Spendere o risparmiare? Questo è il nuovo dilemma

risparmioDato che del “doman non v’è certezza” si guarda sempre più all’uovo di oggi che alla gallina di domani. Una volta le banche regalavano ai bambini salvadanai in metallo per educare alla parsimonia e al “mettere da parte”, oltre che come operazione di marketing, mentre il 31 ottobre si celebrava nelle scuole la Giornata mondiale del risparmio. Tutto da dimenticare, come tradizioni obsolete. L’imperativo adesso è consumare, una necessità per l’economia in affanno. E se i soldi non ci sono, si prendano a prestito.

Ci sono ancora resistenze per questo modello economico in Italia, dove, volente o nolente, è ancora diffusa una mentalità contadina. La finanza, insomma, non è ancora nella genetica. Per fortuna secondo alcuni, per iattura secondo altri, c’è (c’era?) nella massa degli italiani una vocazione al risparmio, anche se a volte è solo un desiderio, per difficoltà oggettiva ad avere sostanze da accantonare.

In ogni caso l’incentivo al risparmio non appare più l’obiettivo dei governanti, che anzi spingono a spendere. Perché è vero che i consumi mettono in moto l’economia, ma è anche vero che su ogni acquisto il Fisco incassa la sua parte, attraverso l’Iva.

Da questo mese i lavoratori dipendenti possono chiedere l’anticipo del Tfr in busta paga (in sigla Quir, quota integrativa retribuzione) . Il trattamento di fine rapporto è una forma di risparmio forzoso: in pratica obbliga i lavoratori a “investire” parte del loro stipendio. E’ una voce che non esiste in molti altri Paesi che porta a creare un gruzzoletto per quando si andrà in pensione e al quale attingere in caso di necessità, ma è anche una forma di finanziamento a basso costo per le aziende che lo accantonano. Ad essere buoni si può pensare che il governo ritiene che gli italiani siano maturi e sappiano fare i conti per quello che è meglio fare e dà la possibilità di libere scelte. Ad essere cattivi il governo vuole avere nuovi redditi da tassare subito e in modo ordinario, e non separatamente, come avviene per il Tfr ritirato a scadenza.

Più che per il rilancio dei consumi e della domanda interna il ricorso al Quir sembra la concessione dell’ultima spiaggia a chi non riesce ad arrivare a fine mese, dandogli ossigeno nel presente per toglierglielo nel futuro. Nel qual caso, sempre nella logica di spendere subito quello che non si sa se si avrà domani ci sono esempi peggiori all’estero. Mentre da noi si fatica a far capire l’importanza di una previdenza complementare, sempre da questo mese in Gran Bretagna ogni lavoratore, con almeno 55 anni di età, può ritirare il montante dei contributi previdenziali obbligatori versati nella sua carriera lavorativa. Ma, dato che non si regala nulla, pagherà le tasse (40%) sul 75% della somma e non avrà più diritto ad una pensione pubblica. L’obiettivo della riforma del governo di David Cameron è rianimare la spesa delle famiglie, auspicando che questa sia indirizzata soprattutto agli investimenti. I critici, forse più realistici, temono che a fronte di qualcuno che utilizzerà questa somma in modo consapevole e razionale, molti faranno sparire i soldi della loro futura pensione nei pub o in vacanze in Spagna preparando il Regno Unito a un futuro di vecchi spiantati, considerato che già adesso le famiglie inglese sono tra le più indebitate d’Europa, per effetto di un uso molto spinto del credito al consumo.

In Italia non è prevista la possibilità di rimborso dei contributi Inps qualora non vengano raggiunti i requisiti per l’ottenimento della pensione: per qualche tempo era stata prevista per gli extracomunitari che lasciavano il territorio nazionale, ma poi questa deroga è stata cancellata per evitare di fatto una discriminazione. Se uno non arriva alla pensione, insomma, incamera l’ente pubblico e anche questa cinica situazione, sempre più reale tanto più si allunga l’età pensionabile, nonostante l’allungamento della vita media, contribuisce a sostenere il sistema previdenziale. Se anche da noi ci fosse la possibilità di ritirare i contributi, o addirittura di non versarli, probabilmente molti lo farebbero, confidando, con conti sbagliati, che poi alla fine una pensione, seppure minima, dato che siamo in Italia, finirebbero per prenderla. C’è da augurarsi che la soluzione inglese non venga importata, anche se potrebbe avere slogan accattivanti, del tipo “consuma adesso con i soldi del futuro”. Magari con sotto l’immagine di una bella spiaggia greca.


La coperta troppo corta della “Generation rent”

apartment rentEssere proprietari della casa in cui si vive non è più la norma per la mia generazione. Tra i pochi che scelgono l’affitto come stile di vita, con meno vincoli, libertà di spostarsi e cambiare città o quartieri, la maggior parte di noi sogna invece un luogo da poter chiamare casa. Una prospettiva inarrivabile per molti, anche mettendo in conto compromessi, quali vivere in zone decentrate, meno costose e in appartamenti di piccole dimensioni. Accade in Italia ed accade anche a Londra. La chiamano generation rent, ovvero la generazione che vive in affitto. Secondo gli ultimi sondaggi, l’82% dei giovani tra i 20 e i 45 anni che non vive in una casa di proprietà, pensa che non riuscirà mai ad acquistarne una. Le uniche possibilità per rivoltare la situazione sarebbero una vincita al lotto o ricevere un’eredità. Insomma, senza un aiuto sostanzioso, che sia la fortuna o uno zio scapolo senza eredi diretti, comprare casa resta un miraggio. Le banche si preoccupano, commissionando sondaggi che mettono in evidenza quello che noi della generazione rent già sappiamo: se la situazione non cambia, non avremo mai bisogno di bussare alla porta della banca per chiedere un mutuo.

Nell’ultimo anno la situazione sembra essersi aggravata. Nonostante il mercato non sia più bollente come un anno fa – i costi delle case a Londra siano scesi lievemente e il numero delle transazioni calate del 30% negli ultimi 12 mesi, il numero delle persone che possono permettersi di risparmiare e accumulare un deposito che garantisca un buon tasso di interesse, è sceso ulteriormente. Il motivo è semplice: il costo della vita. A questo si aggiunge, a parer mio, anche una componente psicologica: se non mi posso permettere di risparmiare per un deposito, tanto vale spendere su qualcosa che mi offra una soddisfazione immediata: vacanze, macchina, intrattenimento in generale.

Ci sono poi i lifestyle renters, giovani che hanno dei salari di livello medio-alto ma che preferiscono la flessibilità e la mobilità – magari per cambiare quartiere e stile di abitazione – anziché investire tutti i propri risparmi per un deposito (che non dimentichiamoci dovrebbe essere del 20-25% per ottenere dei buoni tassi di mutuo).

Una situazione che sei, sette anni fa sarebbe stata improbabile. Chi ha acquistato qualche anno fa, non solo ha goduto di prestiti oggi inimmaginabili da parte delle banche, che offrivano mutui al 110% per coprire anche il costo di acquisto di mobili ed elettrodomestici, ma anche di un costo degli immobili significativamente più basso. Il risultato è che si trova spesso seduto su una miniera d’oro. In certe parti di Londra – oltre ovviamente alle zone centralissime – il valore degli immobili si è quintuplicato. Nessun merito, solo fortuna per aver comperato al momento giusto. Il contrasto si fa ancor più evidente se si tiene conto del fatto che i giovani inglesi – dal dopoguerra fino a qualche anno fa – hanno goduto di condizioni invidiabili e standard di vita, quali compensi e costo della vita, ben più convenienti che nel resto d’Europa.

Subentra poi il fattore culturale: gli inglesi, un po’ come gli italiani, sono ossessionati dall’idea di avere una casa di proprietà. E una volta che l’hanno, la vogliono ingrandire, modificare come nel famoso programma di Sky Grand Design, dove case modeste, ruderi e garage vengono trasformati in loft, residenze patrizie, magari con pannelli solari e autosufficienza energetica.

A differenza della Germania e di altri paesi del nord Europa, dove vivere in una casa in affitto non ha nessuno stigma sociale e la disponibilità di immobili da affittare è vasta e di buona qualità, non si può dire lo stesso di Londra e di gran parte dell’Inghilterra. Purtroppo gli affitti sono spesso alti, di breve termine e offrono soluzioni di bassa qualità per quel che si paga. La coperta è sempre troppo corta per la generation rent.

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La strana rassegnazione sulla riforma delle Popolari

PopolariCambiare idea è legittimo. “Il saggio muta consiglio, ma lo stolto resta della sua opinione”, recita un aforisma di Petrarca. Però è strano che la riforma delle Popolari dopo l’iniziale levata di scudi all’improvvisa e imprevedibile comparsa del decreto legge sia passata, come nelle previsioni, attraverso un voto di fiducia, ma in fondo quasi senza colpo ferire. L’ultima correzione ottenuta alla fine è che nell’assemblea che varerà la trasformazione in Spa potrà essere introdotto un limite all’esercizio del diritto di voto in assemblea del 5%, ma per 24 mesi. Una soglia che peraltro esiste già in altri istituti, come Unicredit, e senza limiti temporali, ma che alla prova dei fatti non costituisce una barriera insormontabile. Esisteva ad esempio anche al Credito Bergamasco ed è bastata un’assemblea straordinaria per togliere il limite e poi cedere il controllo al Crédit Lyonnais.

Di fatto l’introduzione del limite al diritto di voto sembra essere stato un contentino innocuo tanto per dire che sono state ascoltate le critiche. Ma critiche che in fondo non sono state così sentite. Qualcuno ha mostrato un po’ di fastidio, come avviene per tutti i contrattempi che rovinano il regolare flusso degli eventi, ma nessuno sembra sentirsi messo in discussione, tanto che la muta rassegnazione sembra nascondere anche un po’ di soddisfazione. Se questa normativa doveva servire per sgretolare presunti gruppi di potere autoreferenziali, bisogna prendere atto che non c’è stata una particolare reazione per evitare l’indebolimento. Se dopo due mesi la possibilità di una calata straniera su una parte importante del sistema creditizio o comunque un rivolgimento della governance non sembra costituire più un problema c’è da pensare che la rivoluzione, auspicata da alcuni e che dovrebbe essere temuta da altri, non ci sarà.

Anzi, di fronte al nocciolo della questione, che è il passaggio dalla cooperativa con voto capitario (un socio un voto) a una normale società per azioni, dove contano le azioni, è spuntata una tendenza diffusa ad anticipare la trasformazione che in base alla legge dovrebbe essere effettuata entro 18 mesi, ovvero prima dell’estate 2016. A far cambiare le idee sulla riforma da parte dei banchieri potrebbe essere il fatto che in realtà non ci sarà il “tutti a casa” ventilato all’inizio. Ma anzi, come ha fatto notare il capo della vigilanza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, la trasformazione in spa “consentirà ai soci di controllare più efficacemente l’operato degli amministratori, riducendo inoltre gli spazi per le ingerenze indebite e i veti ingiustificati di minoranze organizzate”. Insomma, una governance più stabile e allo stesso tempo più difficile da cambiare. Questo vuol dire che in futuro un cambiamento di maggioranza nel corso dell’assemblea come, ad esempio, è stato sfiorato in Ubi, non sarà possibile perché la conta delle azioni si farebbe prima e la riunione si farebbe a giochi fatti. E un presidente che in una Popolare può (o poteva) restare al vertice per decenni per quella che viene lamentata come autoreferenzialità, in una Spa lo potrà essere, come avviene, perché ha il pacchetto di azioni di controllo, passato da padre in figlio. Si può pensare, a questo punto, se non lo è già stato fatto, che prima di una concentrazione delle banche, ufficialmente il motivo per cui è stata pensata la riforma, ci sarà una concentrazione del capitale.

Le assemblee di questo mese, intanto, si svolgeranno secondo le regole usuali. E senza grandi temi sul tavolo, se non i bilanci, le riunioni serviranno soprattutto per misurare il polso dei soci e capire il loro orientamento su strategie che ormai non riguardano più la trasformazione in Spa (caso mai saranno da valutare i tempi, dato che in certi istituti, come Ubi, l’anno prossimo saranno da rinnovare le cariche sociali) quanto quelle politiche di aggregazione che dovrebbero rafforzare le banche ostacolando con le dimensioni quelle scalate dalle quali senza il voto capitario sono meno protette.

 


Stagisti: raccomandare va bene, a patto che…

Berlin Mitte Is Home To Germany's LobbyistsDopo le vacanze di Pasqua entreremo improvvisamente nell’ultimo trimestre scolastico. Per gli studenti universitari significa soprattutto trovare uno stage estivo nel settore di interesse o dove poter raccogliere informazioni utili per stendere la tesi. Nei miei dieci anni di lavoro ho conosciuto molti intern – come li chiamano nel mondo anglosassone – che hanno trascorso con me e il mio team un po’ di tempo, da un paio di settimane fino a sei mesi. Cosa avevano in comune? Avevano tutti le giuste connessioni. Fortunatamente la maggior parte di loro aveva anche un ottimo titolo di studio, tanta energia e altrettanta dimestichezza con le tecnologie, mescolate a sicurezza in loro stessi. Il dibattito sul fatto se sia giusto o no aiutare chi si conosce – in certi casi i propri familiari – è un argomento sempre attuale. Se potessimo aiutare chi conosciamo e che reputiamo meritevole, non lo faremmo tutti? Io l’ho fatto, per una legge non scritta in cui credo: aiuta e verrai aiutato. L’ho fatto indiscriminatamente? No. Quando ho passato contatti utili, mi sono sempre assicurata che il beneficiario avesse le qualità giuste: un buon titolo di studio, capacità interpersonali, entusiasmo e desiderio di imparare.

Mi è inoltre capitato di lavorare con i cosiddetti raccomandati, figli di investitori, clienti importanti o personaggi influenti, come ad implicare che il servizio al cliente passa anche dall’offrire un paio di mesi di esperienza ai loro eredi. E quando ci si trova in queste situazioni, ad amministrare il tempo e le mansioni di questi stagisti, bisogna sempre muoversi con molta cautela. In un mondo dove il passaparola può determinare molte opportunità lavorative, le connessioni giuste possono fare, o disfare, una carriera. Le storie di “figli di” sono tante, specialmente quando si parla di dinastie imprenditoriali: da Santander, dominata dalla famiglia Botin, a Sky, dove Murdoch senior e i figli si spartiscono le responsabilità direzionali, sono solo i primi esempi che mi vengono in mente.

Reclutare tra chi si conosce, sia famiglia o compagni di scuola o di chiesa, garantisce che le responsabilità ricadano sulle persone migliori? La risposta ovvia è: non sempre. La verità è che il mondo lavorativo anglosassone garantisce spesso un biglietto di ingresso ai privilegiati, ma con una data di scadenza. Una volta entrati, si deve dimostrare il proprio valore per poter restare. Alcune grandi aziende, per proteggersi dall’accusa di nepotismo e favoritismi, hanno adottato delle politiche di reclutamento del personale molto rigorose: chi assume non può vedere il nome completo e la scuola frequentata dal candidato, per non fare discriminazioni di nessun tipo, aprendo la strada al multiculturalismo. Tuttavia questi criteri non sono a prova di bomba.

Esistono poi altri tipi di raccomandazioni, chiamate invece referral: chi si candida per una posizione e compila la propria candidatura on line, è invitato a menzionare il nome di chi si conosce in quell’azienda. In caso di assunzione, il contatto di riferimento si vede riconosciuto un gettone, un bonus che molto spesso vale dai 2 ai 5 mila Pound, soldi che l’azienda avrebbe invece pagato ai cacciatori di teste o alle agenzie di trova lavoro.

Il colosso della consulenza E&Y ha stimato che – su 14mila persone all’anno che si candidano per lavorare per loro – solo l’1 per cento ha un contatto interno, insomma una percentuale del tutto trascurabile.

 

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Jobs act, una vera riforma o un regalo a tempo?

Lavoro Jobs ActComunque andrà sarà un successo. Con un minimo di ripresa, ma anche senza ripresa, ci saranno inevitabilmente assunzioni e queste saranno effettuate secondo le regole in vigore, cioè con il Jobs act. Sarà facile allora per il governo che lo ha proposto e fatto adottare dire che questo avviene grazie al nuovo provvedimento. Mancherà però la controprova di cosa sarebbe successo se fosse rimasta la vecchia normativa, con la quale, in ogni caso, anche nei momenti più neri della crisi, venivano assunte diverse centinaia di migliaia di persone ogni anno.

Anche senza Jobs Act, nel 2014 gli occupati in Italia sono aumentati di 120 mila unità. Così la crescita prevista pure nel 2015 non potrà essere onestamente imputata al Jobs Act, ma piuttosto alle esigenze delle aziende. Eppure la nuova normativa qualche risultato in termini di maggiore occupazione lo avrà sicuramente. Ci sono 76 mila aziende che in soli venti giorni di febbraio hanno chiesto all’Inps il “codice di decontribuzione” per le assunzioni a tempo indeterminato. Il Jobs Act, infatti, viene molto pubblicizzato per la questione dei contratti a tutele crescenti e la “libertà” di licenziare. Ma agli imprenditori interessa soprattutto qualcos’altro. Il “codice di decontribuzione” permette infatti di ottenere lo sconto sui contributi previdenziali che può far risparmiare fino a 8.060 euro l’anno per un triennio per le assunzioni. In mancanza di dati ufficiali – le statistiche viaggiano con tempi che non sono assolutamente compatibili con quelli dell’economia – ci si deve rifare alle stime degli operatori. Secondo i Consulenti del lavoro, nei primi due mesi dell’anno sono state fatte 275 mila assunzioni a tempo indeterminato, disinteressandosi bellamente della possibilità di eludere il famigerato articolo 18. Tanto è vero che le imprese non hanno pensato di rinviare le assunzioni a dopo il 7 marzo, quando è diventato operativo il Jobs Act, che sostituisce il reintegro nel posto di lavoro con un indennizzo in denaro. Questo conferma che le aziende quando assumono non lo fanno pensando a quando dovranno licenziare, non fosse altro che per scaramanzia.

Comunque, risultati o non risultati, temuto o non temuto, che interessi o meno, ormai il Jobs Act ce lo abbiamo e difficilmente se ne andrà, se non, forse, con un referendum, dall’esito peraltro non scontato. Appare in salita la sfida dei sindacati di far rientrare dalla finestra la tutela dei licenziamenti uscita dalla porta, introducendo nella contrattazione regole di reintegro non previste dal decreto. Se si ammette che le imprese non hanno interesse a licenziare solo per il piacere di farlo, trovarne di disposte a impegnarsi in un contratto integrativo al reintegro obbligatorio, non è molto differente dal riuscire a trovare aziende disposte a vincolarsi ad una rinuncia a prescindere a licenziare, per quanto questo vincolo possa avere valore in concreto.

In ogni caso, dato che chi assume non lo fa pensando di licenziare subito dopo, i problemi del Jobs Act, con la discriminazione che crea nella stessa azienda tra lavoratori dipendenti tutelati e lavoratori dipendenti non tutelati, perché anche le tutele crescenti non saranno comunque pari alle precedenti, si vedranno solo in futuro. E progressivamente, tra diversi anni, scompariranno, quando ci saranno solo lavoratori assunti con il jobs act.

Nel frattempo però dovrebbe scoppiare un nuovo problema, quello del costo della decontribuzione che in questi primi mesi sta dando una spinta all’occupazione ben maggiore del Jobs Act, al quale però alla fine andranno i meriti. Il calcolo della Cgia è che un milione di contratti incentivati (e incidentalmente adesso anche a tutele crescenti, ma comunque ridotte) costeranno circa 15 miliardi (1,8 nel 2015, 4,9 nel 2015, 5 nel 2017 e una coda nel 2018 di 2,9 miliardi) tra sgravio dei contributi Inps per 36 anni e deducibilità integrale, dal calcolo della base imponibile Irap, della componente del costo del lavoro per tutti i lavoratori alle proprie dipendenze assunti con un contratto stabile. Come per i famigerati 80 euro, anche questa volta c’è da chiedersi dove verranno recuperate le risorse. Ma come gli 80 euro non hanno risolto il problema dell’eccessivo carico fiscale, limitandosi ad un ribasso provvisorio, salvo proroga, così anche una decontribuzione per tre anni non risolve il problema del costo del lavoro e appare più un regalo (a tempo) che una vera riforma.