Beltramelli, l’allievo di Marchesi che ha conquistato Parigi

Vittorio Beltramelli - chefL’art de vivre italien si ritrova nel talento di uno cuoco originario di Averara, 41enne, da un lustro executive chef e socio del Nolita, al secondo piano dello show room Fiat, tra gli Champs Elysée e l’Arc de triomphe a Parigi.

Le specialità di Vittorio Beltramelli – è di lui che parliamo – sono state apprezzate da star come Beyoncé e il marito Jay-Z, dal sindaco della capitale francese Anne Hidalgo e dai calciatori Ezequiel Lavezzi e Zinedine Zidane, mentre Pharrell Williams si è complimentato con un tweet. La sua storia comincia in una trattoria di famiglia a Castelleone, nel Cremonese. Tra quei tavoli Vittorio si appassiona ai fornelli e decide di iscriversi all’Istituto Alberghiero di San Pellegrino. A 23 anni entra nella squadra di Alain Ducasse nel suo ristorante monegasco Le Louis XV. Dall’anno dopo si fa le ossa dedicandosi ai ristoranti di Gualtiero Marchesi a L’Albereta di Erbusco e nel 2001 a Parigi, dove a sette mesi dall’apertura conquista una stella Michelin, che gli viene confermata per tre anni. Nella capitale francese dà prova della propria bravura anche all’hotel Castille, all’Escoffier e al ristorante stellato Il cortile. Dal 2011 è consulente della gastronomia italiana per Jean-Pierre Coffe nella trasmissione Viviment dimanche.

Beltramelli, tra Italia e Francia stile e gusti sono ancora differenti?

«Anni indietro sì, oggi un po’ meno. Gli italiani riescono a esportare meglio i loro prodotti e nelle carte dei ristoranti francesi è facile trovare ravioli e risotti di tradizione transalpina. È la conseguenza della globalizzazione culinaria che ha ridotto le diversità».

La cucina francese è considerata la più raffinata al mondo. Come spiega questo primato?

«I nostri cugini sono bravi a valorizzarsi. I grandi chef sono delle celebrità, Fernand Point è stato il più rivoluzionario, Paul Bocuse alla soglia dei novant’anni è ancora un’istituzione vivente. Noi non siamo capaci di rendere merito ai nostri maestri. Per nove anni ho lavorato per Marchesi, lo ritengo un mito, mentre in Italia sembra poco più di un cuoco qualsiasi. Un francese porta grande rispetto verso la figura dello chef, da noi sta avendo successo solo negli ultimi tempi grazie alla vetrina televisiva, in modo però sbagliato».

Si riferisce ai programmi come Masterchef?

«Sui giovani i cooking show hanno effetti negativi. Trovo giusto far conoscere la professione, ma non deve passare il messaggio che è un mestiere da prendere alla leggera, perché comporta sacrifici, richiede un impegno 24 ore su 24, non è un gioco. Non basta assemblare quattro ingredienti, dietro un piatto ci sono ore e ore di preparazione».

In Francia è arrivato nel 2001, a 27 anni. Ha faticato a inserirsi?

«All’inizio mi sono scontrato con la diffidenza. Proponevo  una cucina a tema, ma volevo entrare a fondo nelle radici. Capitava che i clienti rispondessero: questo non lo conosco, quello non può essere italiano. E finivano per richiedere la stessa decina di pietanze arcinote: cotoletta, scaloppine, gnocchi, spaghetti al pomodoro. Erano fermi. Ci sono voluti tempo e pazienza.  Le conoscenze a Parigi si sono ampliate, anche perché gli spostamenti oggi sono più facili, si assaggia un piatto in vacanza e lo si ritrova da me».

nolita- chef Beltramelli - ParigiQuali sono i clienti più preparati ed esigenti?

«Rimaniamo noi italiani. Possediamo una varietà importante. Dalla Lombardia alla Sicilia passando per il Lazio si incontrano sapori diversi, siamo abituati a mangiare bene anche a casa nostra e a recarci meno al ristorante. I francesi sono più puntigliosi e astuti».

Nel senso che il Camembert viene lanciato come un’eccellenza più del Parmigiano quando non è superiore?

«Tra i due formaggi non c’è paragone, però noi pecchiamo di faciloneria. Lo mettiamo in commercio a 12 mesi pur sapendo che la stagionatura perfetta è a 36. A farne le spese è il prodotto. I francesi, al contrario, rispettano regole e tempi. Anche gli spagnoli ci sorpassano in prestigio internazionale. Noi avremo pure il San Daniele, ma loro sono riusciti a inserire il Pata Negra nei testi della gastronomia mondiale».

Restando in tema di rivalità, che è forte soprattutto in materia di vini e formaggi, chi vince?

«Non perché sono italiano, ma sicuramente noi per la più vasta offerta regionale. L’importante è che non si faccia un melange, il vino del Salento va gustato nel Leccese, così come l’olio. Gli spaghetti con le vongole a Venezia non sono come a Bari, tanto meno a Milano. In una preparazione si ritrova il clima, l’aria di quella terra. Non capisco come si possano acquistare le ciliegie che provengono dal Cile a prezzi folli a dicembre. Non è più ragionevole comprarle a giugno quando sono più buone?».

A proposito di materie prime, come si rifornisce?

«Importo pasta da Fratelli Setaro di Torre Annunziata, le mozzarelle mi arrivano ogni settimana da un piccolo produttore di Napoli. Il riso è di Tenuta Castello nel Vercellese, il tartufo di Urbani, i formaggi di Guffanti, gli affettati di Rulliano. Ho provato anche a far arrivare le verdure, ma i costi sono troppo elevati. Faccio fatica a far capire al cliente che quella cima di rapa costa di più perché ha percorso mille chilometri».

La Francia è il secondo mercato mondiale per McDonald’s, come se lo spiega?

«Non esiste un’alternativa che faccia concorrenza. Nelle brasserie paghi tre o quattro volte di più rispetto al fast food. Da noi, invece, puoi scegliere di gustarti un buon panino o una pizza senza spendere molto più di un Mc menù».

I francesi a tavola cosa ordinano?

«L’antipasto o entrée e un piatto forte, che sia il primo o il secondo non importa. Noi siamo gli unici al mondo ad avere più portate».

Nolita2- chef Beltramelli - PargiNolita4 - chef Beltramelli ParigiQuali sono le specialità più richieste al Nolita?

«Mi piace rivedere la tradizione secondo le regole dell’alta cucina, come la amatriciana che però preparo con una pancetta fatta da noi, delicate cipolline mignon, cotte a bassa temperatura con burro chiarificato. Oppure il maialino cotto per 17 ore, a 67 gradi, al vapore e caramellato al momento con miele alle spezie come pepe rosa e anice stellato, l’insalata di polipetti fritti guarniti da salsa Caesar e il risotto con purea di pomodoro e salsa allo zafferano e arancio, con spolverata alle olive nere».

Nella sua collezione di libri c’è “La mia nuova grande cucina italiana” di Marchesi, tradotta anche in giapponese. Cosa le ha insegnato il grande maestro?

«A essere diretti, il cliente deve capire attraverso tecniche di alto livello cosa vuoi proporgli. Più il sapore è buono e più se lo ricorderà».

L’Assemblea francese ha stabilito il reato di spreco alimentare, i supermercati sopra i 400 metri quadrati devono donare le eccedenze in beneficenza. Una legge utile contro l’indigenza?

«Eccome, la Francia è il paese più socialista d’Europa, non dimentica di aiutare i meno fortunati. Anche l’istruzione è molto più accessibile, rispetto a noi, per i meno abbienti. Nel mio caso, ciò che rimane del brunch domenicale a buffet è ritirato da un’associazione benefica».

I suoi piatti sono composizioni artistiche che stupiscono. Da uno a 10, quanto conta l’aspetto?

«Il piatto deve meritarsi un 10 per bontà e un 10 per l’estetica. Suggerisco ai miei chef che devono saper tirar fuori la parte femminile che è in loro, non servono mille guarnizioni o ingredienti. Come diceva Chanel, la chiave di volta dell’eleganza è la semplicità. Vale nella moda come nella gastronomia».

Dichiara di non voler nutrire solo stomaci affamati, ma cervelli alla ricerca di nuove sensazioni e di avere come motto, cibo per la mente. Cosa significa?

«È riduttivo affermare che faccio da mangiare. Se fosse solo così,  avrei già appeso il grembiule al chiodo. Passare quindici ore in cucina non può essere solo un lavoro. È molto di più».

Cosa consiglierebbe ai giovani aspiranti cuochi?

«Fornirsi di caparbietà e un pizzico di fortuna. Voilà, tout ici.


Gourmets Degustateurs, la cena degli auguri al “One Restaurant”

Nel ricordo di Pino Capozzi, la delegazione bergamasca dei Gourmets Degustateurs – fondata anni orsono dal compianto albergatore/ristoratore di Città Alta – s’è ritrovata nei giorni scorsi per gli auguri natalizi. Un’occasione propiziata dalla moglie Stella Silipo, che prosegue l’attività associativa sulle orme di Pino supportata dalla sommelier Anna Belotti. Punto di ritrovo: il “One Restaurant” di Dalmine, guidato dallo chef Chicco Coria.

Una riunione conviviale durante la quale sono stati ricordati altri due esponenti del mondo enogastronomico bergamasco scomparsi di recente: Roberto Gambirasio, del ristorante “Cadei” di Villongo (l’attività prosegue grazie alla moglie Tarcisia), e Stefano Cardaci, noto per la sua abilità nel proporre piatti “alla lampada”. Nel corso della serata, Coria ha servito il Cilindro di capasanta con scampi, gamberi, verza e tartufo nero, il Risotto mantecato con formaggi d’alpeggio e fondente di cipolla al pepe nero e Lombo di cervo con castagne, riduzione al Valcalepio, rosmarino su purea di patate. Abbinati i vini delle case Vallerenza, Vignalta e Leone de Castris.


“Qualità dell’offerta enogastronomica”, il TCI premia Al Carroponte

Al carroponteTCIA poco più di un anno dall’apertura, Al Carroponte, l’enoteca-bistrot di via De Amicis a Bergamo, incassa un nuovo riconoscimento dal mondo della critica gastronomica. Alla lista, infatti, si aggiunge anche il “Premio Buona Cucina” del Touring Club Italiano, consegnato a Milano il 30 novembre scorso al patron Oscar Mazzoleni in occasione della presentazione della guida “Alberghi e Ristoranti d’Italia 2016”. Il premio, che vanta ormai una lunga tradizione, viene attribuito dal TCI ad esercizi selezionati, che si distinguono per la qualità dell’offerta enogastronomica e per il tono accogliente e curato del locale.  Luigi Cremona, autore della Guida Ristoranti d’Italia ed opinion leader nel settore, ha così inteso “confermare ed evidenziare la grande attenzione di Al Carroponte per la qualità dell’offerta, in ambito sia culinario sia enologico, oltre alla passione per i dettagli”.


World Cheese Awards, quattro medaglie per i formaggi bergamaschi

world cheese award 2015Due argenti e due bronzi è il bottino conquistato dai formaggi bergamaschi ai World Cheese Awards 2015, competizione casearia tra le più importanti al mondo, che ha visto in lizza – dal 26 al 29 novembre scorsi a Birmingham – 2.727 formaggi provenienti da 26 paesi, degustati e valutati da una commissione di 250 esperti da 22 nazioni.

Gli argenti sono andati entrambi al caseificio Arrigoni Battista di Pagazzano, premiato per il Gorgonzola Dolce Dop e il Taleggio Dop. La medaglia di bronzo se la sono aggiudicata invece il Taleggio Dop “Vero Arrigoni Sergio” dell’azienda di Olda di Taleggio e il Quadrello di bufala, formaggio morbido a crosta lavata del caseificio Quattro Portoni di Cologno al Serio.

Nella kermesse l’Italia ha ottenuto complessivamente 9 medaglie d’oro, 29 argenti e 27 bronzi, ma non è riuscita a piazzare nessun esemplare nei top 16, tra i quali è stato eletto il campione mondiale, Le Gruyère AOP Premier Cru, Cremo SA brand della svizzera von Muhlenen, che ha ottenuto 69 degli 80 punti massimi, uno in più dei due formaggi arrivati secondi, Tomme Brebis-Chèvre, della francese Onetik e la Burrata di La Credenza, importatore di formaggi italiani con sede a Londra.

L’Italia ha però ottenuto quattro posti tra i primi 62 formaggi, i cosiddetti Super Gold, con due Parmigiani del reggiano  Consorzio Conva, il pecorino stagionato Moliternum Giganteum della sarda Central e il San Pietro in Cera d’Api della Latteria Perenzin, nel trevigiano.

L’anno prossimo il campionato si svolgerà a San Sebastian, in Spagna


Porta Osio, cena con i vini di “Poderi e Cantine Oddero”

OdderoPorta Osio, l’enoteca con cucina di via Moroni 180, a Bergamo, organizza per il 9 dicembre, alle 20, una serata con “Poderi e Cantine Oddero”, un marchio storico tra i produttori di Barolo. Rimaste per generazioni in mani maschili, le cantine Oddero sono oggi di proprietà di Mariacristina e Mariavittoria, figlie di Giacomo Oddero, patriarca del Barolo e personaggio noto non solo in terra di Langa. Con sapienza antica, unitamente alle più aggiornate tecniche produttive, la famiglia Oddero segue la produzione dei vini in tutte le sue fasi, partendo dalla potatura fino alla pigiatura e all’affinamento. I vigneti sono sparsi nelle migliori posizioni soleggiate (sorì) delle colline della zona del Barolo e Barbaresco, del Moscato e della Barbera d’Asti. L’azienda produce vini di pregio e grande finezza; perfetta espressione della tipicità del territorio piemontese.

Il menù contempla Stuzzichini caldi dello chef abbinati alla Barbera superiore 2012, quindi si prosegue con l’Arrotolato di coniglio e pancetta con purè di mele renette e radicchio trevisano arrostito (Langhe  Nebbiolo 2012), col Risotto carnaroli “Riserva S. Massimo” mantecato con fagioli borlotti, essenza di mandarino e pasta di salsiccia croccante (Barbaresco Gallina 2011), la Guancia di manzo brasata al barolo con chicchi di caffè, servita con polenta di farina bramata delle nostre valli (Barolo di Castiglione 2010) e col Tortino caprese alle mandorle di Avola con caramello di zucca e amaretto sbriciolato servito con il Moscato d’Asti “Cascina Fiori” 2015.

Il costo  a persona è di 80 euro vini e bevande compresi. Informazioni e  prenotazioni:  info@portaosio.net, 035-219297.


Pampero, quella la brezza marina che spira sul lago di Endine

Forse è solo una sensazione personale ma il nome Pampero, associato ad un ristorante, evoca l’immagine di un locale nel quale sia la carne, magari un asado argentino, e non certo il pesce di mare a farla da padrone. Nel caso del Pampero di Ranzanico al Lago, in via Nazionale 229, la chiave corretta di lettura viene offerta dal dorso di un’elegante brochure edita nel 2007 in occasione del trentesimo anniversario di attività: Pampero è il vento rinfrescante delle pampas sudamericane che addolcisce i picchi torridi estivi, è una brezza di rinnovamento.

E il senso di freschezza, ma anche di particolare cura, è quello che accoglie non appena si entra nel parcheggio incontrando un graziosissimo laghetto artificiale con ninfee e germani reali che sembra voler lanciare una sua sfida personale al lago di Endine appena al di là della strada.

Quasi quarant’anni portati egregiamente è il minimo che si può dire del Pampero, spazioso per i suoi circa cinquanta coperti e arredato con sobria eleganza, mentre per l’estate c’è anche la terrazza con vista sul lago. Un locale di livello, come conferma anche la segnalazione nella guida Michelin.

I fratelli Tiziano e Celestino Ferrari avevano rispettivamente 21 e 23 anni quando sono partiti da Fino del Monte e hanno iniziato questa avventura nel 1977, giovani ma con le idee molto chiare. «Il locale era un bar quando lo abbiamo rilevato – racconta Tiziano che è lo chef – poi siamo cresciuti piano piano sino a raggiungere la struttura attuale e a consolidare la nostra presenza come punto di riferimento per la cucina di mare. Abbiamo puntato sin dall’inizio sul pesce».

pampero piatti (1)Pesce di mare in riva ad un lago, forse un controsenso? «Nel cuore e nella testa ho il mare perciò il pesce è indiscutibile protagonista della mia cucina – dice senza esitazione -. L’ho scelto perché credo in una cucina fatta al momento, con tempi di cottura ridotti, ripulita dal superfluo e con il meno possibile di grassi. Una cucina naturale che valorizzi la qualità della materia prima».

“Poco ma pensato” è il motto che sembra suggerire il menù del Pampero, che in una pagina condensa le proposte della cucina, riservando comunque per ogni portata almeno due voci ai prodotti della terra, con piatti che, tra l’altro, suonano più che stimolanti, come i tortelli ricotta e paruch di montagna o il rognoncino di vitello con crostini di polenta e senape. Sei antipasti, cinque primi e cinque secondi costituiscono invece l’orizzonte nel quale spaziare alla ricerca del piatto di pesce più gradito, magari lasciandosi consigliare da Celestino Ferrari.

Pampero salaFin dalla descrizione emerge la costante ricerca e la cifra di una cucina in evoluzione. Un buon modo per apprezzarla può essere il menù degustazione di pesce, proposto a 63 euro a persona, dolce, caffè e vino compresi. Tartar di ricciola, filetto di tonno rosso con agretto di lampone e salmone marinato agli agrumi, trilogia di mare in cotture diverse quali antipasti. Risotto al basilico, granciporro e zucchine croccanti come primo seguito da boccon di pescatrice su battuta di funghi porcini e vaniglia, per dessert pesche caramellate all’amaretto. Il Pampero aderisce anche all’iniziativa trentacinqueuro.it con un interessante menù guidato al prezzo, come vuole il circuito, di 35 euro per un minimo di due persone. E non mancano serate speciali e a tema.

«Mi aggiorno continuamente confrontandomi anche con i colleghi – conclude Tiziano Ferrari – e definisco la mia cucina classica con innovazione ma soprattutto grande attenzione alla qualità degli ingredienti. Del lago? Apprezzo in modo forse non del tutto consueto quello che mi offre: la selvaggina e i funghi quando ci sono. Cucino per passione, per trasmettere emozioni».

Nel 1999 i fratelli Ferrari hanno coronato un altro dei loro sogni tornando a Fino del Monte, all’Hotel Ristorante Garden dove opera personale di piena fiducia sotto la loro diretta supervisione.
Ristorante Pampero

In cantina oltre 800 etichette. A sorpresa dominano i grandi rossi

pampero cantinaCon le sue oltre ottocento etichette, la carta dei vini del Pampero si propone come una delle più corpose ed interessanti offerte dal panorama della ristorazione provinciale. Cantina a temperatura e umidità controllate, selezione che spazia tra i rossi, i bianchi, le bollicine e i distillati nazionali e stranieri per offrire un’ampia e qualificata scelta a clienti del ristorante, ma anche a quanti sono alla ricerca di qualche prodotto d’eccellenza da degustare magari a casa in compagnia di amici. Anche un servizio di enoteca, quindi, dietro al quale è evidente come l’attenzione vada oltre gli interessi commerciali rivelando un’autentica passione. amore

«Abbiamo curato la cantina sin dall’inizio della nostra attività ed è un settore al quale, personalmente, tengo molto – racconta Celestino Ferrari che nella conduzione del ristorante si occupa della sala –. Per le nostre esigenze forse sarebbe bastato anche meno, visto che la nostra è una cucina a base di pesce ed una buona selezione di vini bianchi sarebbe anche potuta bastare. Ma, come si suol dire, al cuor non si comanda ed è così che siamo arrivati a numeri e a nomi decisamente importanti».

La passione per il vino Celestino l’ha coltivata anche attraverso costanti aggiornamenti dopo aver frequentato i tre corsi annuali organizzati dall’Ais, l’Associazione Italiana Sommeliers. «La presenza delle etichette di tutti i grandi vini rossi italiani e francesi è frutto soprattutto dei miei interessi – confessa -. Per molti dei grandi bianchi e dei grandi rossi possiamo proporre una selezione che spazia a ritroso nel tempo per le dieci annate indicate come migliori. È notevole nella nostra cantina anche la presenza della bollicine con diverse marche di champagne ed i produttori nazionali più importanti. Sì, con un certo orgoglio posso affermare tranquillamente che i grandi classici soprattutto piemontesi e toscani ci sono tutti con qualche presenza anche di eccellenze della altre regioni».

E per la serie che al Pampero non ci lascia mancare nulla un bello spazio lo hanno anche i distillati. «Sono per il piacere del dopo tavola – suggella Celestino –. Abbiamo gli whisky più pregiati di diversa provenienza e poi rum, cognac e Bas Armagnac. Ma non ci facciamo prendere da manie esterofile: abbiamo infatti una buona serie di grappe italiane».

via Nazionale, 229
Ranzanico al Lago
tel. 035 811304
www.ristorantepampero.com
chiuso il lunedì e martedì a mezzogiorno


Cuochi Bergamaschi, l’Associazione cresce ancora

Cresce l’Associazione Cuochi Bergamaschi, che ha celebrato la scorsa settimana uno dei momenti clou della vita associativa, il Natale del Cuoco, occasione per ritrovarsi e fare il punto dell’annata e dei programmi, nonché per dare il via al tesseramento per il nuovo anno, prima di tuffarsi in un periodo impegnativo nel lavoro, quello dei pranzi e delle cene delle Feste.

Al ristorante Papillon di Torre Boldone si sono date appuntamento ben 260 persone, di cui 210 tra cuochi professionisti ed allievi delle scuole alberghiere, un numero che, sommato agli iscritti non presenti alla serata, porta a stimare che gli associati 2016 arriveranno oltre la soglia toccata quest’anno.

«L’aria di rinnovamento è tangibile – commenta il segretario dell’Associazione Fabrizio Camer -. Sulla spinta del congresso FIC “Cuoco 3.0” le aziende sono tornate a seguire con interesse la nostra Associazione», che, dal canto suo, non ha mancato di proporre nel corso dell’anno incontri di formazione, approfondimenti, degustazioni, appuntamenti pubblici e solidali, concorsi e persino sfide sportive.

Nel corso della serata, caratterizzata dal menù raffinato proposto dalla famiglia Ghilardi con la collaborazione della Scuola Alberghiera di San Pellegrino, è stato attribuito al presidente Roberto Benussi un riconoscimento alla carriera e come testimonianza dell’ottimo lavoro svolto per i cuochi.

Presente anche la Nazionale Cuochi Junior, che ha tre le sue fila due bergamaschi, l’allenatore Francesco Gotti e un nuovo componente, Andrea Tiziani.

A rendere ancor più gustoso il dopocena hanno contribuito poi le gag esilaranti del Ragionier Lodetti direttamente da “Tu Si Que Vales” e una lotteria da record, resa possibile grazie a numerosi premi offerti dagli sponsor della serata.

 


Dalle farine alternative alle bacche di goji, le novità dei creativi del pane

Per i nostri nonni il pane era un alimento importante, la michetta soffiata era immancabile sulle tavole. Oggi di pane se ne consuma molto meno e la clientela è diventata più esigente, chiede prodotti nuovi, dal gusto particolare, con un occhio alla salute e limitato nel contenuto calorico. Anche i panettieri della Bassa Bergamasca stanno rispondono alle nuove esigenze del mercato proponendo pani con ingredienti originali e farine alternative. Ecco qualche esempio.

Treviglio

Amaranto e quinoa, ecco il mix vincente del Panificio Testa

Matteo Testa - panificio - TreviglioIl Panificio Testa, in via Zara, a Treviglio produce un nuovo tipo di pane a base di quinoa e amaranto. I due componenti, chiamati impropriamente grano, sono in realtà due piante. La quinoa contiene acido linoleico ed è una buona fonte di minerali e vitamine, è molto consumata dalle popolazioni andine in Perù e il suo nome significa “madre di tutti i semi”. L’amaranto è invece una pianta del centro America, ricca di proteine (ne possiede fino al 16 per cento). I due vegetali, simili a cereali, sono difficili da panificare poiché lievitano a fatica, ma in macinazione si comportano come il frumento. Ad avere l’intuizione sul nuovo prodotto è stato Matteo Testa, artigiano con la voglia di sperimentare, contitolare del laboratorio di famiglia insieme al fratello Andrea e a mamma Lucia.

Il risultato finale si ottiene mescolando le due farine a lupino e soia spezzati, semi di lino, semi di girasole, farina di segale tostata, semola di grano duro, sale marino e lievito madre. Il trevigliese attinge a un mulino di Merano, in Alto Adige, che macina farine scure come segale, kamut in purezza e frumento della Val Venosta. La peculiarità è un pane molto digeribile, che evita gonfiori dovuti a sfarinati di grano tenero e ha una durata – se ben conservato nel suo sacchetto senza metterlo nel frigorifero né nel freezer – di tre/quattro giorni. Il contenuto calorico limitato, gli zuccheri praticamente inesistenti, la ricchezza di fibra, rendono il pane di quinoa e amaranto molto richiesto da chi è attento alla linea. Il costo è di 8,5 euro al chilogrammo e il panificio trevigliese ne sforna ogni giorno quaranta pagnotte da mezzo chilo ciascuna, per un fabbisogno di 20 chili quotidiani.

Caravaggio

Al Forno di Nino il grano è coltivato in proprio. Ma il segreto sono le patate

Al Forno di Nino, a Caravaggio, in via Bietti, di proprietà della famiglia Stuani fin dagli anni Sessanta, si prepara un pane integrale che arriva direttamente dal campo. A farlo è Luca Anderloni, che macina il grano che ha seminato nei suoi terreni a Vedeseta, a mille metri d’altezza, nella Val Taleggio. Il procedimento consente di  mantenere intatto il germe, l’elemento nutritivo più prezioso del chicco che di solito viene separato, nella produzione, perché farebbe andare a male la farina. Al fornaio bergamasco non accade poiché macina ogni settimana. Prima avviene la semina, poi la raccolta del frumento tenero. Il sabato si ritira in montagna, dove pulisce e immagazzina fino a quaranta chilogrammi di grano che viene frantumato nei suoi tre mulini. Uno di questo, piccolino, dietro il negozio, serve per le dimostrazioni ai bambini.

Il fornaio agricoltore coltiva anche goji, frumento, segale e patate e si è informato studiando i ricettari di una volta. Libri e farina sono una peculiarità della panetteria che ospita anche un’area adibita a biblioteca, dove si può sfogliare un romanzo gustando il pane. Leggendo, Anderloni ha scoperto che proprio il tubero si presta a essere l’ingrediente che sostituisce lo strutto, come accadeva nella tradizione contadina che imponeva di usare per fare il pane in casa le verdure avanzate come zucca e patata. La quantità di patata da aggiungere è da condimento, il 3 per cento. Il procedimento è la biga, che si usa per le preparazioni casalinghe: si parte dall’impasto omogeneo preparato con farina, acqua e lievito, si lascia riposare per 18 ore e si riprende aggiungendo lievito e acqua man mano che cresce la forma.

Il costo è contenuto, 3,90 euro al chilo, per una produzione di 15 chili al giorno su un totale di due quintali. Anche il sapore è più genuino e l’aroma è quello del pane fatto in casa. Il contenuto elevato di fibre lo rende, invece, più salutare. L’abbinamento è con ogni piatto, anche se l’integrale si presta alla preparazione di bruschette a base di pancetta e grana, pomodoro e mozzarella di bufala, gorgonzola e miele, meglio se accompagnato da un bicchiere di buon vino bianco.

Urgnano

Suardelli, qui la differenza la fanno le bacche di Goji

Andrea Suardelli - fornaio - UrgnanoAma innovare, cercare ingredienti inconsueti che scopre nei suoi viaggi Andrea Suardelli, titolare con i genitori dell’omonimo forno e negozio in via Locatelli, a Urgnano. Ad avviare il laboratorio è stato il nonno paterno fin dagli anni Sessanta, mentre dal ramo materno si è arrivati alla quinta generazione di panettieri. Andrea continua il mestiere di famiglia nel segno dell’innovazione che parte dalla colazione.

Sempre più spesso si consumano frutti rossi, ricchi di antiossidanti e vitamine, i più preziosi sono le bacche di Goji che il giovane panettiere ha deciso di sostituire al cioccolato dei panini dolci. L’immaginario attinge al sofficissimo pan gocciole, prodotto da una nota multinazionale, solo che a dare il sapore sono i frutti orientali dalla forma allungata che crescono in modo spontaneo nelle valli dell’Himalaya e oggi sono coltivati anche da noi. La tecnica è la biga, con l’impasto lasciato riposare per 24 ore. Solo verso la fine si aggiungono lo zucchero di canna e le bacche. Non mancano il burro e il sale per esaltare i sapori e rafforzare i legami dell’impasto. Le bacche rappresentano il 5 per cento del prodotto. Una parte viene amalgamata, altre rimangono intere come guarnizione. Essendo disidratate, sono lasciate a bagno tutta la notte per ammorbidirsi. La loro acqua è poi usata per realizzare il pane. Lo stesso pan gocciole si può produrre con ogni tipo di frutto, dall’uvetta ai mirtilli rossi del Canada, purché non fresco dal momento che in cottura si sgretolerebbe. Le tartine profumatissime sono perfette per spalmarci sopra miele o marmellate. Il costo è di 60-70 centesimi a tartina (circa 7 euro al chilo).

Romano di Lombardia

Finazzi Alcide & Giovanni, la baguette è reinterpretata alla moda pugliese

Originalità anche a Romano di Lombardia, dove un panificio artigianale realizza una baguette francese, rivisitata secondo la tradizione contadina pugliese.  La novità proviene dal laboratorio di Giovanni Finazzi, fondato insieme al fratello Alcide cinquant’anni fa in vicolo San Giorgio, che ha mantenuto una conduzione che si è tramandata di generazione in generazione. Il forno ha scelto di puntare sulla farina di grano duro, la stessa che si usa per produrre la pasta, ma anche per pizze, focacce e altri lievitati, perché meno raffinata e più genuina. A fornire la materia prima sono proprio i mulini dell’Italia meridionale, dove cresce la varietà che necessita di molto sole. Con la semola viene impastato il filoncino di pane e non la classica pagnotta rotondeggiante. La forma allungata e l’impasto, di colore giallognolo e più granuloso, permettono di avere una maggiore croccantezza all’esterno, mentre l’interno resta soffice.

La farina di grano duro, a differenza della 00, vanta una ricchezza nutritiva per la maggiore quantità di proteine contenuta ed è più facile da digerire. La baguette di grano duro si abbina a tutti i piatti, anche se è irresistibile da sola appena sfornata oppure, svuotata della mollica, farcita a piacere con dolce o salato. Il costo è 3 euro al chilo. Un pezzo, lungo circa 60 centimetri, pesa sui 250 grammi e il panificio romanese ne sforna due quintali al giorno su una produzione complessiva pari a 800 chilogrammi.

Canonica d’Adda

Ricuperati, a ruba il pane agli 8 cereali. E l’Albero della vita lo fa primeggiare

Gianni Ricuperati - fornaio - Canonica d'AddaA Canonica d’Adda fare il pane è un’arte, come dimostra l’attività di Gianni Ricuperati, titolare dal 1990 di un laboratorio in via Matteotti e della rivendita in piazza del Comune. Le prime creazioni risalgono a quando aveva nove anni. La passione da allora non è cambiata. Basta dare uno sguardo alla vetrina della sua panetteria, con l’Albero della Vita, attrazione principale di Expo, ricostruito in pasta di pane e illuminato giorno e notte, per capire che non è un semplice artigiano. Grazie all’idea, ha vinto il concorso per la miglior vetrina. Le varietà di prodotto sono diverse decine, cambiate ogni giorno per non annoiare il palato. Il fiore all’occhiello è il pane scuro e integrale, in particolare agli otto cereali: per quest’ultimo la richiesta, ogni sabato, è di quindici chilogrammi.

Ricuperati, come facevano i panificatori una volta, compila un diario settimanale, dove sono annotate le preferenze della clientela e talvolta anche riguardo alla forma che varia dalle rose ai bastoncini, dalle baguette alle pagnotte. E l’otto cereali ha superato la classica michetta soffiata. L’impasto comprende farina integrale di grano tenero, farina di grano tenero, di segale, orzo, avena, granoturco, soia, semi interi di sesamo e lino. Il successo è dovuto alle sue proprietà, che lo elevano a “medicina naturale”: il pane scuro è più digeribile, meno calorico, ha un buon sapore e si accompagna a qualunque piatto. Essendo grezzo, mantiene maggiormente l’umidità, rimanendo croccante all’esterno e morbido all’interno. Il prezzo è 5 euro al chilo.


Cavoli e dintorni, a Bergamo vince la tradizione

«Sapete come nascono i bambini? Sotto un cavolo», esclamavano divertite e con un pizzico di malizia le contadine affaccendate nei campi, quando vedevano passare qualche giovanotto. Quelle ragazze, che nel secolo scorso raccoglievano cavoli nelle piantagioni dell’Europa centrale con un punteruolo di legno, erano chiamate levatrici. Proprio come le ostetriche. Già, perché il loro compito era tagliare il cordone ombelicale che legava metaforicamente questi ortaggi alla terra. Eppure, la fantasiosa interpretazione di quelle giovani donne laboriose sull’origine della vita traeva spunto da presupposti reali. Simbolo di fecondità, il cavolo veniva seminato in marzo e raccolto dopo circa 9 mesi, come accade per la gestazione. In passato questa pianta rappresentava l’unico alimento capace di garantire il giusto apporto di vitamine e sali minerali nei freddi periodi invernali. E ancora oggi resta una delle verdure più gettonate, grazie alle molteplici proprietà benefiche e antitumorali decantate da esperti nutrizionisti.

Cavolo verza all'OrtomercatoArancioni, verde smeraldo e persino viola, le varietà di cavolo presenti in natura sono le più disparate. Nell’arco dei millenni, infatti, la grande famiglia delle brassicacee ha subito parecchi incroci che hanno prodotto una gamma pressoché infinita di queste piante. Dal pak choi orientale al cavolo nero toscano, dai broccoli ai cavolini di Bruxelles, dal cavolo riccio a quello rosso, dalle cime di rapa alla verza, c’è davvero l’imbarazzo della scelta per chi vuole sbizzarrirsi tra i fornelli. Eppure i bergamaschi a tavola scelgono quasi sempre la tradizione. E così, quando vanno a fare la spesa, preferiscono andare sul sicuro acquistando i cavolfiori bianchi: «I primi freddi hanno incentivato i consumatori ad acquistare cavoli per i minestroni o per le insalate a base di verdura cotta – conferma Ezio Benigni della BBR ortofrutta, azienda che si occupa di commercio all’ingrosso di frutta e ortaggi freschi o conservati all’Ortomercato di via Borgo Palazzo –. Il più acquistato è il cavolfiore bianco, seguito dal romanesco a piramide, che ha un sapore più dolce, e dai broccoletti. Il cavolo verde tondo, invece, si vende di più nel Bresciano e nel Veronese che in Bergamasca».

Fabio EustacchioIl prezzo dei cavoli può variare in base alla richiesta e alla deperibilità come spiega un produttore, Fabio Eustacchio, Orticola Eustacchio di Levate: «I cavoli che porto all’ortomercato di Bergamo sono stati raccolti il giorno precedente. Più tempo restano sui bancali, più il prezzo scende. Dopo la raccolta, un cavolo può durare circa una settimana prima di finire in padella. Ovviamente, prima lo si consuma, maggiori sono le proprietà nutritive di questo ortaggio. Per esempio a metà ottobre vendevo cavolfiori, broccoletti e cavolo romanesco a 80 centesimi al chilo, a fine ottobre a 1,20/1,50 al chilo. Il cavolo verza, invece, ha prezzi più stabili dai 40 ai 60 centesimi al chilo. Il problema è che ormai la gente è poco abituata a seguire la stagionalità di un prodotto. Oggi si trovano frutti e ortaggi estivi tutto l’anno, ma il prezzo in inverno è il doppio e la qualità è inferiore. E noi produttori diventiamo matti per accontentare il cliente». Dietro ogni ortaggio che finisce sui bancali, insomma, si nasconde una lunga storia. «E se i clienti la conoscessero – prosegue Fabio Eustacchio – pagherebbero volentieri il doppio per portarsi a casa questi cavoli. Per me lavorare è una passione, dormo pochissimo, mi alzo alle 2.30 per andare all’ortomercato di Bergamo a vendere la mia verdura. Ho 30 anni e lavoro in questa azienda insieme a mio padre Ferrante, a mio fratello e a mio zio da quando ne avevo 15. I cavoli che sto vendendo in questo periodo li ho seminati a maggio e raccolti a ottobre. Abbiamo avuto un buon raccolto, nonostante il caldo estivo. Per fortuna non ci sono state forti grandinate. Quando ad agosto la temperatura è salita a quasi 40 gradi, ho passato intere giornate a innaffiare le mie piantine e c’è una grande soddisfazione quando alla fine le vedi crescere bene, proprio come un figlio. Il vero ortolano non ha l’orologio al polso, segue la luce del sole. Quando viene buio presto, si passa dai campi al magazzino».

In generale, il consumo di cavoli quest’autunno è aumentato. Cavolfiore bianco, broccoletti e cavolo romanesco restano i più gettonati mentre le varietà colorate, dal viola all’arancione, rappresentano un mercato di nicchia e, vista la richiesta limitata, parecchi agricoltori sono restii a produrlo. A confermare questa tendenza è Martino Bonacina che, insieme al fratello Giancarlo, gestisce un’azienda agricola in via San Martino della Pigrizia: «Ho provato a coltivare i cavolfiori viola ma su 50 piante raccolte, 30 le ho mangiate io perché i bergamaschi preferiscono i prodotti classici. I tradizionali cavolfiori bianchi sono quelli che vanno di più. Al secondo posto c’è il cavolo romanesco a pigna. Qui sui colli i cavoli crescono molto meglio che in altre zone della Bergamasca. Il clima, l’orientamento dei raggi solari, la posizione, favoriscono la produzione. Ultimamente va molto di moda anche il cavolo nero. Colpa di Antonella Clerici – è la sua spiegazione – che nel suo programma ha sponsorizzato molto questa varietà che, fino a qualche tempo fa, era appannaggio della Toscana. Vista la crescente richiesta, l’anno prossimo ne produrrò qualcuno in più».

Angelo ViscardiTra le biodiversità più amate nel nostro territorio c’è poi una produzione autoctona: il cavolfiore dei Colli di Bergamo. Merito delle sue piccole dimensioni e delle sue foglie tenere. A coltivarlo da anni, con cura e dedizione, è Angelo Viscardi che nella sua azienda agricola in Borgo Canale fa crescere questi cavolfiori i cui semi vengono tramandati da generazioni. «Tutto è iniziato con mio nonno Luigi, poi è subentrato mio papà Battista e ora tocca a me conservare e preservare questa semenza di cavolo marzatico. Sono ormai rimasto uno dei pochi contadini a produrla. Ad ogni raccolto si selezionano i semi delle piante più belle e si riseminano la stagione successiva. Il mio cavolfiore si differenzia da quelli che si trovano in commercio perché è più piccolo e ha un colore panna-avorio. Le sue foglie sono così tenere che si possono mangiare cotte nel minestrone, hanno molte proprietà benefiche e curative. Sui Colli il mio cavolfiore cresce bene perché resiste alle gelate. Coltivo anche il cavolo nero perché c’è molta richiesta ma non con semi autoprodotti. E poi ho le foglie di verza che sono molto utilizzate nei ristoranti della Valle Seriana, in particolare a Clusone, per la preparazione del Capù, involtino di verza ripieno di carne trita».


Vino, la 4R diventa produttrice e recupera un vigneto nel centro di Rosciate

La 4R-Villa Domizia  di Torre de’ Roveri ha siglato un’alleanza con la Cantina Sociale Bergamasca di San Paolo d’Argon per ristrutturare e rilanciare 10 ettari di vigneto nel centro di Rosciate.

Un nuovo e interessante progetto si aggiunge quindi alle attività dell’azienda commerciale – tra le più vivaci nel settore della distribuzione di bevande e di vino, in primis per la zona orobica -, che da tempo ha sposato la causa del vino del territorio, diventando protagonista anche nella produzione, ormai prossima alla soglia delle 70mila bottiglie all’anno. Dal 1995, infatti, la 4R ha iniziato a dar vita a una gamma di vini in bottiglia in grado di rivalutare il territorio secondo un preciso disegno strategico e progettuale. Il tutto nella consapevolezza delle grandi opportunità offerte dai vini a denominazione di origine e con la voglia di offrire un concreto contributo alla tutela e alla promozione, tanto che il 7 marzo del 2002 la 4R è entrata a far parte del Consorzio Tutela Valcalepio, che tra l’altro uno dei quattro fratelli Rota, Enrico, presiederà dal 2011 al 2014.

«Da allora – spiega Giampietro Rota, presidente della 4R – la nostra passione e ricerca non ha più avuto tregua. E il percorso avviato ci ha portato a concludere anche un accordo storico con il maggior produttore di uve e di vino di Bergamo: la Cantina Sociale Bergamasca. La scelta sulla Cooperativa di San Paolo d’Argon, quale partner di riferimento, è assai facile da spiegare. La Cantina Sociale Bergamasca da sempre rappresenta il fulcro dell’innovazione in Valcalepio e da tempo desiderava intraprendere la strada della produzione biologica. Se a questo sommiamo il fatto che con la dirigenza della Cantina stessa è in atto una forte e motivata collaborazione da ormai 15 anni, diventa scontato comprendere i presupposti della scelta».

«Assieme a loro – annuncia Rota – abbiamo dato vita a un progetto ventennale che comprende la ristrutturazione e la lavorazione in comune di un vigneto di quasi 10 ettari nel comune di Scanzo, proprio nel centro di Rosciate. La novità, però, riguarda la filosofia che abbiamo scelto di seguire: il vigneto sarà coltivato allo scopo di ottenere una produzione biologica, nel pieno rispetto di quello che, ad ogni effetto, può essere considerato un vero e proprio giardino in mezzo al centro abitato. Strategie chiare, quindi, sempre con una visione lungimirante per anticipare le evoluzioni del mercato, soprattutto quello estero. L’esportazione è diventata per noi parte integrante della nostra missione. I mercati in cui operiamo, dal Lussemburgo al Brasile, dalla Corea del Sud al Belgio, come d’altro canto anche gli altri, sono assai sensibili alla produzione biologica».

L’intenzione è quella di produrre vini quali Valcalepio Bianco Doc, Valcalepio Rosso Doc, Terre del Colleoni Incrocio Manzoni 6.0.13 Doc e Terre del Colleoni Incrocio Terzi Doc. Proprio questi ultimi due vitigni sono oggi ancora poco coltivati a Bergamo e il problema dell’approvvigionamento di queste uve sta diventando assai serio, motivo in più per scegliere di gestire direttamente la produzione di uva. «Senza contare un altro aspetto che ci ha spinti a questa scelta – conclude Rota -, ovvero il contributo alla riqualificazione del territorio: abbiamo sempre insistito sull’importanza del rispetto di quella che è una grande peculiarità dell’enologia in Bergamasca, quella vicinanza ai centri abitati che fa della Valcalepio il “Giardino di Bergamo”. Quella del biologico è una sfida che in pochi hanno accettato nella nostra provincia e noi, assieme alla Cantina Sociale, siamo lieti di fungere ancora una volta da volano per quello che riteniamo essere un plus produttivo importante da presentare sul mercato».