Ubi Banca, la ragione in più per diventare spa

Ubi BancaA questo punto nulla osta a che sabato come da convocazione e da previsioni iniziali, Ubi Banca celebri a Brescia la sua assemblea e si trasformi in società per azioni, se così vorranno i soci. La terza sezione del Tar del Lazio ha respinto la richiesta di sospensiva cautelare della circolare della Banca d’Italia avanzata da alcuni soci, convocando l’udienza per la discussione al 10 febbraio, quando si terrà la riunione relativa anche ad altri ricorsi che la richiesta di sospensiva non l’hanno presentata. Quindi quest’oggi, giovedì 8 ottobre, quando si riuniranno i consigli di Ubi, convocati prudenzialmente in precedenza proprio per valutare le decisioni del Tar, non resterà che prendere atto che la situazione legislativa è esattamente quella di quando è stata indetta l’assemblea e che non ci sono ragioni per cambiare il programma.

Quella del Tribunale infatti non è stata una “non decisione”, ma ha stabilito quale è la normativa in vigore e quindi con quali regole si può tenere l’assemblea di sabato. A dire una qualsiasi Popolare un’assemblea per la trasformazione in società per azioni avrebbe potuto tenerla anche se non ci fosse stato l’obbligo di lasciare lo status di cooperativa entro la fine del 2016. E Ubi avrebbe potuto tenerla anche in caso di sospensiva dell’intera riforma delle Popolari. Il chiarimento necessario, arrivato in conseguenza della non sospensiva del Tar, è che sabato sarà possibile la limitazione del diritto di recesso deliberata in 350 milioni, pari al 5% del capitale e concessa dalle disposizioni attuative della Banca d’Italia. Se la norma fosse stata sospesa, il gruppo si sarebbe esposto al rischio di dover comprare a circa 7,2 euro l’una tutte le azioni presentate dai soci non favorevoli all’operazione. Considerato che ieri, mercoledì 7 ottobre, la quotazione in Borsa di Ubi era di 6,64 euro, il “premio” garantito di una sessantina di centesimi rispetto a quanto un’azionista potrebbe ottenere sul mercato, avrebbe potuto alimentare qualche speculazione ed esporre la banca a un improvvido depauperamento patrimoniale. Forse il rischio non sarebbe stato così alto – ma lo si saprà solo quando il diritto verrà effettivamente esercitato – e l’assemblea si sarebbe potuta tenere anche con diritto di recesso illimitato. In ogni caso l’udienza dal Tar ha tolto anche questa preoccupazione.

Quello che il Tribunale amministrativo regionale non ha potuto cancellare, e che inevitabilmente sarà il tema dell’assemblea, sono i dubbi sulla tempistica scelta da Ubi, oltre ovviamente alle perplessità, di fatto accademiche, sulla bontà di una legge, che però la banca non ha scelto, ma si trova a dover rispettare. Senza entrare nelle sterili elucubrazioni sul fatto che questa imposizione possa essere tutto sommato gradita a parte dell’azionariato, rompendo gli indugi e i tabù della intoccabile cooperativa, o sia una prevaricazione, la concreta discussione riguarderà la decisione di Ubi di trasformarsi subito in Spa e non aspettare, come sono orientate le altre Popolari, la primavera o addirittura l’autunno 2016.

La prima obiezione è che, in caso di accoglimento dei ricorsi o di qualsiasi modifica della legge, c’è la possibilità che Ubi si trovi ad essere una società per azioni, anche se avrebbe potuto evitarlo. Non si vedono i motivi di possibile impugnazione di una libera delibera dell’assemblea straordinaria secondo la normativa in vigore e quindi Ubi si sarebbe in quel caso effettivamente condannata a una natura che ufficialmente non desiderava.

Ma nel caso, non improbabile, che in futuro la normativa non cambi, il risultato di rinviare la trasformazione sarebbe stato per la banca quello di trovarsi in una situazione di precarietà e di debolezza di fronte, ad esempio, alle possibili aggregazioni. Risolvere la questione “cooperativa o spa” vuol dire trovare almeno un punto fermo in un mondo bancario dove anche le regole apparentemente stabili sono in continuo movimento. Ma Ubi ha una ragione in più, rispetto alle altre popolari, per una trasformazione precoce ed è quella del rinnovo cariche in programma in primavera. Appare un controsenso rinnovare con le logiche della cooperativa un consiglio che dopo pochi mesi si troverebbe a guidare una società per azioni. Più lineare sarebbe affidare una spa a un consiglio nato con le regole della spa. Su questo però non è d’accordo chi ritiene che in una cooperativa con il voto capitario, dove ogni socio vale un voto, possa sperare anche di conquistare il vertice, nella consapevolezza che in una spa, dove si contano le azioni, non avrà più alcun peso. Che questo vada nella direzione dell’interesse della banca è tutto da dimostrare: per sapere se questo scenario è veramente possibile, non c’è che da aspettare l’esito del voto.

 


Perché è tempo di tagliare i privilegi ingiustificati

calcolatrice - fisco - tasseSe la politica avesse dedicato ai problemi dell’economia reale un centesimo dell’attenzione prestata a una riforma importante, ma così lontana dagli interessi della collettività, come quella del Senato, forse la ripresa potrebbe essere più consistente. E’ però auspicabile, adesso, che nelle prossime due settimane ci sia maggior concentrazione sulla preparazione della “manovra” che deve essere presentata entro metà ottobre, tirando le somme su quanto ipotizzato negli ultimi mesi, in modo da vedere cosa si potrà concretizzare e cosa invece resteranno

chiacchiere estive, buone per riempire i giornali nel momento del calo di notizie agostano. Un’indicazione saggia è arrivata. “Se si decide di fare riduzioni fiscali, bisogna che si faccia anche la riduzione delle spese corrispondenti: bisogna fare la cosa più efficace dal punto di vista economico”. A dirlo, purtroppo, è stato Pierre Moscovici, commissario europeo per gli affari economici e monetari. Si premette il “purtroppo” perché i consigli di Bruxelles sono sempre maldigeriti a Roma che a volte si ostina a fare il contrario quasi per partito presto. E in effetti l’orientamento è quello di arrivare a una legge di Stabilità ingannevole fin dal nome. L’idea di stabilità è infatti legata all’equilibrio che in un bilancio dovrebbe vedere un pareggio tra entrate e uscite, dando per scontato che queste siano relativamente contestuali anche dal punto dei finanziamenti. Invece il governo rende instabile la legge di stabilità trovandone l’equilibrio grazie al finanziamento in deficit, cioè rinviando al futuro il pagamento con interessi delle spese attuali, a seguito di un mix di maggiori oneri (alcuni resi obbligatori da sentenze che cancellano tagli precedenti), di minori entrate (la riduzione di tasse previste) e di mancate riduzione di spese. Il principale taglio che si prospetta è infatti alla Spending review che, secondo le promesse pre-estive, doveva essere la fonte di finanziamento per la riduzione delle imposte, come del resto ricorda Moscovici nell’ingrato ruolo di “grillo parlante” per la politica Pinocchio, suggerendo tra l’altro che soluzioni fiscali efficaci per la competitività sono quelle che riducono le tasse sul costo del lavoro e sulle imprese. Sottintendendo: “Non quelle che tagliano Imu e Tasi sulla prima casa”.

Attualmente dai 10 miliardi attesi dalla revisione degli sprechi o della spesa superflua si è già scesi a 6-7, ma il taglio probabilmente non si fermerà, come non si è fermato negli anni scorsi. Resteranno soprattutto alcune agevolazioni a categorie speciali nate in condizioni diverse dalle attuali e che a questo punto sono diventati dei privilegi. E’ il caso, ad esempio, degli sgravi sulle accise per i carburanti (valore 1,4 miliardi) giustificabili per non mettere l’autotrasporto in ginocchio quando il petrolio era salito a 100 dollari al barile, ma meno comprensibili, anche inserendo il fattore cambio, quando il prezzo è sceso a meno della metà. E’ il caso delle 13 esenzioni per l’agricoltura (valore 2,3 miliardi), è il caso dei crediti d’imposta concessi per quasi 200 milioni agli armatori per metterli in condizioni pari ai concorrenti greci (che però i loro li stanno per perdere come condizione per il salvataggio di Atene da parte dell’Europa) ma lo è soprattutto per una serie di detrazioni concesse apparentemente in base al reddito, ma che rappresentano ancora, nonostante l’introduzione dell’Isee, un “premio” a chi pratica quell’evasione fiscale che l’agenzia delle Entrate stima in 91 miliardi di euro per le sole imposte erariali, una cifra che rappresenta quasi tre volte la manovra in arrivo.

Chi si “autoriduce” la dichiarazione infatti può ancora scaricare sulle spalle di chi compila onestamente il suo 730 le spese per il veterinario o le rette nelle scuole private, godendo di sconti, tariffe agevolate o anche di autentici regali, come i “buoni scuola”, ai quali non avrebbe diritto in base al reddito-patrimonio reale. Questa situazione è l’immagine che sintetizza la schermaglia riguardo al fatto che la “sinistra sia il partito delle tasse”, come ha continuato a proclamare per anni in tutte le sedi possibili Silvio Berlusconi, oppure al contrario che “tagliare le tasse sia di sinistra” come twitta Matteo Renzi: di sicuro non è di sinistra chi non si preoccupa di abolire privilegi ingiustificati.


Spegniamo i riflettori su Calderoli: il paese non merita le sue burle

Roberto Calderoli lo conosciamo bene. Pur essendo persona dotata di intelligenza non comune, ha costruito la sua carriera politica sulle battute, sull’iperbole, sull’esagerazione elevata a condotta di vita. Calca i velluti del Parlamento ormai da più di vent’anni e non si può dire che non abbia saputo propinarci un cartellone di trovate quantomai variegato e variopinto. Gli 83 milioni (ma sono subito diventati 85 e oltre) di emendamenti alla riforma del Senato rappresentano solo l’ultimo exploit. Non il più clamoroso e, malgrado sia già partito il coro dei moralisti, nemmeno il più esecrabile. Inutile star qui a ricordarli tutti: dalle magliette anti-islam alle battutacce a sfondo razziale (i bingo bongo extracomunitari e la Kyenge derubricata a orango).

Stavolta ha tenuto la bocca chiusa preferendo affidarsi alle risorse dell’informatica, con quell’algoritmo che gli ha permesso di scaraventare addosso a Palazzo Madama decine di milioni di emendamenti. Roba che se fossero stampati comporterebbero lo spreco di tonnellate di carta. Davvero un curioso paradosso per chi una volta si è erto a novello Nerone dando letteralmente fuoco a migliaia di leggi inutili (che poi siano state effettivamente cancellate è tutto da dimostrare). Senza dire che già poche settimane fa, quando le proposte di modifica erano poco più di 500 mila, aveva pensato bene di utilizzarle come merce di scambio per la concessione della grazia ad Antonio Monella, l’imprenditore di Arzago d’Adda in carcere per aver ucciso un ladro albanese. Operazione abortita, salvo che poi è rientrata, grazie alla compiacenza dei senatori del Pd, per ottenere una autorizzazione a procedere mutilata dell’aggravante della discriminazione razziale per il greve insulto riservato all’ex ministro di colore.

Ed è proprio qui il punto su cui occorrerebbe riflettere se non prevalesse l’istinto ad abbandonarsi ad un emotivo, seppur motivato, senso di vergogna per le sue gesta. Bisognerebbe infatti mettersi d’accordo una buona volta sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Calderoli. Scusateci la brutale semplificazione: è un saltimbanco, un guitto che usa la politica come palcoscenico oppure è l’uomo che conosce alla perfezione i regolamenti parlamentari, che assolve al meglio la funzione di vice-presidente del Senato, che è considerato da molti un valido interlocutore su materie costituzionali? In questi anni ha dimostrato di saper essere l’uno e l’altro, una sorta di dottor Jekyll e mister Hide, con il quale di volta in volta abbracciarsi o litigare furiosamente. Ma si può continuare ancora così? Non sarebbe invece arrivato il momento di stabilire un discrimine, cioè il rispetto delle istituzioni (e magari pure del buon gusto), oltre il quale non si può andare?

In fondo, Calderoli vive e prospera fintanto che viene considerato dagli altri inquilini del palazzo. Se lo si lascia a divertirsi nel suo brodo, interrompendo qualsiasi forma di dialogo, forse lui per primo potrebbe chiedersi l’utilità di perseverare nel buttare in burla quanto di buono riesce ad elaborare. Spegniamo i riflettori e smontiamo il palcoscenico. Una buona dose di indifferenza può essere davvero l’unica arma letale.


Sea-Sacbo, un’ integrazione con troppi punti interrogativi

Orio-al-serio-aeroporto ritSe il frutto dello studio fosse tutto nella “Relazione di sintesi in merito alle condizioni di realizzabilità del processo di integrazione tra le società Sea e Sacbo” diffusa lunedì non si capirebbe assolutamente perché siano stati necessari più di tre mesi, sforando addirittura la data di scadenza prevista, per partorire quindici pagine utili a dimostrare, su dati storici, che l’unione tra Sea e Sacbo, gestori degli scali di Milano (Linate e Malpensa) e di Bergamo (Orio al Serio) è cosa buona e giusta.

Dal punto di vista industriale, non ci voleva molto per capire che l’integrazione era una “prospettiva valida”. Anche perché non poneva alternative. Dato che Sacbo ha tirato troppo a lungo sulla scelta tra alleanza a Est (con Brescia e i veneti) o a Ovest (con Milano), alla fine ha trovato gli altri che hanno scelto per lei. Dopo la rottura con Save, gli aeroporti di Venezia, non è rimasto alla Sacbo che restare da sola, con il rischio di essere stritolata tra due giganti, oppure andare con Milano. Un partner sicuramente non alla pari, dato che Sea nel 2014 (curiosamente nello studio sono stati riportati i dati del 2013 e non quelli dell’ultimo bilancio già ampiamente disponibili) ha realizzato ricavi sei volte superiori, utile dieci volte superiori ed ha trasportato il triplo di passeggeri.

Quello che infatti non si conosce ufficialmente è il lato segreto, che non si può immaginare non sia stato esaminato, nello studio, ovvero come realizzare concretamente questa integrazione. In altre parole, decidere chi comanda, quanto si conta e quanto ci si guadagna. Ufficialmente è un muro di silenzio, dal quale trapelano alcune indiscrezioni, come l’ipotesi di stampa della creazione di una nuova società dalla fusione dei due gestori dove i futuri ex soci Sacbo potrebbero avere il 35% o addirittura fino al 40%. Sono percentuali che effettivamente, se confermate, spiegherebbero le buone ragioni per tenerle segrete, perché piuttosto imbarazzanti per il Comune di Milano, azionista di controllo della Sea con il 54,8%, che dovrebbe spiegare ai suoi cittadini, chiamati a votare in primavera il nuovo sindaco, le ragioni di questa sopravvalutazione dell’aeroporto di Orio.

Ma l’offerta generosa diventa imbarazzante anche per la parte bergamasca proprio perché allettante e difficile da rifiutare. L’unione con un partner più grande di fatto farà inevitabilmente scomparire la peculiarità territoriale di Orio che diventerebbe a tutti gli effetti un aeroporto milanese, come già viene considerato a livello internazionale, tanto bergamasco quanto Malpensa è uno scalo varesino. Questo è inevitabile, dato che non si può pretendere una fusione alla pari, e l’offerta generosa è il compenso della inevitabile rinuncia alla sovranità. Una quota che in ogni caso è destinata con ogni probabilità a cambiare in un futuro prossimo. Concedere ai soci Sacbo anche il 40% del capitale della nuova società che nascerà dalla fusione vuol dire in realtà (dato che Sacbo è partecipata al 30% da Sea) che agli azionisti bergamaschi (considerando come tali anche il veronese Banco Popolare e Ubi che da soli hanno ora quasi un quarto del capitale della Sacbo) resterebbe il 28% della Sea-Sacbo. Ma è anche dichiarata l’intenzione di procedere a una futura quotazione in Borsa, operazione già tentata in passato senza esito dalla Sea in solitaria, per portare nuove risorse. Una ricapitalizzazione di questo genere non si fa vendendo azioni già in circolazione, anche se non si esclude che qualche socio potrebbe approfittare dell’occasione, ma con emissione di nuove azioni e si può facilmente immaginare che gli enti pubblici bergamaschi (Comune, Provincia e Camera di Commercio), che insieme hanno ora circa il 40% della Sacbo, vedranno diluire ulteriormente la loro quota perché hanno problemi di bilancio che non permettono ulteriori sottoscrizioni. E’ facilmente ipotizzabile, tra l’altro, che questo discorso sia già stato inserito nella parte “segreta” dello studio relativo alle modalità di integrazione.

L’operazione, comunque, se la si guarda allontanandosi dal territorio è difficilmente contestabile dal punto di vista industriale: fa nascere la seconda società italiana del settore, a poca distanza dal polo romano in termini di passeggeri, fa diminuire il rischio di impresa, permette sinergie di efficienza e migliora il ventaglio di servizi per i passeggeri. Anche quella che viene considerata una criticità, l’allentata pressione competitiva sul bacino territoriale, è tutta da dimostrare. Può essere anzi un punto di forza, se non se ne abusa, che contrasta l’attuale strapotere delle compagnie aeree nell’imporre le condizioni. Ryanair che in pratica è il vero proprietario di Orio dato che assicura nove voli su dieci e se dovesse lasciare lo scalo gli toglierebbe l’ossigeno vitale, vede male le concentrazioni degli aeroporti proprio perché rafforzano la sua controparte. Questa, in pratica, è la traduzione del pensiero dell’amministratore delegato Michael O’Leary, quando ha dichiarato “è meglio avere aeroporti in concorrenza tra di loro, perché i monopoli non fanno bene ai consumatori e al mercato e aumentano i costi”.

Ma Sea-Sacbo non potrebbe comunque tirare troppo la corda, perché un vicino concorrente ce l’ha, seppure al momento solo potenziale, ed è Montichiari, l’aeroporto bresciano attuale estrema propaggine occidentale del grande polo che si è creato tra gli aeroporti veneto. Attuale perché il suo destino è legato al ricorso presentato proprio da Sea contro la concessione assegnata alla veronese Catullo, ora nell’orbita della Save di Venezia, senza una gara europea. Non è detto che in caso di nuova gara poi Sea risulti vincitrice e riesca a completare con Montichiari il cerchio della gestione di tutti gli aeroporti lombardi. Di certo in ogni caso la logica alla quale si deve guardare non è più quella provinciale alla quale ci è abituati, ma quantomeno quella regionale, se non una ancora più grande.

 


Renzi vola a New York e il mio fegato s’ingrossa

Renzi Pennetta VinciBerlusconi non mi piaceva: non gli ero ostile politicamente e nemmeno m’infastidiva il suo esibizionismo da ganassa. Però, le ferite che è riuscito ad infliggere al Paese, involgarendolo, introducendo la sua logica secondo cui la cultura non conta nulla, perché non produce guadagni immediati, e la sua idea utilitaristica e bottegaia di umanità, davvero non posso perdonargliele. E ancor più, se possibile, non mi piace Renzi. Ci sono azioni che, pur nella loro assoluta ininfluenza sul piano politico e storico, rappresentano, per così dire, delle icone epocali: quella di Renzi che vola, con un aereo di Stato, a New York a vedere la finale degli Open, secondo me, è il marchio che bolla questo politicante toscano, che governa l’Italia senza che nemmeno un Italiano gliel’abbia chiesto, come un monumento assoluto alla più spensierata arroganza, alla più indifferente, teatrale ed egoistica gestione del potere. Devo, a questo punto, fare due premesse.

La prima è che io gioco, con esiti catastrofici, a tennis da tutta la vita: amo questo sport psichiatrico ed individuale e credo di conoscerne ed apprezzarne molte sfumature. Ne ammiro le regole civilissime, le abitudini sportive ed eleganti e il pubblico, educato e, quasi sempre, competente: in poche parole, lo trovo uno sport perbene. Proprio per questo, lo contrappongo da sempre al football, sport bellissimo, ma afflitto da un retromondo di una volgarità e di una scorrettezza impressionanti, oltre che da un pubblico tra i meno competenti e più incivili. Inevitabilmente, in Italia, questo mi ha portato a lamentare sempre l’insopportabile deriva calciocentrica delle televisioni: soprattutto di quelle pubbliche, che dovrebbero tener conto dei gusti e delle esigenze di tutti. Per fortuna, di riffa o di raffa, i tornei ATP e WTA sono visibili in chiaro su reti specialistiche, e, quando posso me li guardo con grande godimento. Tutti, tranne gli Slam, che sono esclusiva delle Pay TV e che, perciò, sono preclusi a chi non sottoscriva qualche abbonamento.

In seconda battuta, sono del tutto certo che Renzi non distingua una racchetta da tennis da un colapasta: dirò di più, che non gliene freghi nulla di chi vinca Wimbledon o il Roland Garros, fosse pure il suo dirimpettaio. Ora, un presidente del consiglio, non si dice bravo, ma, almeno, normale, dovrebbe pensare agli Italiani e non a se stesso: sempre, solo, esclusivamente a se stesso. Non dovrebbe considerare l’Italia come il proprio parco giochi e gli strumenti istituzionali come i suoi passatempo. Questo, nello specifico, significherebbe preoccuparsi di quegli Italiani che non possono mai vedere il proprio sport preferito sulle tv di Stato (e sono milioni di praticanti), facendo pressioni perché la Rai diventasse un tantino meno parziale nei propri, già desolanti, palinsesti. Invece, cosa fa il Nostro? Prende l’aereo e va a vedersi la finale, tanto per fare un siparietto ad usum delphini. E noi? Dovremmo applaudire? Sentirci felici per lui? Ma chissenefrega se Renzi si vede la finale a scrocco? Se stringe due mani, bofonchia due imparaticci in un inglese da film comico, proclama la grandezza dell’Italia, del tennis italiano, delle tenniste italiane, risale a bordo e torna a casa sua, nella nostra vita non cambia un bel nulla. Anzi, semmai il nostro fegato s’ingrossa, nel vedere dei privilegiati che non sanno neppure chi siano le finaliste degli Open, volare a New York a fare un po’ di cabaret. Ecco, per questo Renzi davvero non mi piace: perché dimostra una totale, abissale, irresponsabile mancanza di rispetto per la gente. Denuncia un’arroganza degna, non di Berlusconi, ma di qualche dittatorello nordafricano d’altri tempi. E, domani, spenti i riflettori e smaltita la sbronza di felicità, sulla Pennetta, sulla Vinci e su tutte le bravissime atlete che fanno onore al nostro Paese, calerà di nuovo il sipario: torneremo a sorbirci interviste, moviole, dirette, di partite di serie A, B, C e D. Mentre lui, Renzi, siederà in soglio, idol placato. Ecco, io questo modo di concepire le istituzioni, la politica, l’amministrazione del Paese, proprio non riesco a digerirlo: mi pare ignobile, inaccettabile. E, a volte, anche una semplice partita di tennis, che, in fondo, non cambia nulla, può essere la cartina tornasole di un Paese di sudditi e non di liberi cittadini. E di satrapi, travestiti da uomini di governo. Perché a New York, Renzi non ha rappresentato l’Italia, ma solo se stesso: non puoi rappresentare qualcuno di cui ignori tutto e di cui niente ti importa. Così, l’Italia vera si stringe attorno alle nostre due bravissime tenniste, abbracciandole e condividendone la gioia, da lontano, senza voli di Stato e comparsate da due lire. E, mannaggia, senza nemmeno poterle vedere.


Dopo Italcementi, riflettori puntati sulla Dalmine

tenaris (2)La cessione dell’Italcementi da parte della famiglia Pesenti, dopo lo smembramento dell’impero commerciale Lombardini, ha aperto gli interrogativi su quale potrebbe essere la prossima vendita di una grande azienda bergamasca da ritenere impossibile fino al giorno prima. Nel campo delle ipotesi il primo posto dove guardare sembra essere la carta d’identità: tra i grandi proprietari d’impresa bergamaschi abbondano quelli nati quando c’era ancora il Regno d’Italia e sono tutte da capire le decisioni che prenderà chi andrà al loro posto. La cessione non è da escludere come soluzione per il problema della successione generazionale. Un discorso particolare merita la Dalmine, complesso storico dell’industria bergamasca, che pure, formalmente, una proprietà veramente bergamasca non l’ha mai avuta, dalla Mannesmann alle Partecipazioni statali alla Tenaris dei Rocca, a conferma che in fondo quella dell’origine autoctona delle famiglie imprenditoriali è in buona parte retorica provinciale.

In ogni settore, con la domanda che precipita e quindi un eccesso di produzione, gli operatori cercano di difendersi contraendo l’attività, che vuol dire anche interventi di riduzione del personale. Alla ricerca del mantenimento dei margini spesso si realizzano aggregazioni e quando avviene la prima in genere ne seguono delle altre perché i più deboli e i più piccoli cercano in questo modo di non essere messi fuori da un mercato che anche così ritrova un suo equilibrio. E’ quello che è successo nel cemento, dove la fusione Lafarge-Holcim ha spinto verso l’acquisizione dell’Italcementi da parte di Heidelberg. Ma una situazione di sovrapproduzione simile si vede anche nei prodotti per l’industria petrolifera. Il settore dei tubi è abituato ad andamenti ciclici, ma questa volta oltre che per una domanda crollata per il calo dell’attività provocato dalla caduta del prezzo del petrolio, la sovrapproduzione è provocata anche dall’aggiunta di capacità produttiva dalla Cina. Tenaris, il gruppo della Dalmine, ha partecipato da protagonista, a metà dello scorso decennio, al precedente consolidamento del settore, con l’acquisizione di Maverick e Hydril. Una nuova fase sembra essere partita quest’estate con l’acquisizione da parte della Schlumberger della concorrente texana Cameron, un’operazione da 15 miliardi di dollari che crea il più grande operatore mondiale (59 miliardi di dollari di giro d’affari) nei servizi al settore petrolifero, in risposta alla precedente fusione da 35 miliardi di dollari tra le americane Halliburton e Baker Hughes, che erano la numero due e la numero tre del settore. Non si può escludere che la febbre delle fusioni investa anche le tecnologie del tubo per il petrolio, dove al momento tutti i grandi operatori, dalla Tenaris alla francese Vallourec ai gruppi giapponesi – l’industria cinese resta avvolta nel mistero – stanno attuando interventi vari, dalla riduzione di personale alla chiusura temporanea di impianti, per cercare di andare oltre la crisi.

Questa è comunque una di quelle situazioni dove sono stimolate le aggregazioni. Nel caso, Tenaris ha una solida posizione finanziaria (e la famiglia Rocca non manifesta intenzione di lasciare il campo) e quindi dovrebbe essere acquirente, più che venditore. Questo farebbe felici i campanilisti delle acquisizioni, ma, sempre nel campo delle ipotesi, essere dalla parte del compratore, opzione che in genere tutela il quartiere generale, paradossalmente non sarebbe una garanzia per lo stabilimento di Dalmine. In caso di aggregazione ci sarebbe comunque una valutazione sul piano industriale, per vedere se anche nello stesso gruppo c’è spazio per tutti, sempre ammesso che non ci siano richieste da parte dell’Antitrust. L’unica garanzia per la salvaguardia industriale alla fine non è nella cittadinanza del proprietario, ma nell’efficienza e nella competitività dell’impianto.


Referendum sull’autonomia della Regione, l’autogol di Rossi e Gori

Per guadagnare qualche titolo sui giornali la trovata è stata senz’altro efficace. Ma puzza di strumentalità lontano un miglio l’uscita con cui il presidente della Provincia Matteo Rossi (a cui si è subito sorprendentemente accodato il sindaco Giorgio Gori) ha annunciato di voler fare campagna a favore del referendum per una maggiore autonomia della Regione promosso dai grillini ma diventato cavallo di battaglia della maggioranza lega forzista del Pirellone. Lo stupore, e in taluni casi l’irritazione, del Pd e dei suoi principali esponenti (a partire dal segretario provinciale Gabriele Riva che ha parlato di “fuga in avanti”) mettono già in evidenza anzitutto la prima contraddizione. Rossi e Gori hanno preso l’iniziativa senza coordinarsi, e tantomeno informare, il partito che pure li ha portati dove sono. Tutto lecito, per carità, i tempi del centralismo democratico sono un lontano e non rimpianto ricordo, ma in Consiglio regionale il Pd si era espresso duramente contro il referendum e, non foss’altro che per un elementare dovere di coerenza, prima di cambiare posizione forse sarebbe stato utile e necessario discuterne per poi, eventualmente, spiegare le ragioni di una così vistosa virata ad U. Ma Rossi e Gori, evidentemente, ritengono di potersi muovere con le mani libere, inseguendo una strategia che chiunque può comprendere quanto possa essere a rischio suicidio. Perché affiancarsi a chi la battaglia per l’autonomia se l’è già intestata lascia comunque in una posizione di subalternità. Alla brutta copia, peraltro convintasi della presunta bontà dell’operazione con notevole ritardo, il cittadino preferirà sempre l’originale. Lo dice la storia: tutte le volte che qualcuno ha provato a mettere in cantiere iniziative para-leghiste, nell’illusione di scavalcare il Carroccio, è finita male. Il presidente della Provincia e il sindaco sottovalutano un altro aspetto che è strettamente legato all’oggetto della campagna referendaria. Poiché si tratta di pura propaganda (il quesito non punta ad ottenere una maggiore autonomia, come l’uomo della strada è portato a pensare, ma impegna la Regione ad avviare una trattativa con lo Stato per avere maggiori libertà di movimento in campo economico e finanziario), ingenererà nella pubblica opinione aspettative che poi andranno deluse e chi ne pagherà dazio saranno anzitutto coloro che, alla guida di Provincia e Comune, hanno la responsabilità di dare risposte concrete. Maroni e sodali potranno sempre cavarsela dando la colpa al governo (che è in mano al Pd), “brutto, sporco e cattivo” e conculcatore della volontà popolare. Rossi e Gori, invece, se non vorranno trovarsi ad attaccare il loro premier e segretario nazionale Matteo Renzi si scopriranno chiusi in un grottesco cul de sac. Cornuti e mazziati. Davvero una bella operazione per chi, forse vittima di un sogno di mezza estate, si è messo in testa di giocare al piccolo politico. Il referendum è un bluff, non può portare da nessuna parte perché non ci sono le condizioni normative affinché espleti gli effetti desiderati ma in compenso costerà 30 milioni alle casse regionali. Soldi che è delittuoso di questi tempi buttar via per consultazioni che hanno il valore di un exit poll da bar sport. I primi a doverlo sapere, e a doversi battere per evitare l’inutile spreco, dovrebbero essere proprio Rossi e Gori.


Caro Franceschini, investa sui giovani e non sugli stranieri

museiIl ministro Franceschini è, probabilmente, una bravissima persona. Certo, visto così, non dà l’idea di essere un’aquila o un pozzo di scienza e, dovendogli affidare un ministero, forse forse sarebbe andato meglio quello delle riforme, che, data l’assoluta mancanza di riforme, è un’assoluta sinecura. Però, lui, da bravo soldatino, ha cercato di aggiornarsi, di rendersi degno dell’alto incarico: si è fatto crescere una barba da filosofo, che, nell’ambiente della politica, che è tutto apparenza e niente sostanza, a un dipresso vale quanto una laurea in filosofia; e, adesso, si sente pronto per l’arduo compito di radere al suolo Pompei.

Tanto, deve aver pensato, in Italia di cultura non si parla mai, quindi, anche se combino qualche bischerata, non se ne accorgerà nessuno! Non immaginava, il malcapitato, che proprio lui avrebbe creato lo scoop destinato a portare la cultura sulle prime pagine dei giornali. La notizia è che sono stati nominati i direttori di venti musei italiani. Anzi, la notizia è che, di questi venti, sette sono stranieri. In realtà, non è una gran notizia: però, siccome qui da noi, ormai, la tifoseria si divide tra internazional-europeisti, che accusano di misoneismo gli avversari, e identitar-nazionalisti, a loro volta pronti a dare dell’antitaliano al nemico, anche una non notizia può trasformarsi nel solito circo equestre. E così è, puntualmente, accaduto.

Da una parte, ci sono dei fessi che pensano che faccia straordinariamente figo affidare ad uno straniero l’amministrazione del nostro Paese: gente che parla di governance, di startup e di jobs act, come se si trovasse a Petaluma o a Nantucket, anziché sul Sentierone. Dall’altra parte, ci sono quelli che hanno scoperto il patriottismo quando gli è arrivato il primo stipendio da parlamentare: gente che non sa nemmeno cosa sia uno studio severo, un lavoro indefesso, ma che farnetica, ugualmente, di studio e di lavoro, facendo leva sull’orgoglio nazionale di un popolo di bruti, che si risveglia solo ogni quattro anni, per i mondiali di calcio. Insomma, una bella gara tra gonzi. E, in mezzo, c’è lo ieratico Franceschini, con la sua barbetta da Cacciari, la sua faccia da Cacciari, le sue giacchette da Cacciari: se avesse anche il quadro neurologico di Cacciari, saremmo a cavallo: purtroppo, invece, i neuroni sono quelli di Franceschini, e ci dobbiamo un tantino accontentare. Si vede che, di fronte alla vexatissima quaestio delle nomine dei direttori dei musei (ossia, di una delle pochissime istituzioni culturali italiane che portino a casa quattro palanche), il povero ministro ha deciso di usare il sistema della brava madre di famiglia: un colpo al cerchio e uno alla botte. Su venti, sette saranno, si fa per dire, raccomandati, enfants du pays, direttori di museo scelti “alla bergamasca”, per intenderci. Altri sei (venti, ahimè, non è divisibile per tre) saranno gente che sta in coda da trent’anni e, infine, sette li prendiamo all’estero, dove, com’è noto, non si ruba, non si bara e, soprattutto, si fa lo storico dell’arte studiando la storia dell’arte. Dunque, i giochi sono fatti.

In realtà, l’idea di andarsi a prendere i direttori all’estero è derivata semplicemente dal football, che è l’unica realtà culturale che i nostri governanti devono avere in qualche modo presente: i giocatori più forti (Franceschini direbbe ‘top players’) me li vado a cercare a Londra, Parigi o Madrid, quando non in Gambia o in Argentina. Una volta, la cosa pareva funzionare: costavano meno e giocavano meglio. Oggi, nove volte su dieci, ti porti a casa un brocco clamoroso, pagandolo come il fuoco, ma tant’è. Se funziona per un centrocampista, deve aver pensato il filosofico Franceschini, perché non dovrebbe funzionare con i musei? Certo, si potrebbe obiettare che, forse forse, un po’ di sano patriottismo ogni tanto non guasterebbe; oppure che in Italia ci sono centinaia di bravissimi storici dell’arte costretti a fare i supplenti liceali o a inventarsi lavoretti per campare. Ma diamola per buona, questa bubbola dei direttori stranieri: ammettiamo che il pensiero debole, per una volta, sia forte. Ebbene, io vorrei un prefetto prussiano: avete presente quei granatieri pomerani alti due metri e cattivissimi, dallo sguardo d’acciaio? Io lo vorrei così, il mio prefetto. E vorrei un sindaco parigino: che trasformasse il lungomorla nella spiaggia dei bergamaschi. Il Donizetti lo affiderei ad un viennese, così, se a Vienna si strimpella a Capodanno, noi faremmo il concerto di metà Quaresima, con tanto di rasgamento della ecia e Marcia di Gioppino finale: e tutti a battere le mani ritmicamente. Alla viabilità ci metterei Indurain: alla cultura qualche Guggenheim, anche se, in mancanza di meglio, basterebbe qualcuno che distinguesse i centenari dai settantennali. Insomma, anche a me piacerebbe prendere l’eccellenza dall’estero e metterla qui: e, forse, sarebbe anche efficace, come sistema. Ma non sarebbe giusto, perché gli Italiani dovrebbero imparare, una buona volta, a coltivare il proprio orto, se vogliono mangiare le proprie verdure. Investire nei giovani, anziché negli stranieri. Perché non basta una barba, purtroppo, per fare un filosofo: mentre per fare un ministro, a quanto pare, sì.


Degrado alla stazione, a Bergamo non servono le zuffe politiche

Kiss. StazioneNon si sa se siano peggio le zuffe tra extracomunitari sul piazzale della stazione o quelle tra politici di maggioranza e opposizione sui giornali. I primi, se non altro, son poveri disperati. Gli altri, invece, son tutte persone perbenino che si son proposte per governare la città. E lo spettacolo, per quanto non si scambino cazzotti né si impugnino colli di bottiglia, è tutt’altro che edificante. Nel gioco delle parti ci sta che chi sta in minoranza dica che “è tutto sbagliato, tutto da rifare”; e che, al contrario, chi governa risponda che “va tutto bene, madama la marchesa”. Ma il balletto retorico è diventato stucchevole. I giovani, e un po’ acerbi (non si dica “ragazzini”, altrimenti s’offendono), politicamente parlando, consiglieri di opposizione Alberto Ribolla (Lega), Stefano Benigni (Forza Italia), Davide De Rosa e Andrea Tremaglia (Fratelli d’Italia), usano i comunicati stampa e le interrogazioni-interpellanza come armi improprie. Talvolta, come nell’ultimo caso della presunta maxi-rissa alla stazione (che poi era di consistenza molto ridotta), non appena vedono un titolo di giornale, sparano ad alzo zero senza nemmeno peritarsi di fare una verifica sullo svolgimento dei fatti. Ma la superficialità di breve è nulla rispetto ad una banale considerazione che chiunque abbia un minimo di memoria storica, e soprattutto di onestà intellettuale, non può non fare. Il degrado dell’area della stazione (da piazzale degli alpini fino all’ex scalo merci) non è di oggi né di ieri. Negli ultimi vent’anni si sono alternate giunte di centrodestra e di centrosinistra. Tutte, ciascuna con la propria sensibilità, hanno cercato di migliorare la situazione. Nessuna, dicasi nessuna, è riuscita ad incidere in maniera significativa. Il giochino di continuare a ripetere “quando c’eravamo noi era meglio” è da asilo Mariuccia. Basterebbe prendere le collezioni dei giornali e fare un semplice confronto che smentisce i catastrofisti di oggi e ottimisti di ieri. E si potrebbe anche aggiungere, per una valutazione più politica, che i grandi successi della fu giunta Tentorio non devono essere stati granché apprezzati dai cittadini se un anno fa, mica il secolo scorso, la sconfitta del centrodestra è stata tanto netta quanto bruciante. O vogliamo credere che gli elettori siano intelligenti quando votano a favore e degli stupidi quando si spostano dalla parte opposta?

Proprio perché giovani (sia detto con la massima invidia), i battaglieri rappresentanti dell’opposizione dovrebbero sforzarsi di uscire dal banale ping pong ad uso propagandistico. Meglio sarebbe se riuscissero ad essere innovativi, capaci davvero di incalzare chi governa la città con proposte e suggerimenti concreti. E’ sulla sostanza che si può far presa di fronte all’opinione pubblica, non sulle parole. Elementare verità che vale anche per chi oggi guida Bergamo. L’assessore alla Sicurezza Sergio Gandi è bravissimo a non lasciar mai perdere un colpo nella sfida dialettica. Da avvocato, ha sempre una battuta pronta. Ma, appunto, anche per lui vale che le chiacchiere stanno a zero quando alla stazione o davanti a palazzo Uffici vanno in scena risse, aggressioni e quant’altro. Detto che l’ordine pubblico, valeva per Tentorio come vale per Gori, è di competenza delle forze di polizia e non dei vigili (si fa troppo spesso confusione, e non per fini nobili), in un anno l’attuale Amministrazione ha inciso ben poco. Forse il piazzale della stazione è stato migliorato. L’idea di far diventare l’Urban center la casa di Bergamo Scienza non è male (anche se forse il sindaco esagera un po’ nelle aspettative). E tuttavia, serve molto di più e di meglio. A partire dal metodo che deve puntare ad un reale coinvolgimento della città. Il Comune deve trovare il modo di far comprendere a tutti che quel pezzo di territorio in cui ogni giorno transitano migliaia di persone non è terra di nessuno. Vale tanto quanto il Sentierone o Città Alta. Bisogna riappropriarsene costruendo attorno agli interventi architettonici (prima alle Autolinee, ora quello della stazione ferroviaria) operazioni di riconquista sociale. Con eventi no stop, con la presenza quotidiana di presidi di controllo, con iniziative ad hoc che leghino questa tessera al puzzle complessivo della città. Un lavoro, questo, in cui maggioranza e opposizione possono dare il meglio di sé giocando sulla fantasia, sull’intelligenza, sulla lungimiranza. Questa è la vera competizione che farebbe fare a Bergamo il salto di qualità. Non il battibecco a chi la spara più grossa.


Dell’Europa siamo l’aliquota selvaggia e “sacrificabile”

L’Italia fa certamente parte dell’Europa. Ne è una porzione consistente e, se mi consentite, ne rappresenta l’aliquota che i generali definiscono “sacrificabile”.

Non sto scherzando: quel conglomerato assortito che decide le linee guida della politica europea, ragiona esattamente come un generale della Grande Guerra. In ogni esercito ci sono perdite: alcune di queste vengono considerate, per così dire, fisiologiche. Si deve conquistare quella quota? Perdere mille o duemila uomini, nella prima ondata d’attacco, è un prezzo ragionevole. Dunque, si manda avanti la carne da cannone: i “sacrificabili” appunto.

Ecco, noi siamo proprio quei poveracci della prima ondata: i sacrificabili. Perché, diciamocela tutta: noi siamo Europa per modo di dire. Un olandese, un tedesco, perfino un francese, non è che ci considerino europei doc, continentali al 100%: siamo degli ibridi, gente con una percentuale creola consistente nel dna, meticci.

Infatti, nei felpati consessi internazionali, ci trattano un po’ con sussiego e un po’ con simpatia curiosa: proprio come avveniva per il negro alla corte di Pietro il Grande. E, se uno di noi parla un inglese accettabile, tutti subito a fargli i complimenti: a dirgli che è bravissimo, ullallà, perché riesce a dire ‘gullible’ anziché ‘idiot’, che per un italiano è più facile.

Insomma, siamo considerati degli imbecilli, dei semiselvaggi: i “terroni” dell’Unione Europea. E veniamo trattati esattamente come i piemontesi trattavano i “terroni” nel 1861: dei selvaggi. In Europa ci accolgono con ceste di braccialetti di perline colorate: ci dicono sì sì, avete ragione. Ma poi non contiamo un belino. E lo sappiamo benissimo. Credete davvero che Renzi, quando va a fare la marionetta davanti agli impassibili burosauri di Bruxelles non si accorga che è lì solo per fare intrattenimento? E di quanto poco conti la signora Mogherini? Lo sa benissimo: ma che ci può fare? Noi siamo “sacrificabili”: e non saranno le battute al pistacchio a cambiare le cose. Perché da noi, come dappertutto, comandano i banchieri: e, per i banchieri, l’Europa è un affare da non lasciarsi sfuggire. Dove lo trovi, per esempio, un governo nazionale tanto stupido da ripianare i debiti delle banche, trasformandoli in debito pubblico? Invece, siccome l’Europa è qualcosa di astrattamente supernazionale, la gente se la beve, ed accetta di stringere la cinghia per aiutare gli arpagoni ad essere sempre più ricchi. E potenti. E la potenza è quella di decidere, appunto, chi sia sacrificabile e chi no.

Guardate cosa succede oggi, con l’incredibile vicenda degli immigrati che cercano di entrare in Gran Bretagna: una storia che sarebbe comicamente surreale, se non fosse vera. Quando, per anni, l’Italia ha chiesto un intervento europeo per arginare il fenomeno dell’immigrazione selvaggia, le hanno riso in faccia: alla fine hanno mandato navi su navi per prendere dall’Africa gli africani e portarceli direttamente qui. Una discreta presa per i fondelli. Adesso, che quattro disperati cercano di forzare i penetrali d’Europa, quelli veri, quelli non sacrificabili, non terroni, non meticci, osservate attentamente dove vanno a finire i diritti dell’uomo, il buonismo, le belle frasi ad effetto sull’accoglienza.

Cameron, quello che ci faceva restare a bocca aperta, perché andava al lavoro con la Tube, parla di muri da innalzare, di frontiere da difendere, di intervento europeo in Africa, di forze armate a vigilare. Se lo dice Salvini, è una carogna xenofoba che cerca voti: se lo dice un nobiluomo scozzese da Downing street, per magia, tutto diventa sensato, comprensibile, molto europeo. Perché l’Inghilterra non è “sacrificabile”: perché per gli Inglesi l’Europa non è un dogma, imposto da un ciccione di economista bolso a suon di tasse, ad un Paese un po’ riluttante e un po’ incompetente. L’Europa, per gli Inglesi è un’opportunità: oppure, non è. Punto. La Gran Bretagna non è “sacrificabile”, innanzitutto perché non permette che la si sacrifichi: infatti, sta nell’Europa senza stare nell’Euro. Mica scemi! Provate ad andare in Provenza a calpestare la lavanda, perché ne producono troppa: rovesciate qualche milione di tolle di latte danese, e guardate come reagiscono gli affabili inventori del Lego!

La gran panzana, l’errore di fondo di questa Europa che, ormai, scricchiola da tutte le parti, è sempre lo stesso: ed è un errore filosofico, politico, antropologico. L’uguaglianza obbligatoria. Nelle teorie liberali, dall’Illuminismo in qua, si è andata via via elaborando questa idea suicida dell’uguaglianza: dell’essere tutti uguali perché è giusto così. Certo, sarebbe giusto: solo che non è affatto così. Non siamo per niente tutti uguali: e questa Europa lo sta dimostrando ad abundantiam. Quando i nodi vengono al pettine, chi sa nuotare si salva e chi annaspa affoga: alla faccia della democrazia liberale. Così, quando gli africani invadono le nostre città, va tutto bene: è il dovere dell’accoglienza fraterna. Quando provano ad entrare in Francia o in Gran Bretagna, diventano una minaccia per il Paese. Perché non siamo per nulla tutti uguali: noi siamo il pavement e loro la penthouse, per dirla alla Cameron. Noi siamo abituati al degrado, alla sporcizia, all’Africa, già per conto nostro: un po’ di degrado in più o in meno cosa volete che ci cambi? È un po’ il ragionamento dei nostri politici, che inondano le borgate di immigrati, ma che vivono ai Parioli: il borgataro all’immondizia è aduso, ohibò! Solo che il borgataro è aduso anche al coltello: occhio. La storia ci insegna che, alla fine, a forza di essere sacrificati, i “sacrificabili” si rivoltano contro i propri generali: e, se va bene, viene Caporetto. Se va male, viene la rivoluzione…