Poveri italiani, ormai come rane a bagnomaria

rana ChomskyVi invito a leggere la splendida poesia di Baudelaire “Remords posthume” e, subito dopo, quella, assai meno felice, del nostro Olindo Guerrini, che si intitola “Il canto dell’odio” e che proprio al poeta francese si ispira: noterete immediatamente, aldilà della differenza di statura tra i due autori, che Guerrini sta a Baudelaire come un film splatter sta ad Hitchcock. Tra le due opere sono trascorsi vent’anni esatti: una è del 1857 e l’altra del 1877. In questo breve lasso di tempo, qualcosa è accaduto, nel gusto del pubblico. Entrambi i poeti avevano l’intenzione di “épater le bourgeois”, di scandalizzare il benpensante: ciò che, però, scandalizzava un parigino del tempo di Baudelaire, non avrebbe fatto né caldo né freddo ad un milanese contemporaneo di Guerrini. E, quindi, le parole, le immagini, le tonalità del poeta forlivese, risultano assai più violente, rispetto a quelle del suo modello. Perché la gente si abitua: poco alla volta, metabolizza, gramola, si adegua. E, alla fine, non reagisce più agli stimoli, a meno che questi stimoli non divengano sempre più esasperati, in un gioco al rialzo che, spesso, è un gioco al ribasso, come nel caso della poesia di Guerrini.

Un esperimento che rende benissimo l’idea del comportamento della folla nei confronti dei cambiamenti graduali, è quello della rana di Chomsky. In questo apologo, il celebre linguista descrive il comportamento di una rana, immersa in una bacinella che venga progressivamente riscaldata: poco alla volta, il povero batrace s’intorpidisce, e, alla fine, quando l’acqua diventa bollente, non è più in grado di reagire, come farebbe, invece, se lo si gettasse direttamente nell’acqua calda, e muore bollito. La gente, dice Chomsky, si comporta proprio come la ranocchia: se le si propina una novità troppo bruscamente, reagisce, s’imbizza, s’impenna. Se, però, le cose vengono modificate un pochettino alla volta, ci si abitua: la reattività sociale e quella politica si addormentano e, alla fine, ci si ritrova impacchettati, senza nemmeno capire come sia accaduto. Da noi, è successo esattemente questo: tante volte, mi sono chiesto e vi ho chiesto come siamo arrivati a questo punto. Ebbene, la risposta consiste, probabilmente, proprio in questa caratteristica degli esseri umani: in questo essere come una rana a bagnomaria. Quello che trenta o quarant’anni fa sarebbe stato considerato inaccettabile, inaccoglibile, addirittura illegale, oggi viene universalmente, se non accettato, perlomeno sopportato. Noi, oggi, sopportiamo vulnerazioni alla civiltà, alla cultura, alla morale, che mai i nostri ancestri avrebbero tollerato: ci siamo abituati, tutto qui.

Ricordo, ad esempio, perfettamente, quando Veltroni, molto tempo fa, parlava di ineluttabili società multietniche: non sto adesso a discutere se, allora, fosse un visionario o semplicemente un imbecille, ma dico che, all’epoca, venne certamente guardato dal mondo conservatore come un imbecille. Ha fatto tre anni di professionali, dicevano i benpensanti: cosa vuoi che capisca di flussi migratori? Invece, a distanza di qualche anno, eccoci qui, a convivere con una multietnicità crescente e, talora, inquietante: com’è successo? Quando ce l’hanno imposta? E’ successo un poco alla volta e nessuno ce l’ha imposta: semplicemente, giorno dopo giorno, a forza di sentir ripetere, come un mantra, che la cosa non solo era inevitabile, ma era anche buona e giusta, ci siamo ritrovati così. Lo stesso dicasi dell’ideologia gender: una volta, purtroppo, gli omosessuali erano seriamente discriminati. Poi, un poco alla volta, hanno cominciato a venire allo scoperto e a rivendicare i propri giusti diritti: oggi, però, si discute seriamente circa l’abolizione della festa della mamma, in quanto festa sessista. E’ la religione genderiana che avanza: com’è potuto accadere? Quando questa grottesca negazione perfino della logica ha preso piede? Un passino alla volta, senza fretta: e, oggi, se tu ti limiti a dire che preferisci una famiglia composta da un padre ed una madre, rispetto a quella composta da tre uomini e un cavallo, ti becchi pure dell’omofobo e del sessista. Ci si abitua: a tutto ci si abitua, purtroppo.

Dunque, prepariamoci ad una crescita esponenziale della trasgressione, perchè, ormai, per “épater le bourgeois” ci vuole la dinamite: la storia, come ci spiega i meccanismi dell’adeguamento, ci preannuncia anche l’esito del processo. Le dinamiche storiche si giocano sempre sullo stesso tavolo, che è quello sul quale si scontrano la capacità di sopportazione e l’istinto di conservazione. Come nel caso della rana di Chomsky, l’acqua si sta scaldando, poco a poco: tutto dipende dalla nostra reazione. Se sapremo saltar fuori dalla pentola, ci saranno tensioni e lacerazioni enormi, prima di tornare ad una condizione relativamente pacifica: se non ne saremo capaci, scompariremo, addormentandoci pian piano. L’alternativa, insomma, è tra una brutta vita ed una bella morte. Amen.


Troppi elogi al bilancio preventivo di Gori

45453frizz.jpgE’ il sogno di ogni amministratore pubblico (e allo stesso tempo di ogni amministrato) poter presentare ai propri cittadini una riduzione delle tasse e un aumento dei servizi. In un periodo di spending review e di tagli ai trasferimenti agli enti pubblici sembrava un sogno particolarmente impossibile anche solo da accarezzare. Ma Giorgio Gori alla sua prima prova sul campo, dato che l’anno scorso aveva ereditato quanto impostato dalla precedente amministrazione, ci prova. Nel suo bilancio preventivo non alza le aliquote delle imposte esistenti, ma anzi riduce del 5% la Tari, la tassa sui rifiuti, uno sconto da 900 mila euro che permette, in chiave politica, di tenere alta la bandiera. Curiosamente, almeno nella presentazione pubblica, non si è fatto cenno ai minori introiti, almeno iniziali, nella prospettiva di un successivo rientro negli anni successivi, previsti per gli sgravi all’insediamento di nuove attività in città, una politica oggetto di molta buona stampa, anche nazionale, ma che a questo punto, nel concreto, non sembra avrà almeno per questo bilancio grande impatto.

Già la riduzione della Tari, seppure simbolica (900mila euro per quasi 120 mila residenti, fa circa 8 euro a testa), però fa meditare. Se è stato possibile diminuire le tasse in presenza di un ulteriore taglio dei trasferimenti di 4,6 milioni vuol dire che forse si poteva fare anche l’anno scorso quando il bilancio era più ricco. E se si possono tagliare le tasse nonostante tutti i tagli alle entrate fatti finora e i nuovi che si aggiungono, riuscendo comunque a tenere botta, viene il dubbio che le lamentele degli enti pubblici sulla riduzione dei trasferimenti non siano poi così motivate.

Ma questo è il primo bilancio di Gori e forse questo preventivo generoso serve soprattutto politicamente proprio per marcare la differenza con il passato. E quindi non guardiamo indietro, ma in avanti e dentro le cifre. La prima impressione è che questo bilancio risenta del male tipico dei conti pubblici italiani. Da una parte ci sono riduzioni certe, come i mancati trasferimenti, dall’altra parte ci sono entrate compensative piuttosto aleatorie. Esponenti della stessa giunta hanno parlato di un miracolo per il risultato. Ma dato che la contabilità è una scienza laica, c’è da diffidare di un bilancio che si richiama al trascendente. Alla fine i conti vengono fatti tornare grazie ai lumini (formalmente una tassa, dall’introito previsto di 640 mila euro) e alle multe. Come principio può anche essere condivisibile quello di puntare, con misura, su meno imposte (che interessano l’intera collettività) e più tasse (pagate da chi ottiene un servizio, in questo caso cimiteriale) e più sanzioni (che colpiscono chi compie violazioni, in questo caso stradali), ma basare un bilancio in buona parte sull’aspettativa di consumi (in particolare di ceri funebri) e di una crescita dei comportamenti irregolari è ad altro rischio di scostamento dalla realtà.

E se i contribuenti decidessero che in fondo, a babbo morto, sulla luce pseudoeterna, così come di tanti orpelli funebri, si può anche fare a meno? E se gli automobilisti bergamaschi iniziassero a guidare come gli svizzeri sulle strade elvetiche? Sarà anche una questione tecnica, come ha spiegato l’assessore competente, ma vedere la voce delle multe salire in un anno da 5 a 9 milioni sembra l’auspicio di un boom della trasgressione stradale. Si giustifica che i nove milioni sono dovuti a un meccanismo contabile che impone ai Comuni di indicare le sanzioni accertate, anche se non è certa la riscossione. Appunto, non è certa, al di là del fatto che accanto alla previsione di un maggiore potenziale di sanzioni, viene inserito un fondo di svalutazione pari a 2,6 milioni euro, a garanzie delle somme non riscosse. Questo vuol dire, a stare larghi, che già ora una multa su quattro non viene incassata. Ci saranno errori corretti che gonfiano il numero, ma sarebbe interessante capire il perché degli altri mancati incassi.

Così come sarebbe interessante capire nel dettaglio cosa si intende quando si dice che quasi metà delle minori risorse versate dall’amministrazione centrale saranno recuperate (2,1 milioni) con “un utilizzo efficace delle regole contabili”. C’è il paradosso dell’architetto Gori che dà bacchettate al commercialista Tentorio che quest’utilizzo efficace non ha evidentemente fatto o è solo un altro modo di definire la tremontiana finanza creativa?

In ogni caso non va dimenticato che quello appena presentato dal Comune di Bergamo è solo un preventivo, per sua natura destinato ad avere aggiustamenti. Viene presentato come un bilancio chiaro, ma lascia qualche dubbio sulla carenza di un altro principio fondamentale nella redazione, quello della prudenza. Non è solo una soddisfazione da contabile quella di riuscire ad evitare ripensamenti: è anche la dimostrazione di un saldo controllo della situazione, per quanto possibile. I conti, anche quelli politici, si fanno a consuntivo. Se la squadra di Gori riuscirà a presentare il bilancio finale in equilibrio senza tagliare investimenti o servizi oltre a quanto previsto, senza dover cercare risorse in tasse o cessioni dell’ultimo momento e senza rimandare all’anno prossimo, magari con gli interessi, quanto sarebbe servito fare in questo, gliene sarà dato merito. Buona l’intenzione, ma un po’ di sana prudenza non guasta: troppi elogi preventivi sanno di propaganda.


Anche in moto mi fregano il parcheggio. E adesso mi arrabbio

cimmino autoSarà anche colpa del governo, se piove: però non è che proprio tutte le nostre magagne derivino sempre e soltanto dagli altri, da un essere immanente ed onnipotente che determina le nostre scrovegne così come le nostre fortune. Un pochino è anche colpa nostra. Noi Italiani siamo troppo abituati, da una mentalità un po’ da piangina e da un sistema sociale e politico che certo non ci aiuta ad uscire dal baliatico, a fermarci davanti agli ostacoli e cominciare a frignare o a maledire. Intendiamoci: mica tutti e mica sempre. Però, col passare del tempo, il costume si va diffondendo. Invece, dovremmo cominciare a pensare un pochino più alla maniera svizzera, intendendo con questo una variante civica dell’ “aiutati che il ciel t’aiuta”, ovvero il ben più montagnino “jutemose fioi” degli alpini di Cadore. Perché, se le cose non vanno come dovrebbero andare, e se è evidente che i soccorsi non arriveranno dal di fuori, le soluzioni sono solo due: o ci s’impicca al primo albero disponibile o si tenta di metterci una pezza da soli. Tertium, come al solito, non datur. Farò un semplicissimo esempio, tratto, tanto per cambiare, dalle mie personali stanze di vita quotidiana. Io, come credo sia noto tra i miei più assidui ed affezionati lettori, abito in pieno centro, dove parcheggiare è qualcosina più che un semplice problema, stante la brigantesca politica dei parcheggi messa in atto dalle nostre pubbliche amministrazioni nei decenni. Dopo anni trascorsi a giracchiare, nonostante gli spazi per residenti, intorno al mio isolato per posteggiare quella specie di portaerei con cui vado a spasso, alla fine, ho adottato un paio di soluzioni drastiche: la prima è stata quella di affittare un garage nel nuovo complesso residenziale sorto di fronte a casa mia. Vi confesso che, se proprio devo dare dei soldi a qualcuno, preferisco darli al signor Pincopallino, piuttosto che ai responsabili del mio disagio. La seconda, certamente meno dispendiosa, è stata quella di circolare quasi esclusivamente in scooter, almeno per il piccolo cabotaggio. Solo che lo scooter, per quanto poco ingombrante, lo devi pur parcheggiare da qualche parte: a suo tempo, avevo trovato un angolino perfetto, dove non dava fastidio a nessuno ed era protetto dalle intemperie, ma un solerte vigile mi ha appioppato una bella multa, perché l’angolino, anche se era, di fatto, una rientranza, tecnicamente apparteneva al marciapiede. Colpa mia: dura lex sed lex. Così, per non farmi fregare un’altra volta, ho deciso di lasciare il fido motociclo alla mercè dell’imperversare di Orione nonché delle adunche grinfie di qualche ladrone, in uno degli abbondanti parcheggi per moto che sono stati opportunamente creati, proprio di fronte a casa mia. Tutto a posto, direte voi. Invece, non è a posto per niente, porcaccia miseria: perché qualcuno dei molteplici automobilisti mordi e fuggi, che felicitano quotidianamente la strada maestra, ha pensato bene di provare a parcheggiare, in mancanza di meglio, negli spazi diagonali per le moto. E la cosa sembra essergli andata di lusso, quanto a dura lex eccetera eccetera. Siccome, secondo il detto, gli esempi trascinano, da quel giorno, il mio spazietto, sancito dal codice, è diventato terra di conquista per autovetture di ogni genere e tipo: così, da un po’ di tempo in qua, mi tocca di parcheggiare al solito posto o, paradossalmente, devo mollare lo scooter a centinaia di metri dalla magione, annullando ogni vantaggio dell’essere motomunito. Siccome, evidentemente, il fenomeno risulta sconosciuto ai soliti vigili, che pure albergano a poca distanza, dovrò adottare anch’io il sistema che vado predicando da tempo ai miei lettori: il giustiziere fai da te. Mi munirò di un eccellente cacciavite e provvederò, ogni giorno, a rigare disciplinatamente le due fiancate delle macchine in divieto: così, visto che gli esempi negativi ormai sono pane quotidiano, mi auguro di lanciare una vera moda. Sono sicuro che questa mia iniziativa servirà a molteplici scopi: farà risollevare le sorti economiche dell’industria orobica della carrozzeria, produrrà un certo qual moto di soddisfazione nei cittadini e, dulcis in fundo, renderà i parcheggi per motocicli zona perigliosissima per gli abusivi. Certo, sarebbe stato meglio poter contare sull’autorità costituita, ma qui siamo a Bergamo, mica a Lugano. Jutemose fioi…


Il declino del giornalismo, orfano anche del marciapiede

giornalismoL’editoriale con cui Indro Montanelli invitò gli elettori a turarsi il naso e a votare Dc fece epoca. Correva l’anno 1976 e si disse, anche se nessuno poteva garantire una controprova, che grazie a quell’appello la Balena bianca riuscì ad evitare il sorpasso da parte del Partito comunista. Domanda: c’è qualcuno, oggi, che possa ripetere una “impresa” del genere?

La risposta è un semplice: no. Sono passati quasi quarant’anni, certo. E di Montanelli, purtroppo, ce n’è stato (e ce ne sarà) uno solo. Ma c’è una evidenza che non si può negare: giornali e giornalisti non contano più nulla. Sono consegnati, in buona parte per loro responsabilità, ad una sostanziale irrilevanza. La controprova è di questi giorni. Nel suo editoriale d’addio, il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli ha consegnato ai lettori apprezzamenti poco lusinghieri nei confronti di Matteo Renzi (“caudillo” e “maleducato di successo”) e si è augurato che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non firmasse il via libera all’Italicum. Nelle stesse ore, contro il premier e il suo decisionismo si scagliava anche il direttore di Repubblica Ezio Mauro (caso inedito), aggiungendo la sua voce al coro della stampa critica che vede schierati con piglio guerresco anche testate come Il Fatto Quotidiano a sinistra e Il Giornale e Libero a destra.

Bene, vi risulta che il Giovin Signore di Firenze abbia fatto un passo indietro o che il Capo dello Stato abbia rifiutato di apporre la sua firma autografa? Manco per sogno, alla faccia di cotanto fuoco di sbarramento. Segno che il peso della stampa, e dei suoi massimi interpreti, è davvero ridotto ai minimi termini. Inutile nascondersi dietro la “maleducazione” di Renzi, peraltro piuttosto evidente. C’è molto di più, e di peggio, se la classe politica e i cittadini non attribuiscono più alcuna importanza agli organi di informazione. Evidentemente, non li ritengono più credibili e, quindi, affidabili. Monsieur de La Palisse, forse, non avrebbe potuto dir meglio. Tuttavia, la categoria (chi scrive ne fa parte, naturalmente, anche se aborre lo spirito corporativo) non pare rendersene conto. Eppure, basta guardarli (se non si ha il “privilegio” di viverli dal di dentro) i giornali per capire se non tutte almeno le principali cause di un così marcato distacco. Anzitutto, c’è la abissale distanza dai temi e dai problemi che stanno a cuore ai lettori. E poi ci sono le singole declinazioni. Per esempio, ci si impanca a censori della politica, salvo poi riempire pagine e pagine di puro chiacchiericcio autoreferenziale. La cronaca nera e giudiziaria non si limita più a raccontare i fatti nudi e crudi ma si inoltra, guidata da una irrefrenabile morbosità, nei meandri più reconditi della vita delle persone, non fermandosi mai di fronte a niente e a nessuno. E le pagine cosiddette di evasione? Divagazioni intellettuali, soffietti pubblicitari mascherati da notizie, sfoghi per cronisti impossibilitati a dare il meglio di sé nelle sedi più consone.

Sempre più rinchiusi nelle redazioni, costretti dalle aziende ma anche dalle proprie pigrizie a passare le loro giornate davanti al computer, i giornalisti faticano sempre più a mantenere il contatto con la realtà. Quel che si chiamava marciapiede oggi non esiste più. Facebook e Twitter sono le nuove strade su cui ci si illude viaggino le notizie. Basta una battuta, una provocazione, una immagine curiosa e il gioco è fatto. Tutto diventa leggero, impalpabile. E tutti, non fosse che per la capacità di buttarsi nella rete, diventano per ciò stessi comunicatori. O giornalisti, che tanto è lo stesso. Soprattutto se chi si fregia del titolo asseconda, consapevole o no, lo scadimento della sua qualità professionale. Quando tutto è uguale, quando non si colgono le differenze, la moneta cattiva scaccia quella buona. Salire sul piedestallo può forse regalare l’ebbrezza di guardare gli altri dall’alto in basso. Ma non si sfugge alla realtà. Montanelli ha vissuto a lungo e ne ha viste tante. Per sua fortuna, si è risparmiato di assistere all’agonia del suo amato mestiere.


Visti i black bloc, forse 100 anni fa era meglio schierarsi con l’Austria

No ExpoEsistono due cimmini: uno è quello che scrive queste rubrichette e l’altro è quello normale, che va a fare la spesa, guarda i telegiornali, litiga con sua mamma e passeggia in montagna. Credo che chiunque scriva su di un giornale sia, in fondo, afflitto da questa schizofrenia, se possiede un briciolo di senso di responsabilità. Altrimenti, se si dovessero commentare gli avvenimenti di questa porcaccia vita, senza questo filtro, si scriverebbero spesso pericolose corbellerie: uno, quando scrive, dovrebbe sempre pensare tre volte almeno a ciò che significano le sue parole. L’esempio di venerdì è lampante: se non possedessi questa fortunata capacità dissociativa, se non fossi, insomma, un borderline della scrittura, avrei semplicemente riempito una cartella di contumelie, insulti ed invocazioni a Bava–Beccaris. Già, le immagini dei bambinetti che cantano in coro per l’amato presidente, che fa tanto Corea del Nord, mi hanno rivoltato le budella: se, poi, in un delirio scoutistico, arrivano a cambiare perfino le parole dell’inno nazionale, stravolgendone, in sciropposa chiave catto-buonista, il significato originale, le balle iniziano a girarmi a mille. Solo una gigantesca albagia, soltanto un millenarismo disgustoso possono modificare un inno nazionale: solo gli idioti e i pazzi sognano di cancellare i monumenti eretti in periodi a loro sgraditi. Solo un deficiente sbozza via le corna del Mosè di Michelangelo, perché gli ricordano i tradimenti di sua moglie. Ergo, se avessi scritto dell’inaugurazione dell’Expo a ferro caldo, mi sarebbero uscite dalla tastiera soltanto cose insensate, dettate dalla pazza e bilicante rabbia. Immaginatevi, dunque, cosa avrei potuto concepire, per commentare il rebelotto formidabile messo in piedi, nel centro di Milano, da quei farabutti vestiti di nero che si fanno chiamare “Blackbloc”. Avrei invocato le cannonate del ’98, il Terzo Celere padovano, i tre squilli, la cavalleria umbertina: il mio alter ego, quando lo fanno inverminare, riesce ad essere estremamente pittoresco, nelle sue invettive. Ecco, se non scrivessi sui giornali, avrei minuziosamente indicato quali ossa, e in quale esatto ordine, avrei fracassato all’imbecille che, intervistato da una televisione, inneggiava alla devastazione, con i toni e l’eloquio di un ebefrenico sotto psicofarmaci. Ed avrei tirato in ballo i genitori dei teppisti, additandoli al pubblico ludibrio, all’esecrazione e al ritiro della patria potestà. Avrei rammentato a tutti quei cittadini democratici che plaudono ad ogni poliziotto incriminato per tortura che, per ogni poliziotto incriminato per tortura, ce ne sono cento feriti, sputacchiati, insultati, malmenati, provocati. E che, a forza di subire dalla teppaglia, a forza di arrestare gente che la magistratura rimette subito fuori con tante scuse, a forza di estintori in testa, di camionette bruciate, di colleghi massacrati, purtroppo, può pure capitare che ti saltino i nervi. Specialmente se ti senti solo: se sei un argine messo in mezzo ad una strada, tra dei delinquenti scatenati e la gente perbene. Quella stessa gente perbene che non ti ringrazia mai, ma, anzi, se può, ti schifa e ti denigra. Per fortuna che possiedo questa capacità schizoide, altrimenti, chissà cosa potrei scrivere, vedendo bruciare le automobili dei cittadini, e pensando a come andranno al lavoro lunedì! Per non parlare dei commenti: ce ne fosse uno che colloca la teppa milanese nel suo giusto contesto.

Quelli che hanno distrutto via Carducci sono di tutto, Blackbloc, nazisti, fascisti, teppisti, palombari-ciclisti, antagonisti, no-expo, no-tav: tutto tranne ciò che sono veramente, ossia delinquenti che provengono dai centri sociali, dalle pieghe più nascoste e più coccolate della sinistra estrema. Anarchici, comunisti: mi dispiace perfino usare queste parole, che, un tempo, indicavano gente che ci credeva e, oggi, mascherano semplicemente un vuoto neurale, una rabbiosa demenza. I comunisti, gli anarchici di una volta, erano, in certo qual modo, idealisti: credevano in un mondo migliore. Si sbagliavano, ma meritano il rispetto e la considerazione che si devono a chi lotta per una causa che ritiene giusta. Questi sono solo spazzatura. Per fortuna, non scrivo quel che ho pensato: meno male che possiedo questo servofreno psichiatrico, davvero! Sennò, mi chiederei, vi chiederei: ma che razza di posto è diventato questo, in cui viviamo? In cui quattro cialtroni possono devastare il centro di Milano, con la polizia che può soltanto “contenerli”, per tema di essere immediatamente messa sotto processo. Che razza di paese è l’Italia? Un posto in cui si cambia l’inno nazionale per permettere ad un politico barzellettaio di fare giochini di parole e felici calembour, in cui ci si fanno i “selfie” con le auto bruciate. Ve l’avrei chiesto e me lo sarei chiesto: dove diavolo siamo finiti? E, visto che ci siamo, a cento anni esatti da quel maggio del 1915, se non avessi un forte senso di responsabilità, che mi deriva dal mio ruolo, di fronte a quel che è diventata questa povera Italia, mi verrebbe sicuramente da dire che i nostri fanti sono andati all’assalto nella direzione sbagliata: avrebbero dovuto schierarsi con gli Jaeger austriaci. Oggi, perlomeno, saremmo un Paese civile. Gott erhalte, Gott geschűtze…Sia benedetta la schizofrenia!


Perché l’Occidente non farà mai una vera guerra all’Isis

isis-vicenzaQuando sento parlare della minaccia dell’Isis, quando ascolto certe cicalate dei nostri politici ultranalfabeti, quando mi beo dei telegiornali, in cui si paventa un attacco missilistico all’Italia da parte del Califfato o di qualche suo succedaneo, in me lo storico militare sghignazza, demoniaco. Ma vi rendete conto delle panzane gigantesche con cui vi tengono sulle spine? Ricordate la “strategia della tensione”, inventata da Feltrinelli? Beh, quella, al confronto di questa minaccia, era una seria analisi dei fenomeni. Perché, ce l’avete presente il potenziale militare dell’Isis? Li avete visti, coi loro gipponi armati di mitragliere russe di terza mano? Avete mai visto volare un loro elicottero d’assalto? Vi risulta che possiedano sistemi d’arma più sofisticati di qualche missile filoguidato di vecchia generazione? Avete mai sentito sfrecciare sulle vostre teste un caccia multiruolo con sulle ali le insegne nere del Califfo? Ve lo dico io: no. Semplicemente perché non ne possiedono.

Possiedono una notevole massa di manovra e sono, personalmente, intrepidi: ossia non hanno paura di infliggere e ricevere la morte. E qui finisce l’Isis, dal punto di vista militare. Siccome, da un punto di vista religioso, rappresentano una minoranza all’interno dell’Islam, e, da un punto di vista etnico, spesso appaiono come brutali invasori alle popolazioni, non possono nemmeno contare sull’elemento importante del supporto locale: governano col terrore e governeranno finché duri il terrore. Questo, in un certo senso, faciliterebbe il compito dei militari: nel caso dell’Iraq, si rese necessaria l’invasione di terra, mentre, con l’Isis, nella deprecabile eventualità di una guerra, basterebbe un’azione, diciamo così, tecnologica. Come procedere in questo caso? Facciamo finta che il Califfato non sia un prodotto della politica americana, che ha destabilizzato, scientemente o meno, tutto il mondo islamico: immaginiamo che, davvero, la Nato e il Pentagono ritengano l’Isis una minaccia e non una risorsa. Come dovrebbero agire? Tanto per cominciare, visto che quello che fa girare il mondo sono i soldi, dovrebbero creare, intorno allo stato islamico del’Iraq e della Siria un solido muro, fatto di embarghi, di taglio delle relazioni, di mancate commesse petrolifere. E lo stesso, temo, andrebbe fatto con tutti gli stati wahabiti e salafiti, che, viceversa, intrattengono ottimi rapporti commerciali con l’occidente e, in primis, con gli Usa. Siccome immagino che, al pari dei nostri politicanti intelevisionati, pochi tra voi s’intendano di ‘sharia’ e di ‘tawhid’, vi suggerisco di andarvi a leggere come la vedono, ad esempio, i Sauditi, dal punto di vista dei diritti umani e del destino politico dell’Egitto. Così, poi, capirete meglio l’origine delle balle che vi propinano. Una volta chiusi i rubinetti, si tratterebbe della campagna militare in senso stretto: però, vedete, la guerra, negli ultimi centocinquant’anni è cambiata parecchio, anche se la nostra percezione della guerra è ferma a Solferino. Una volta, la guerra consisteva in una campagna di qualche mese: si conquistava il campo, sconfiggendo il nemico, e si firmava un trattato, che concedeva ai vincitori quello per cui avevano combattuto. Poi, sono venute le guerre totali: sempre più totali. Il loro scopo era quello di cambiare il senso della storia: alcuni stati sparivano, altri se ne creavano, altri ancora si spezzettavano o si componevano. Oppure, esse miravano all’imposizione di un’ideologia, di un nuovo ordine mondiale. Poi, sono venute le guerre per interposta persona: la Corea, il Vietnam, scampoli di guerra calda, nel contesto di una guerra fredda. Oggi, la guerra non serve ad altro che a garantire il mantenimento o l’implemento di interessi politici ed economici: come dire che le guerre servono a far temere alla gente guerre peggiori. Si tratterebbe, a un dipresso, di guerre pacifiste, determinate dal desiderio di evitare catastrofi incombenti. Noi, anzi, viviamo in un’epoca in cui tutte le più scellerate schifezze vengono gabellate per iniziative umanitarie: siamo figli di un’ipocrisia morale che incide sul pensiero, sulla comunicazione, sul lessico. Per questo, nessuno si sognerebbe mai di dire che l’Isis, come Al Qaeda, come gli stati canaglia e come i dittatori di recente sterminati dalle crociate occidentali, sono semplicemente funzionali a questo nuovo modo di fare ed intendere la guerra. Per questo, non verrà mai fatta una guerra vera, vecchio stile, contro questa terribile e risibile insieme, minaccia dell’Isis: perché durerebbe due giorni, checché ne dicano gli analisti, guarda caso tutti prezzolati dal medesimo committente. E poi? Bisognerebbe inventarsi un’altra minaccia globale, per giustificare nuove paure e nuovi guadagni: e le minacce globali non crescono mica come funghi. Adesso, per concludere, provate ad immaginarvela, questa guerra terribile: satelliti che ti dicono perfino quando il nemico è alla toilette, missili a lunga, media, breve gittata, carri pressoché inarrestabili, cannoniere volanti, soldati cablati, puntamento laser. Tutte cosette che ci sono costate migliaia di miliardi, con la scusa di una possibile guerra. Però, nessuno le usa: rimangono ad impolverarsi nei loro depositi. Se l’Occidente le usasse, l’Isis sparirebbe, come vi dicevo, in pochi giorni. Ma l’Occidente non le userà, perché sono armi concepite per non essere usate. Almeno, non contro il vero nemico.


Orio vola. E forse è il caso di guardare anche a Ovest

orioE dire che a Milano, dopo vertici e polemiche a perdifiato, hanno pure partorito un “Decreto Linate”, ad opera di quel genio del già dimenticato ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, per cercare di mettere carburante nei serbatoi dello scalo milanese… Cinque mesi dopo, i numeri fanno strame di tante velleità regolatorie. Malpensa, penalizzata dallo spostamento di una serie di collegamenti, perde più traffico passeggeri di quanto ne guadagni Linate, a riprova che la gestione dell’attività aerea non si può fare a tavolino. E la conferma l’abbiamo in casa nostra. Orio al Serio da ottobre scorso (guarda caso, ma è solo una coincidenza, quando venne firmato il decreto), ma ancor più nei primi tre mesi di quest’anno, ha messo letteralmente il turbo. Tant’è che il sorpasso su Linate, più volte inutilmente tentato in passato, è avvenuto. Lo scalo bergamasco, a furia di crescere con tassi a doppia cifra (+21% a gennaio, +18% a febbraio, +16% a marzo), è arrivato sul podio ed ora è a pieno merito il terzo aeroporto italiano per traffico passeggeri. A scapito proprio di Linate che nel medesimo periodo è cresciuto di un misero 2%.

C’è già chi obietta che nei prossimi mesi assisteremo ad un controsorpasso, visto che dal 1° maggio Milano diventerà caput mundi grazie alle mirabilie di Expo. Sarebbe grave se così non fosse perché significherebbe un clamoroso flop dell’evento a cui sono state dedicate risorse e attenzioni fuori del comune. Ma se andiamo al di là del contingente, l’analisi dei trend di traffico offrono spunti di riflessione con cui bisognerà misurarsi.

Anzitutto, quanto è successo negli ultimi mesi sancisce una verità che è banale per gli addetti ai lavori ma non per i tanti, politici in testa, che affrontano questi temi con superficialità. E cioè che sono le compagnie che fanno la fortuna degli aeroporti e non viceversa. La “fortuna” di Orio è stata di aver saputo assecondare le irrefrenabili mire espansionistiche di Michael O’Leary e della sua Ryanair (che poi ha tracciato la rotta per altri). E quello che un tempo era considerato un traffico di serie B, per saccopelisti o poco più, dopo la pesantissima crisi economica, si è rivelato essere un filone d’oro. Perché il viaggio “no frills” (senza fronzoli) è diventato la modalità normale. Altro che “business class” o vizi vari. Volare low cost oggi è una necessità, se non un elemento di competitività per chi è costretto a ridurre sempre di più i margini. E allora le compagnie tradizionali, Alitalia come Air France e tutto il resto, fanno sempre più fatica a competere. Perché hanno modelli organizzativi (e quindi costi e prezzi) rigidi che non consentono la flessibilità che è invece l’atout dei vettori più giovani e intraprendenti. Linate e Orio sono l’emblema dei due modelli. Il primo galleggia, il secondo cresce come nessun altro in Italia e, anzi, non passa settimana senza che non venga annunciato qualche nuovo collegamento.

E qui veniamo ad una seconda osservazione tutta bergamasca. Questi tassi di sviluppo, di gran lunga superiori alle più ottimistiche previsioni degli stessi addetti ai lavori, ripropongono con forza il tema della vocazione futura dello scalo orobico e delle conseguenti scelte da adottare dal punto di vista strategico. Il 2015 potrebbe segnare un altro traguardo storico perché le possibilità che venga superato l’incredibile tetto dei 10 milioni di passeggeri sono molto elevate. Finora, e giustamente, si è sempre cercato di mantenere sia il traffico passeggeri che quello merci (che garantisce margini più ampi). Ma, a fronte di una struttura che ha innegabili, e sempre più faticosamente sopportati, limiti ambientali, la coesistenza è destinata a farsi complicata. Fino ad imporre, magari non domani ma certo in un futuro non lontanissimo, una scelta.

E’ noto quale è la risposta che si sta cercando di perseguire. Gli occhi sono puntati su Montichiari. Poche settimane fa, a sorpresa, è arrivata la doccia fredda della rottura delle relazioni con i possibili partner di Verona-Venezia. Nulla è perduto, e anzi c’è chi è convinto che, per reciproco interesse, dopo la tempesta tornerà il sereno. Ma è bene, con i numeri che abbiamo visto, non precludersi nessuna strada. Se la via dell’Est si rivelerà impervia, c’è pur sempre una strada dell’Ovest che può rivelarsi non meno redditizia. Quando ci sono di mezzo gli affari i discorsi territoriali (meglio Brescia o Milano?) o politici lasciano il tempo che trovano. Il pragmatismo prima di tutto, quindi. E visto che dalle parti di Sea non si naviga a vele spiegate forse val la pena provare a fare due ragionamenti.


Lavori a Monterosso, i conti del Crapa fanno impressione

ponteIl Crapa sui numeri non sbaglia mai: potete ironizzare sulla sua tenuta alcoolica o sul suo uso disinvolto delle lingue straniere, ma, in materia di conti, il Crapù me lo dovete lasciare stare. Qualcuno di voi, forse, ricorderà un mio articoletto sulle brillanti considerazioni craponiche circa i tempi di ripristino del cavalcavia di Monterosso: reduce da un lavoro nelle patrie autostrade, il Crapa commentava dicendo che, in autostrada, un ponte così si getta in una notte. L’altro giorno, ragionavo con lui sui lavori di ricostruzione del ponte del rondò di Monterosso e dicevo con sollievo che, dopo quattordici mesi, finalmente, l’incubo sembra stare per finire. Insomma, sia pure con un ritardo indegno perfino del ministero dei lavori pubblici del Burkina-Faso, la questione si sta avviando a felice soluzione. “Certo – mi dice il Crapa con un lampo maligno negli occhietti cerulei – e a noi i soldi chi ce li ripaga?” Com’è noto, il Crapa vive al Monterosso, perciò, quel “noi” va interpretato come indicativo dei tapini che, per quattrodici mesi, hanno dovuto fare le gimcane per tornare al covile.

Vi ripropongo, con parole mie, il ragionamento del Crapù: quanti abitanti di Monterosso e delle zone limitrofe, che si muovano abitualmente in automobile, sono stati interessati dal problemino? Diciamo tremila, così, a spanne? Facciamo conto che ognuno di loro abbia dovuto allungare il proprio percorso anche solo di due chilometri al giorno: sono seimila chilometri. Adesso, moltiplichiamo questi seimila chilometri per i 423 giorni di disagio (alla data in cui scrivo): cominciano ad essere numeri interessanti. Sono due milioni e mezzo di chilometri, metro più metro meno: un’auto che percorra dieci chilometri in media con un litro, nel ciclo urbano, spende circa quindici centesimi per fare una deviazione quotidiana, senza contare bazzecole come l’usura o l’inquinamento. Fanno 375.000 euro, che il Monterosso ha elargito alla premiata ditta “Ritarda & Temporeggia”.

Sorvolo sulle decine di migliaia di bergamaschi che hanno dovuto affrontare la bissaboba una sola volta, due, tre, dieci volte, in questi maledetti quattordici mesi: su di loro, perfino il Crapa, pietosamente, ha taciuto. I numeri, però, sono numeri: questo incredibile cincischiare con un’opera pubblica ha significato, concretamente, cincischiare con i nostri soldi. Ossia, buttare nel cesso centinaia di migliaia di euro dei cittadini bergamaschi: certo, a quindici centesimi alla volta, ma, alla fine, queste sono le cifre. Cambia poco se un uomo si dissangua in tre giorni o in cinque minuti, se, alla fine, il risultato è che tira la gambetta! Il Crapa, implacabile, mi sciorina cifre e considerazioni: quanto costa l’intervento di restauro del ponte? Più o meno di quanto ci è costata la sua dilazione? Come l’hanno fatto adesso, non potevano farlo un anno e due mesi fa? E, adesso, questi soldi chi ce li ridà? La risposta è talmente ovvia che potrei pure risparmiarvela, ma, siccome la parola “nessuno” è una di quelle che, da Omero in poi, va per la maggiore, quando si tratti di inventarsi una storia, ve la riproporrò: nessuno. Nessuno ripaga mai i cittadini per i disservizi, i ritardi, le mille e mille piccole jatture che derivano dal vertice e ricadono sulla base: perché il nostro tempo, la nostra vita, perfino la nostra benzina, contano zero, per chi è abituato all’algida astrattezza dei grandi numeri. E, stavolta, mercè la stratosferica abilità del Crapù in materia di conticini, parliamo proprio di grandi numeri.

Provate un po’ a pensare diverso, per una volta: trasformate il vostro tempo in denaro sonante, come fa Paperon de’Paperoni negli albi Disney. Calcolate quanto tempo perdete a cercare parcheggi che non esistono: immaginate quanto risparmiereste se quel semaforo non fosse mal sincronizzato, se quella strada non fosse chiusa per lavori, se non doveste deviare, svoltare, tornare indietro. In un concetto, se le cose andassero come devono andare. Quattordici mesi di ritardo per costruire un ponte sono costati alla comunità 375.000 euro (in realtà, molti di più, ma voglio essere magnanimo) soltanto in benzina: provate a moltiplicare questa cifra per tutte le volte che, ad ognuno di voi, è toccato di cambiare strada o di fare il giro dell’oca per un lavoro malfatto o in ritardo, perché con la neve nessuno ha gettato il sale o perché è stato gettato quando non nevicava. Adesso avete capito cosa voglia dire ragionare per grandi numeri? Vi è chiaro quanto ci costi una cattiva amministrazione e quanto potrebbe farci guadagnare l’efficienza? Perfetto: adesso siete tutti quanti adepti della Crapocrazia, la democrazia del Crapa. Un modo, forse, un tantino arido di ragionare sui bisogni di una comunità: come diceva un noto benefattore dell’umanità, dateci il pane, ma dateci anche le rose. Però, come dico io, prima dateci il pane: per le rose possiamo pure aspettare. Questa analisi sociale, basata sui numeri, non tiene conto dei valori, dell’identità, della solidarietà e di tutti gli altri blabla di cui si riempiono la bocca i politicanti nelle loro omelie, certo: ma è mille volte meglio basare la democrazia sui numeri che sulle chiacchiere. Perché ai matematici i conti tornano sempre. Ai ciarlatani, invece, quasi mai.


Cari risparmiatori, è arrivato il momento di osare di più

Piazza AffariI “Bot people” già in via d’estinzione stanno per finire definitivamente nell’archivio del risparmio. Con il collocamento dei Bot annuali a un rendimento lordo dello 0,013% si sarebbe ormai a un rendimento reale negativo per l’investitore se un provvidenziale decreto di gennaio non avesse stabilito che le commissioni chieste dall’intermediario devono ridursi in modo tale da non farlo andare sotto zero. In ogni caso, anche se l’inflazione è minima (il tasso di marzo è allo 0,1%), il rendimento reale non basta nemmeno a difendere il potere d’acquisto.

A dire il vero c’è ancora chi invidia i tempi di quando i Bot assicuravano tassi a due cifre, anche se l’inflazione ancora maggiore erodeva in maniera invisibile l’investimento. Si perdevano soldi, ma almeno c’era l’illusione. Adesso nemmeno quella: si perde meno, ma i rendimenti sono insignificanti a prima vista. Almeno fino a quando i tassi resteranno intorno allo zero è difficile pensare che qualcuno possa guardarli come investimento. Potranno servire come parcheggio di liquidità, considerato che danno ancora qualche centesimo in più rispetto ai conti correnti, o per evitare le tasse di successione, ma di certo non possono interessare più chi dai titoli di Stato si aspetta un reddito aggiuntivo.

Eppure secondo un’analisi di Prometeia, nel 2014 quasi il 45% della ricchezza finanziaria degli italiani (non si considerano gli immobili), poco più di 4 mila miliardi (una stima leggermente più alta di quella elaborata da Bankitalia) , era parcheggiata in liquidità o obbligazioni, che ormai assicurano rendimenti minimi. Le previsioni sono di un ulteriore calo del peso dei bond, che scenderanno nel 2017 al 10,4% dal totale, rispetto al 21,2% di dieci anni prima. Cresceranno invece strumenti gestiti e azioni, che passeranno dal 56,6% al 67,2%. Questo farà perdere un po’ la specificità italiana, avvicinando il portafoglio degli investimenti delle famiglie alla media europea, ma richiederà un cambiamento di mentalità: per avere un minimo di rendimento sarà necessario assumere qualche rischio in più. E i risparmiatori non sono pronti a questo nuovo scenario, perché la stessa Prometeia stima che tra tre anni sarà comunque ancora al 40% la quota di ricchezza delle famiglie allocata in investimenti a rischio minimo (e pari rendimento), tra liquidità e obbligazioni.

Con il costo del denaro ai minimi storici, non solo in Europa, e un’inflazione zero si sono adeguati al ribasso anche i titoli di Stato e le obbligazioni societarie. In una situazione internazionale che vede sempre maggiore liquidità in circolazione, si è aggiunto l’inizio del quantitative easing che comporta 60 miliardi di euro ogni mese in cerca di allocazione e allo stesso tempo una riduzione degli spread che riduce l’appetibilità dell’investimento obbligazionario.

In prospettiva il denaro si sta dirigendo verso Piazza Affari: questo ha portato ad un rialzo delle quotazioni e un ritorno d’interesse per nuovi collocamenti e per le prossime privatizzazioni (Poste Italiane nel secondo semestre, quindi Ferrovie dello Stato e Enav). C’è però un rischio: quello di una bolla speculativa.

 


Tutte le verità che Brebemi dovrebbe raccontarci

BrebemiDa luglio a dicembre il traffico è stato di 14 mila veicoli al giorno, di cui 8 mila effettivi (calcolati una sola volta). Da gennaio ad aprile il flusso è cresciuto del 17 per cento. Non piacerà al presidente Francesco Bettoni, ma un’autostrada a tre corsie che genera simili volumi non può che essere definita un flop. Tale è, al momento, e chissà per quanto tempo ancora se non intervengono radicali correttivi, la cosiddetta Brebemi, la direttissima Milano-Brescia che si appresta a compiere il suo primo anno di vita. I vertici della società hanno sempre fatto una certa resistenza a diffondere i reali numeri del traffico, ad onta di ciò che chiunque può vedere con i propri occhi sia percorrendo in auto l’autostrada che limitandosi ad osservarla nel lungo tratto in cui la ferrovia affianca l’arteria stradale. La desolazione è nelle cifre rese note in occasione dell’approvazione del bilancio. Quando è emerso, come dato che ha attirato le principali curiosità, che nei primi cinque mesi di gestione (2014) i costi operativi hanno superato i ricavi, con una perdita d’esercizio di 35 milioni. Si dirà, con valide ragioni, che conti così in sofferenza sono normali in avvio di attività e soprattutto in una situazione in cui mancano una serie di collegamenti accessori destinati a dare linfa (leggasi traffico) alla Brebemi. Entro maggio arriverà la Tangenziale esterna di Milano, per esempio. Ma converrà non farsi prendere per il naso da chi sta tanto affannosamente quanto coraggiosamente cercando di difendere una grande opera che, pensata in anni lontani e immaginata sulle ali della grandeur che faceva immaginare straordinarie e magnifiche sorti e progressive, si sta rilevando, come minimo, sovradimensionata rispetto alle necessità. Forse, anziché vestire gli incongrui panni del don Chisciotte, il presidente Bettoni dovrebbe sforzarsi di lanciarsi in una operazione verità, mostrando tutti i limiti e le criticità dell’autostrada (quelli immaginabili e quelli subentrati, a vario titolo, a cantiere aperto), primo presupposto per valutare come muoversi per il futuro. Tanto più se si invoca, come fosse dovuto (ma non era un project financing al 100 per cento?), un congruo intervento dello Stato per centinaia di milioni. I vertici di Brebemi provino a chiedersi, anzitutto, se le loro tariffe, così marcatamente più elevate rispetto a quelle praticate dai concorrenti, non abbiano un peso significativo, se non determinante, nello scoraggiare chi deve utilizzare l’autostrada tutti i giorni per ragioni di lavoro. E si domandino se hanno dato vita a tutte le iniziative (di comunicazione e marketing, anzitutto, ma anche di cosiddetto “feederaggio”: convenzioni, accordo di partnership, ecc) in grado di portare acqua, come tanti rivoli, al fiume. Piuttosto che minacciare di restituire la concessione, Bettoni abbassi i toni (e le tariffe) e si disponga a confrontarsi con chiunque possa dargli una mano, in Lombardia come a Roma. Basta rodomontate, basta veline sapientemente diffuse per gettare fumo negli occhi, basta continuare a guardare nel giardino altrui. Il mito del privato più efficiente e moderno del pubblico con la Brebemi ha fatto fiasco. Prima se ne prende atto (non è uno scandalo ricevere soldi pubblici, l’opera è di interesse collettivo) e prima si riuscirà, forse, ad individuare la svolta per un’autostrada altrimenti seriamente indiziata di diventare l’ennesima cattedrale nel deserto.