Grecia, sono in tutto poco più di 330 mila. Come è noto, questa è considerata un’autentica emergenza, più nel Sud Europa che nel Nord Europa, a dire il vero, tanto da essere considerata dall’Italia un possibile grimaldello per riuscire ad ottenere maggiore flessibilità per il bilancio, alla pari di un disastro, questo sì riconosciuto da tutti, come i terremoti.
Intanto il ministro dell’Immigrazione del Canada, John McCallum, ha annunciato che l’anno prossimo il suo Paese accoglierà altri 300 mila immigrati (più di un terzo dei quali rifugiati), lo stesso numero di quest’anno.
Questa notizia, che il Canada annuncia con soddisfazione, appare in contrasto con la precedente, ma serve anche a rimettere in linea il fenomeno dell’immigrazione, che non è italiano o europeo, ma globale. Quello che appare un problema in Europa, in ogni caso non lo è dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Il Canada, con il quale è stato appena firmato dalla Ue un accordo di libero scambio commerciale, non ha, per motivi geografici, il problema dei barconi, ma ha anche un approccio di rigidità totale nella sua lunghissima frontiera con gli Stati Uniti per quanto riguarda i clandestini.
Questo fa già la differenza, ma c’è però soprattutto rispetto all’Italia, un diverso atteggiamento, legato anche ad una diversa modalità di gestione e impostazione sulla questione immigrazione (non solo clandestina), che fa vivere diversamente la questione da parte del Canada, Paese del G7, che pur avendo un numero di abitanti inferiore a quello dell’Italia, anche se una superficie ben più ampia, ha una percentuale maggiore di stranieri. Questo, innanzitutto, perché  il Canada ha un ministro dell’Immigrazione. E poi perché il ministro dichiara che “i livelli di immigrazione stabiliti nel 2017 favoriranno la crescita economica e l’innovazione in Canada permettendo di riunire un gran numero di famiglie”.
Secondo il governo canadese l’immigrazione ha un ruolo fondamentale nel mantenimento della competitività del Paese nell’economia mondiale, compensando l’invecchiamento della popolazione. Di fatto, secondo il governo “l’immigrazione rappresenterà presto la crescita netta della popolazione attiva”, perché le uscite in pensione sono superiori all’ingresso di giovani canadesi nel mercato del lavoro.
In Italia la questione è affrontata in maniera capovolta, guardando sempre alla questione del lavoro, ma rivolgendosi più all’emergenza del presente (pensioni)  che alle prospettive del futuro (lavoro per i giovani e quindi risorse per il Paese, pensioni incluse).
In Italia si è lanciato il Fertility day, del quale si ricordano più le polemiche della vigilia che l’evento in sé. L’iniziativa, visto che siamo in Italia, ricorda inevitabilmente l’invito mussoliniano alla procreazione perché il “numero è potenza”. Anche se adesso i figli non devono essere dati alla Patria, ma all’Inps.
Vero che le nascite sono al numero più basso dall’Unità d’Italia, ma il controllo demografico di Stato, in via diretta, non dà grandi risultati, come conferma la Cina che con la politica del figlio unico ha creato milioni di non registrati. Se avessimo veramente bisogno di più persone non dovremmo rifiutare gli immigrati, forza lavoro giù pronta, ma seguire l’esempio del Canada.
Se invece servono nuovi italiani per permettere il pagamento delle pensioni, almeno a chiusura della previdenza regolata con il retributivo, allora bisognerebbe ragionare in maniera differente. Se già i giovani che ci sono non trovano lavoro in Italia e sono costretti ad emigrare, aumentarne il numero vorrebbe dire crescere persone che andranno a produrre in un altro Paese. Canada compreso.
Ma ci sono altri elementi che preoccupano. Sta anche diminuendo la speranza di vita alla nascita (per gli uomini si è ridotta a 80,1 anni dagli 80,3 del 2014 e per le donne a 85, dagli 84,7 dell’anno precedente) e c’è stato un picco di mortalità, tanto che per la prima volta non è stato necessario adeguare l’età pensionabile alla maggiore aspettativa di vita. L’aumento della mortalità è legato anche al fatto che con l’aumento dell’invecchiamento della popolazione si allarga progressivamente il numero delle persone che per età sono statisticamente più a probabile rischio decesso. Abbiamo comunque meno giovani e più anziani. L’età media della popolazione è salita a 44,5 anni. Più anziani vuol dire più costi per la sanità e per la previdenza, meno giovani vuol dire meno produzione di ricchezza (anche per gli anziani). Il Canada sembra averlo capito, mentre noi continuiamo a preoccuparci dell’immigrazione, spaventandoci per numeri che andrebbero visti con altri occhi. Secondo i dati Istat nel 2015 in Italia sono stati concessi meno di 240 mila permessi di soggiorno (con riduzione del 4% rispetto all’anno prima), mentre il totale degli extracomunitari è inferiore a 4 milioni su un totale di oltre 60,5 milioni di residenti. La percentuale ufficiale è di 8,3% di stranieri (includendo un milione di non italiani comunitari): ampiamente sotto la media dei Paesi sviluppati.

 


Referendum, perché anche Gori rischia il contraccolpo

Non c’è solo Matteo Renzi a guardare con attesa e trepidazione il fatidico 4 dicembre, giorno scelto per consentire agli italiani di dire cosa pensano della riforma costituzionale. Quella è una data dirimente. Il verdetto che uscirà dalle urne è in grado di modificare (in diverse gradazioni: dallo stroncare al rallentare) una carriera politica. Improvvidamente il premier lo ha detto ad alta voce dall’esordio della campagna elettorale: se perdo me ne vado a casa. Poi ha cercato di correggere il tiro, ma hai voglia di dire che la personalizzazione è un errore se poi vai in Tv tre volte al giorno a impersonificare le ragioni del Sì. Ed è quindi evidente che il 4 dicembre la stragrande maggioranza di chi andrà a votare darà un giudizio sull’operato del presidente del Consiglio, altro che sul bicameralismo paritario o sulle modifiche del titolo V.

Ma quel giorno potrebbe subire uno scossone, positivo o negativo, anche la carriera del sindaco di Bergamo. E che c’azzecca direte voi? C’azzecca eccome, invece. Perché Giorgio Gori, al di là delle smentite ufficiali che come sempre sono utili ad incartare il pesce, ambisce a lasciare Palazzo Frizzoni per lanciare la sfida al presidente della Regione Roberto Maroni nelle elezioni che si terranno nel 2018. Basta osservare le sue mosse degli ultimi mesi per scacciare qualsiasi dubbio. Le comparsate televisive (le vecchie amicizie vengono utili), le esibizioni canore in piazza a Cremona con i collegi sindaci di Brescia e Cremona, la “finta” polemica con Renzi sulla mancanza di un Patto per la Lombardia. Indizi precisi e concordanti che, direbbe un avvocato, costituiscono più di una prova. E d’altra parte, ad adiuvandum, non è stato lo stesso Umberto Ambrosoli (già impalpabile sfidante di Maroni nel 2013) a dire che la prossima candidatura a Palazzo Lombardia se la giocano Giorgio Gori e Maurizio Martina?

La strada, insomma, è tracciata. Se non fosse che di mezzo c’è quel maledetto (o benedetto) 4 dicembre. Domanda: se al referendum vincesse il No, cioè se Renzi prendesse una bastonata in testa, che ne sarebbe delle ambizioni goriane? Sarà utile chiederselo perché, al di là delle iniziative personali e della considerazione di cui gode per il suo lavoro a Bergamo, per arrivare ad ottenere la candidatura Gori può far leva solo sul sostegno di Renzi e dei suoi seguaci. È la classica situazione in cui i latini ricorrevano all’icastico “simul stabunt, simul cadent”. Se cade il primo, crolla anche il secondo. Non ci vuole una grande immaginazione a prevedere che se dovesse prevalere il No (ad oggi più probabile che possibile) nel Pd si scatenerà una faida con morti e feriti. Primo fra tutti il premier. E con lui collaboratori, amici, cortigiani e cortigiane di infimo livello di cui, alla faccia della rottamazione innovativa, in soli due anni ha riempito luoghi di governo e sottogoverno.

Le ricadute sarebbero immediate sia in Lombardia che a Bergamo. Dove, al netto di un consenso di facciata che gli tributano nelle sedi ufficiali, molti esponenti di punta del Pd non nutrono nei confronti di Gori una soverchia simpatia. L’uomo è intelligente, scaltro, abile nel tessere relazioni e strategie. E indubitabilmente sta facendo un discreto lavoro a Palazzo Frizzoni, pur se sbilanciato sui grandi progetti (in larga misura privati) più che sulla quotidianità e con l’altrettanto innegabile aiuto della buona sorte che fa venire a maturazione proprio in questi mesi interventi lungamente attesi. Ma la sua tendenza ad accentrare tutto su di sé, in questo molto renzianamente, è motivo di insofferenza trattenuta a fatica. Senza trascurare qualche uscita a vuoto, come quella della democrazia ad uso solo dei colti post Brexit, che ha fatto venire qualche dubbio sulle sue capacità politiche. Ciò detto, in politica pregi e difetti contano relativamente. Rilevano i rapporti di forza, piuttosto. E allora un Renzi azzoppato (no, non uscirà di scena nemmeno in caso di sconfitta, l’uomo è troppo ambizioso per rassegnarsi a tornare a Rignano sull’Arno) determinerà un bel caos dentro il Pd con l’altrettanto facilmente prevedibile riposizionamento di correnti e correntine. Che ne sarà di Gori a quel punto? La risposta è vicina. Basta solo aspettare un mese.

 

 


Obbligazioni a lunga scadenza? Meglio dare un occhio al passato

euro - europaSi dice che quando il padre risparmia, i figli ringraziano, ma con certi Titoli di Stato lo faranno (forse) i nipoti. Tra le conseguenze della politica ultraespansiva della Banca Centrale europea, con tassi che oscillano intorno allo zero, quando non sono negativi, è che veramente il denaro non vale più nulla, almeno quando si cerca di investirlo. Comprare Bot a scadenze brevi ormai è un costo più che un guadagno. Così per riuscire ad avere un rendimento anche non eccezionale bisogna andare su obbligazioni dalla scadenza sempre più lunga. Da poche settimane, come già hanno fatto Spagna, Belgio e Francia, proprio per rispondere alla domanda del mercato e allo stesso tempo allungare la durata del proprio debito, anche l’Italia ha lanciato un bond a 50 anni, seppure collocato solo tra investitori istituzionali, come fondi pensione e compagnie di assicurazione: assicura un rendimento del 2,85%, mezzo punto più del titolo trentennale, Ma per ottenere questa cedola, appunto, ci si vincola per mezzo secolo. Se si porta a termine il prestito, si riavrà il capitale soltanto nel 2066. E se questo sembra un tempo assurdamente lungo, l’Austria ha appena emesso un titolo a settant’anni, che rende peraltro “solo” l’1,5%. Scadrà nel 2086, con la possibilità quindi, se lo si è comprato in età avanzata, che verrà incassato non tanto dai figli, quanto da nipoti che magari adesso non sono ancora nati.

Quale piccolo risparmiatore può essere interessato a un titolo del genere, a parte chi vuole lasciare un buon ricordo di sé alle future generazioni? Probabilmente chi vuole farsi un piccolo vitalizio. Ma sotto questo punto di vista c’è il problema dell’inflazione. L’1,5% austriaco, quando c’è l’inflazione zero, è una rendita reale ormai non disprezzabile. Soprattutto se si considera che in Italia, trent’anni fa, c’era chi correva a comprare Bot con rendimenti a due cifre ed era felice, nella sua beata ignoranza, anche se l’inflazione che cresceva a tassi superiori erodeva progressivamente il potere d’acquisto. Ma le banche centrali, compresa quella europea, dicono apertamente e chiaramente che il loro obiettivo è un’inflazione intorno al 2%. Se anche solo riuscissero a centrare il numero – spesso capita che la mano scappi e in un attimo si superi il livello – il possessore del bond austriaco a 70 anni è destinato ad avere rendimenti insufficienti a coprire la perdita legata al rincaro della vita.

Di cosa accadrà nel futuro ovviamente non si ha certezza – non si può escludere nemmeno una perenne inflazione zero – ma guardando al passato, anche se come dicono i promotori non si assicura che le performance si ripetano, si ha un’indicazione interessante di cosa avrebbe dovuto attraversare un’obbligazione austriaca a settant’anni che venisse a scadenza oggi. Innanzitutto sarebbe stata emessa nel 1946, in una Vienna ancora occupata dagli alleati e uscita sconfitta da una guerra vissuta da regione della Germania nazista. Il fiducioso obbligazionista avrebbe dovuto affrontare l’uscita da una situazione di fame diffusa, la ricostruzione, la definizione di un’organizzazione democratica, la fine dell’occupazione alleata nel 1955, la guerra fredda, il rilancio industriale e l’adesione all’Unione europea.

In Italia quello che valeva l’equivalente di 1000 euro nel 1946 adesso, per effetto dell’inflazione, di euro ne varrebbe solo una ventina in termini reali. E in settant’anni l’interesse dell’1,5% annuo (senza contare gli eventuali reinvestimenti) permette di fatto solo di poco più che raddoppiare il valore nominale. Mille euro del 1946 diventano quindi, tra rimborso del capitale e interessi accumulati negli anni, poco più di duemila euro nominali del 2016, che però equivalgono a solo una cinquantina di euro del 1946 in termini reali, come potere d’acquisto al netto dell’inflazione. Insomma, se qualcuno avesse pensato nel 1946 di costruirsi in questo modo una rendita finanziaria non avrebbe grandi risultati. Forse i prossimi settant’anni saranno migliori da questo punto di vista, ma avere dubbi è lecito.


L’Italia vuole dare lezioni a Bruxelles, ma senza avere fatto i compiti a casa

bruxelles-unione-europeaSiamo in tempi di manovra. L’Italia sta litigando con l’Europa per qualche decimale di Pil (Prodotto interno lordo) in più di flessibilità, che poi vorrebbe dire avere la possibilità di fare più debiti. Formalmente questo viene richiesto per buoni motivi, come il riconoscimento delle clausole eccezionali per spese legate ad eventi (ci si augura) straordinari, come il terremoto e i migranti. Però si può pensare che per una ragione o per l’altra tutti i Paesi possono trovare eccezionali buoni motivi per spendere più del consentito e sforare dal piano di rientro. Niente di male, in questo, se però un piano di rientro lo si ha. Se dalle percentuali si passa ai numeri assoluti – e sarebbe bene che i valori andassero sempre di pari passo – sembra di capire che l’Italia non ce l’abbia e la spending review sia un bell’esercizio di stile, passato ormai nel dimenticatoio. E va precisato che non si sta ancora chiedendo un rientro dal debito pubblico, cioè del cumulo dei deficit, ma “solo” della tendenza alla riduzione del disavanzo annuale, in modo che il debito pubblico, che ormai sfiora i 2.250 miliardi di euro, cresca almeno un po’ meno.

Gli unici dati attualmente completi sono quelli del 2015. E mostrano, secondo quanto comunicato dall’Istat, che la spesa per interessi passivi (ovvero l’onere al servizio del debito pubblico), è scesa l’anno scorso di 6,12 miliardi, passando da 74,33 miliardi a 68,21 miliardi, che rappresentano il 4,2% del Pil, la zavorra che altri Stati con minor debito del nostro non hanno. Sessantotto miliardi, per dare l’idea, sono quasi due volte e mezza la manovra appena varata. Il “risparmio” per minori interessi realizzato nel 2015 non è insignificante: vale lo 0,4% del Pil ed è stato “regalato” dall’appartenenza all’euro che ci consente di godere di tassi ben più bassi di quelli che avrebbe l’Italia da sola, con la vecchia lira. Il governo può metterci del suo, normalmente in peggio – come ci si ricorda per i problemi legati allo spread, che essenzialmente è il supplemento che si paga negli interessi per il rischio Paese – ma se non ci fosse l’Europa con le sue regole, la manovra avrebbe dovuto essere più alta  almeno di 6 miliardi, da recupere in qualche modo, probabilmente maggiori imposte. Negli anni, l’appartenenza all’euro si può ritenere ripagata solo con i minori interessi sul debito pubblico, anche se quello dei tassi bassi è un beneficio che probabilmente non è per sempre: verrà almeno parzialmente ridotto quando il costo del denaro si rialzerà, ma al momento è quello che permette all’Italia di presentarsi, seppure con un po’ di faccia tosta, a chiedere una deroga sulla rigidità dei conti.

Il deficit netto del 2015 dell’Italia, infatti, è stato pari al 2,6% del Pil: in valore assoluto si tratta di 42,93 miliardi, una cifra che è ben più bassa di quanto si paga in interessi sul debito pubblico. Se ipoteticamente non ci fossero il debito e i relativi interessi, l’anno scorso l’Italia si sarebbe trovata con 25 miliardi da spendere (praticamente l’importo della manovra) in investimenti o in quello che gli pare. Eppure nel 2015, rispetto all’anno precedente il deficit è calato di circa 5,5 miliardi. Questo è l’elemento che permette di dire che qualcosa è stato fatto per la riduzione, ma in realtà se non ci fosse stato il calo degli interessi sul debito per 6 miliardi, dovuto all’Europa più che all’Italia, il deficit non sarebbe sceso. E in ogni caso il saldo primario (ovvero il deficit al netto della spesa per interessi), che pure è rimasto positivo, si è ridimensionato, confermando che l’Italia non ha contratto la spesa, ma l’ha allargata, anche quando non c’era di mezzo il terremoto.

L’Italia che vuole dare lezioni a Bruxelles, quindi, si presenta all’esame senza avere fatto i compiti a casa che le erano stati richiesti e per i quali si era impegnata, se si guardano i valori assoluti. Il quadro è un po’ migliore quando si guarda il rapporto sul Pil che però permette margini di movimento più discrezionali rispetto ai valori assoluti. Il rapporto deficit/Pil è il risultato di una frazione e per farlo diminuire si può ridurre il numeratore (la spesa finanziata a disavanzo) oppure aumentare il denominatore (ovvero il prodotto interno lordo). Se si parla di decimali, come si sta parlando (che poi si trasformano in miliardi di euro), decisiva è la crescita economica. Alzare il Pil può far diminuire il rapporto, anche mantenendo invariata la spesa o il deficit. Ma se non si è capaci di ridurre la spesa, come si è dimostrato anche nel 2015, si può ambire al massimo a mantenere invariato il rapporto. Potrà anche essere pensar male, ma la speranza del governo di un Pil in crescita maggiore di quanto viene creduto possibile da tutti gli analisti non è solo espressione di stimolo ottimista, ma è la strada per riuscire ad avere di più da spendere senza dovere intervenire con la sempre spiacevole e impopolare spending review. Sempre che poi non servano per finanziare gli eventuali interessi in più richiesti al servizio del debito pubblico.

 

 


Troppe chiacchiere sterili su Fo e Dylan. E anche il polemico resta “spiazzato”

Il Nobel che viene o il Nobel che muore? Stando alle aspettative dei miei tre o quattro lettori, Dario Fo o Bob Dylan dovrebbero arroventare il mio “polemico” di questa settimana. A ben considerare, per l’uomo della strada, forse, ci sarebbe da polemizzare abbondantemente sull’uno come sull’altro evento: un ex paracadutista della RSI salutato da “Bella ciao” e un cantautore premiato come letterato darebbero consistenti argomenti di polemica a chiunque. Ma, invece, vorrei, per una volta, smorzare le polemiche, invece che alimentarle. Dario Fo è stato un soldato della Repubblica Sociale? Fatti suoi: si trattava di scegliere, e alcuni hanno scelto la macchia, altri i gladi sul colletto. Ha cambiato idea: è diventato comunista. E con ciò? Lo stesso hanno fatto Scalfari e la Iotti, Vittorini e Calvino: un’intera Nazione, salvo pochi irriducibili da una parte dall’altra, ha fatto il salto della quaglia, prima o poi. Dicono che abbia millantato chissà quali persecuzioni, mentre, in realtà, il potere lo ha spesso vezzeggiato e carezzato: il potere è subdolo e, sovente, ti liscia perché ti teme. Infine, l’accusa più infamante: ha applaudito per l’uccisione di Ramelli, ha difeso gli assassini dei fratelli Mattei. Certo, non è una bella cosa: ma vi ricordo che, alla notizia della morte del povero Ramelli, il consiglio comunale di Milano, con qualche nobile eccezione, si è alzato in piedi ad applaudire.

Così fan tutte, chioserebbe il grande Da Ponte. Quanto al valore oggettivo dell’opera di Fo, ammesso che esista un valore oggettivo nell’arte, vi confesso di non essere in grado di giudicare: non sono mai riuscito ad andare oltre le prime due pagine delle sue pièces e giudicare un grande scrittore da qualche comparsata televisiva, da dei Caroselli o da scampoli di coccodrilli mandati in scena a reti unificate mi sembrerebbe ingeneroso. Potrei basarmi sul giudizio di qualcuno che abbia letto l’opera omnia del Maestro, o, almeno, una parte consistente della sua sterminata produzione, ma, purtroppo, non conosco nessuno con queste caratteristiche: quando domando ai miei conoscenti notizia di questo o di quel testo, invariabilmente, mi confessano di non averlo mai letto. Perfino i più attenti, i più culturalmente preparati, oso dire perfino i più politicamente coinvolti: non ce n’è uno che mi sappia illustrare le formidabili caratteristiche del teatro di Fo. Quanto alla conoscenza diretta, ci sono stato a cena una solta volta, e ho parlato tutta la sera con Catherine Rommel, purtroppo. Sicchè, mi fido della sagacia e dell’acutezza degli accademici di Svezia.

Lo stesso dicasi per Bob Dylan: certamente, non mi appare come uno dei più accreditati scrittori del secolo, tuttavia, indubbiamente, è un protagonista assoluto della cultura, a cavallo dei due millenni. Io di musica capisco poco, e dell’inglese degli americani colgo anche meno sfumature: da italiano, provincialotto, il Nobel l’avrei dato a De André, ma non sono accademico né svedese, e Faber, ahimè, ha da tempo abbandonato le miserie e i fasti di questo mondo. Di sicuro, Dylan non è un letterato in senso stretto, se non altro per quella sua abitudine di accostare alle poesie l’armonica e la chitarra. Musicalmente, dai primi album, ha fatto passi da gigante: anche solo per l’abbandono dell’ “Old boring country” a favore di generi e commistioni meno narcotici meriterebbe certamente un riconoscimento internazionale. Sulle ragioni del Nobel al menestrello di Duluth ne ho sentite di tutti i colori: dall’accostamento alla poesia omerica o a quella scaldica (si parva licet, s’intende), fino alla ridefinizione del concetto stesso di letteratura. Preferisco volare basso. Io dico che, esattamente come ogni altra onoreficenza al valore, anche il Nobel si assegna a titolo esemplare e simbolico: in altre parole, serve a mostrare alla gente la via, ha un senso educativo.

Dylan ha indicato una via che, evidentemente, collima con quella degli accademici di Svezia: non si premia il più grande scrittore dell’anno, perché i criteri per indicare questa figura sarebbero mille e tutti diversi tra loro, ma si premia un simbolo da indicare alla gente come uomo di valore. L’idea mi pare che sia quella di premiare i difensori dei deboli e degli oppressi: i libertari, i democratici, quelli che hanno inciso nella cultura progressista. Oppure scrittori vessati e perseguitati nei propri paesi d’origine, in nome delle proprie idee e della difesa della libertà. Quindi, che questa figura valorosa faccia il bersagliere o l’alpino, il poeta o il drammaturgo, il prosatore o il cantautore, poco cambia. Se, domani, la lotta per quei valori venisse incarnata, chessò, da una ballerina o da un suonatore di baghèt, il premio Nobel per la letteratura potrebbe legittimamente andare alla ballerina o al suonatore di piva. D’altronde, mica lo pagate voi, il Nobel: lo paga l’Accademia di Svezia (entra ed adora!), Saranno ben liberi di darlo a chi vogliono e per le ragioni che vogliono, o no? Insomma, tutte queste polemiche mi paiono davvero sterili, perfino per un polemico. Dylan ritirerà il suo Nobel, Fo è morto, e anch’io non mi sento troppo bene…

 

 


Gori svetta nei sondaggi? Allora vi dico cosa penso di lui

 Index Research ha espresso il proprio giudizio. Detto così, e considerato che praticamente nessuno sa cosa diavolo sia Index Research, immagino penserete ad una di quelle agenzie di rating che, di tanto in tanto, ci riempiono di AAA, BBB, CCC, e delle quali, nella vita reale, non importa nulla a nessuno. Niente di più sbagliato: dietro il nome esotico, si nasconde un istituto di ricerche demoscopiche, utilizzato da La 7 per inchieste, sondaggi e simili passatempi televisivi. Questa volta, la materia d’indagine era, per noialtri, tutt’altro che peregrina, perché riguardava in prima persona il nostro sindaco, che, alla luce dei risultati di Index Research è risultato essere il più amato dagli Italiani, o, perlomeno, dai propri concittadini, con un portentoso 62,6% di gradimento. Ora, vi confesso di non essere esattamente edotto sul funzionamento di questi sondaggi e di non sentirmela di importunare il caro Nando Pagnoncelli per domandargli lumi in proposito: presumo, tuttavia, che si basino su delle telefonate ad un campione significativo di popolazione.

A me, personalmente o a qualcuno dei miei conoscenti, nessuno ha chiesto nulla, ma non ho ragione di dubitare che un congruo manipolo di bergamaschi sia stato contattato ed abbia espresso un parere positivo su Gori e sul suo operato. Io, se permettete, sfruttando l’indubbio vantaggio di detenere una rubrichetta su di un vetusto ed onorevole giornale, il mio parere l’esprimo qui. Per cominciare, devo premettere, per onestà, che, nonostante una disparità ideologica che rasenta l’antipodo, Gori, a suo tempo, l’ho votato: anche per questo mi sento autorizzato a commentarne il successo demoscopico. Distinguerei almeno tre voci, dovendo analizzare il suo operato da sindaco: valore, idee ed azioni.  Sul valore non ho dubbi: lo conosco bene e so che è persona che vale parecchio. Anzi, vi dirò che, secondo me, è uno che vale più di quel che appare, anche se sono sicuro che molti di voi penseranno: ma come, se è uno che ha costruito sull’apparire la sua fortuna? Gori è tutt’altro che un fesso vanesio, costruito ad arte da uno spin doctor e da un tecnico dell’immagine: è persona, semmai, contraddittoria, diviso com’è tra la lotta per la vittoria ed un fondo di umanitarismo utopico ottocentesco. Immaginatevi un Proudhon che diriga la Chase Manhattan Bank: ecco, ho in mente qualcosa del genere. Ma, quanto a valore, credetemi, non si discute.

Magari, possiamo discutere sulle idee: alcune sono sue, altre nascono da una sintesi di molteplici sistemi ed altre, infine, sono altrui. Molte di queste idee, come quella dell’identità turistica di Bergamo, dello Stimmung orobico, di una visione un tantino millenaristica ma suggestiva della nostra città, mi trovano d’accordo. Altre le avrei addirittura esasperate: l’operazione piste ciclabili, ad esempio, è una bella incompiuta. Altre, come l’invenzione di happenings un po’ fighetti in Città Alta o come certe sbrodolate iniziali su accoglienza ed immigrazione (che, per fortuna, sulla scorta della dura realtà, ha ben bene corretto al ribasso), mi hanno decisamente lasciato perplesso. Ma ognuno ha le sue, di idee: mica posso bocciare un sindaco perché la pensa diversamente da me sul vagabondaggio panchinaro. O forse sì, ma non è questo il punto. Il punto, nel caso specifico di Gori e della sua amministrazione, sono le azioni. Anche qui, machiavellicamente, distinguerei tra azioni compiute, incompiute ed annunciate, oltre che tra azioni direttamente ascrivibili al sindaco o farina del sacco di suoi assessori, che lui abbia semplicemente avallato. Le azioni compiute sono abbastanza limitate, ma questo trova giustificazione anche nel poco tempo a disposizione per mettere in campo certi progetti di più ampio respiro: per quel poco che si è visto, il mio giudizio è, tutto sommato, positivo.

Noto una certa tensione al fare e al voler affrontare alcuni snodi, come la Montelungo o Astino, che potrebbero influenzare non poco il benessere dei cittadini di domani. Le azioni incompiute riguardano operazioni strutturali, e anche qui darei tempo al tempo: Roma non è stata fatta in un giorno e anche per Bergamo ventiquattr’ore mi sembrano pochine. Quanto alle azioni annunciate, mi aspetto una ben più decisa svolta verso la vivibilità di questa povera città: il traffico, i trasporti, la logistica sono temi di assoluta priorità e si legano un po’ con tutte le problematiche essenziali per un cittadino, dalla salute al tempo libero. Le note veramente dolenti vengono dalle azioni altrui, che Gori, di riffa o di raffa, ha vidimato col suo sigillo: la ristrutturazione dei servizi demografici e di stato civile, compresa la beffa dei totem che nessuno usa, pare che si stia trasformando in un’emiparesi burocratica. Le attività culturali ed educative, se escludiamo un’idea un po’ provinciale di cultura intesa come pubblico alle mostre, sono abbastanza desolanti. La gestione di Città Alta mi pare, talvolta, à la Billionaire, e così via. Ecco, questa voce, la scelta della squadra di governo, l’avrei inserita in un’indagine demoscopica, così, per curiosità: ottimo pranzo, peccato per i contorni, insomma. Ma, si sa, io sono per gli uomini soli al comando….

 


Il futuro di Ubi tra banca unica e “good bank”

Ubi bancaNel giro di una settimana, Ubi potrebbe varare la banca unica, con l’accorpamento delle sue sette banche reti, ma restare ancora una holding. Che l’assemblea del 14 ottobre vari la fusione appare scontato: è troppa la convenienza in termini di risparmi e di efficienza di gestione per fermare un’operazione che, se non ci fossero stati personalismi e qualche problema tecnico di assetto societario, di fatto risolti solo con la Spa, si sarebbe realizzata da anni. Ancora incerto è invece il fatto che ad aprile, a compimento dell’incorporazione a tre fasi dei sette istituti che sarà votata in assemblea, Ubi sia ancora una banca unica o non si trovi con altre controllate, ovviamente da fondere anch’esse, in prospettiva, una volta realizzata l’integrazione, prima di tutto dei sistemi informatici.

È ancora tutta da definire la trattativa per rilevare tre delle quattro “good bank” nate dalla risoluzione di un anno fa, ovvero Popolare Etruria, Banca Marche e Carichieti, lasciando perdere proprio quella Cariferrara che all’inizio sembrava potesse essere il primo obiettivo. Giustamente Ubi non vuole rimanere invischiata in un’operazione che presenta opportunità interessanti, a partire dal salto di qualità da istituto multiregionale a veramente nazionale con una copertura anche di aree ora deserte, come la Toscana, ma anche rischi non indifferenti. Quindi, se l’operazione procede lentamente, e forse non verrà realizzata, è perché prima è necessario vedere e valutare le carte. Questo vuole dire, essenzialmente, controllare la qualità dei prestiti e capire a quanto ammontano non solo le sofferenze presenti (ora relativamente poche, considerato che i quattro istituti sono nati a crediti inesigibili zero, ma dopo un anno già pericolosamente in crescita), ma anche e soprattutto quelle potenzialmente future. E poi ottenere adeguate garanzie e le compensazioni del caso, anche per i costi che comunque dovranno essere affrontati per la ristrutturazione e il rilancio di banche che, se un anno fa sono state costrette alla bancarotta, devono essere rivoltate anche dal punto di vista gestionale.

Alla fine il conto potrebbe essere anche negativo. Del resto siamo in tempi di tassi negativi dove il costo del denaro esiste per chi fa il prestito, più che per chi lo chiede. Quindi non deve apparire paradossale nemmeno che le operazioni sulle Good banks si profilino come acquisizioni dove chi compra non paga, ma viene pagato, anche se non necessariamente in contanti. Nel caso di Ubi si ipotizzano infatti opzioni contabili-normative, come un riconoscimento dell’avviamento negativo da parte della Bce, l’immediato utilizzo dei modelli interni per il calcolo degli attivi a rischio o un intervento del Fondo atlante che rilevi i crediti problematici.

Anche se con ogni probabilità un aumento di capitale potrebbe essere necessario per Ubi – si parla di 300-400 milioni – più per una ulteriore cautela prudenziale, che per finanziare l’eventuale operazione, l’acquisto delle tre banche inevitabilmente dovrebbe avvenire a prezzi molto contenuti. Del resto, non c’è la fila per comprare gli istituti, anche perché non sono molti i gruppi che potrebbero ricavare dall’operazione sinergie e prospettive di ritorno dell’investimento. Inoltre questa è un’operazione che può interessare Ubi, sempre a condizione, come ribadisce in tutte le salse  il Ceo Victor Massiah, che crei valore, ma interessa soprattutto il sistema bancario e non solo per il danno di immagine e di credibilità che può derivare dalla vicenda. Entro sei mesi, il Fondo interbancario di tutela dei depositi deve restituire il prestito da 1,6 miliardi organizzato da Intesa Sanpaolo, Unicredit e la stessa Ubi per assicurare le risorse essenziali al riavvio delle quattro banche. Difficilmente i proventi della vendita potranno assicurare un rientro integrale delle risorse immesse per consentire il salvataggio e questo apre alla possibilità che il sistema sia chiamato a registrare nuovi esborsi per riuscire a liquidare quella che a seconda dei punti di vista è una “patata bollente” o una “opportunità”.

Del resto quest’anno ci sono già state almeno due acquisizioni bancarie dove il cliente è stato pagato. Recentemente la bresciana Banca Valsabbina ha chiuso l’accordo per l’acquisto gratis di sette sportelli di Hypo Alpe Adria Bank Italia (incluso quello di Bergamo) e di un portafoglio di mutui «performing» di circa 150 milioni di euro, ricevendo in più una «dote», di importo non svelato – si ipotizza una ventina di milioni,  a compensazione della cessione del ramo d’azienda – a titolo di contributo di avviamento. In precedenza Barclays aveva pagato 237 milioni per cedere 89 sportelli, con 3 miliardi di mutui residenziali  a CheBanca!, del gruppo Mediobanca. E pensare che nel 2007 Ubi Banca aveva ottenuto 488 milioni di euro dalla cessione di 61 sportelli alla Popolare di Vicenza. Insomma si è passati in neanche dieci anni da una situazione in cui la vendita di uno sportello bancario fruttava 8 milioni di euro a una in cui bisogna pagare 2,6 milioni per cederlo. Dato che questi sono prezzi di transazioni avvenute e non di ipotesi si può ben capire come sia cambiata la mentalità del mercato e perché siano così depresse le quotazione dei titoli bancari, ormai trattati a frazioni del patrimonio netto tangibile, non solo perché la loro redditività è bassa, ma anche perché quello che un tempo era un valore, adesso è diventato un costo.