Bergamo, le origini dei casoncelli tra notai, mercanti e imperatori

L’intreccio delle vicende di tre singolari personaggi medievali, ricostruito grazie a recenti contributi storiografici e lessicologici, contribuisce a fare nuova luce su alcuni degli arcani che si celano nella misteriosa notte dei tempi del casoncello. L’eccentrico trio si compone di un notaio, pedante quanto si conviene ad un appartenente alla sua categoria professionale, di un mercante dalle pratiche commerciali tutt’altro che irreprensibili e di un imperatore appassionato di gastronomia.

Il notaio, che di nome faceva Castello Castelli, visse a Bergamo in quell’autentico parapiglia che fu seconda metà del quattordicesimo secolo. Al pari di molti altri colleghi dell’epoca, cui tra le altre incombenze era affidata quella di registrare i principali eventi locali dei quali erano stati testimoni, attraverso i suoi scritti ci ha trasmesso una gran copia di informazioni sulla cultura materiale di quei giorni. Tra queste compaiono appunto due dei più antichi cenni reperibili in letteratura a riguardo del nostro tortello.

Il primo dei passi riferisce che il 13 maggio 1386 in Città Alta si tenne una gran festa, allietata da musiche e danze, cui presero parte più di 2.000 abitanti – ovvero almeno un quarto della rada popolazione urbana di quel periodo. Il cronista riporta puntigliosamente che nell’occasione furono offerte agli astanti più di cento torte – termine che allora designava un timballo salato – e trecento taglieri di artibotuli, altrimenti detti casoncelli.

La seconda citazione, a tinte ben più fosche, allude invece ad una tresca rusticana il cui tragico epilogo si consumò a Stezzano nel 1393. Quivi un malcapitato villico, la cui consorte era stata concupita da un rampollo della casata dei Suardi, venne assassinato su commissione dell’aristocratico per mano di certo Tonolo. Colpiscono le modalità di esecuzione del delitto, perpetrato tramite la somministrazione di artibotuli, ossia casoncelli, avvelenati. Dal testo apprendiamo inoltre che all’omicida venne comminata la pena di morte, mentre il mandante – forte del proprio titolo nobiliare – se la cavò con il bando dalla città.

Non sfugge che in entrambi gli incisi Castelli abbia deliberatamente accostato al vocabolo casoncello, ancor oggi di agevole intelligibilità, l’oscuro sinonimo di artibotulo. Quest’ultimo è un raro termine di conio medievale, decifrabile come insaccato in sfoglia di pane. L’articolazione semantica prescelta dal cronista induce peraltro a presumere che la voce lessicale a noi più familiare designasse una pietanza ampiamente diffusa nella Bergamasca, come documentato dal fattaccio avvenuto nel contado, ma apparentemente ignota ai lettori residenti altrove.

Ulteriori dettagli sull’originaria morfologia della vivanda sono forniti proprio dalla decriptazione del termine artibotulo. Da questa si ricava che, più che un raviolo da sottoporre a bollitura, il casoncello dei primordi dovesse essere una sorta di panzarotto rassodato tramite frittura o infornatura. Tale deduzione pare avvalorata dalle modalità di servizio riferite dal Castelli: il tagliere menzionato dal notaio è un piatto da portata sprovvisto di bordatura, inadatto dunque a raccogliere un alimento cotto in mezzo umido e generosamente irrorato di burro fuso. Il passaggio dal tortello in crosta trecentesco al raviolo da lessare giunto sino ai nostri giorni pare quindi essersi realizzato nel corso del XV secolo: risale infatti alla prima metà del cinquecento la menzione nel Baldus di Teofilo Folengo di cento calderoni pieni di casoncelli, maccheroni e folade, che ad ogni evidenza presuppone il perfezionamento della transizione.

Il secondo dei personaggi cui siamo debitori delle rivelazioni ricevute è un mercante del quale in realtà sappiamo assai poco. Ne conosciamo il nome di battesimo di Giovanni; ci è inoltre noto che fosse originario della nostra città, e dovesse aver visto la luce qualche decennio prima del notaio Castelli. Consta infine che per qualche tempo avesse risieduto a Venezia, in contrada Sant’Apollinare, ma fosse poi dovuto repentinamente riparare a Mantova.

Le ragioni della precipitosa dipartita sono esposte in paio di missive inviate tra il 1366 ed il ’67 dal doge Marco Cornaro a Francesco Gonzaga, provvidenzialmente recuperate dal brillante linguista Alessandro Parenti. In esse il reggente della Serenissima lamentava di essere stato raggirato dal faccendiere bergamasco il quale, dopo aver carpito la sua fiducia, gli aveva preso a credito una grossa partita di tessuti ed altre mercanzie da rivendere in Lombardia. Superfluo soggiungere che il notabile veneziano non rivide indietro il becco di un quattrino, lagnandosi con il Gonzaga dell’aver appreso che il truffatore potesse scorrazzare impunemente nel centro sulle rive del Mincio.

Tra le pieghe di quella che parrebbe una tutt’altro che memorabile frode commerciale si cela nondimeno un dettaglio di considerevole importanza: all’imbroglione, identificato come Johannes de Pergamo, è appioppato l’insolito epiteto di Casoncellus. Il prof. Parenti è indotto a ritenere che il soprannome sottendesse una certa tendenza alla pinguedine dell’assegnatario, ma non sfugge come molti dei nomignoli appiccicati alle enclavi culturali siano storicamente derivati dalla singolarità dei loro usi alimentari. Se ne ricava dunque che già nel cuore del XIV secolo il tortello bergamasco dovesse rappresentare una ben distinguibile icona gastronomica del nostro territorio.

Vale qui soggiungere che le prime testimonianze bresciane a riguardo della pietanza datano ad un’epoca ampiamente posteriore, risalendo alle cronache di Giacomo Melga sulla pestilenza del 1478. Pur non rappresentando una prova risolutiva, è comunque innegabile che l’ampio divario temporale tra le fonti documentali finisca per sminuire l’attendibilità della tesi secondo cui la vivanda possa aver visto la luce sulla sponda orientale dell’Oglio.

L’ultimo componente dell’imprevedibile trio di méntori gastronomici risponde nientemeno che al nome di sua maestà Federico II di Svevia, timoniere del Sacro Romano Impero nella prima metà del XIII secolo. È risaputo che il vulcanico monarca, oltre a doti di impareggiabile stratega, mostrasse un’incorreggibile inclinazione a stili di vita piuttosto eccentrici per i suoi tempi. Affascinato dalla cultura araba tanto da infarcire il proprio seguito di eunuchi mammalucchi e di danzatrici saracene, l’imperatore era perennemente accodato da uno strampalato caravanserraglio di saltimbanchi mori e di animali esotici – tra cui elefanti, dromedari, scimmie e leopardi.

Tra quelle che all’epoca dovevano apparire come incomprensibili stravaganze per un sovrano, risalta l’interesse per le arti conviviali, profondo al punto da tradursi nella codificazione di proprio pugno di diverse ricette di cucina. Nel Liber de coquina – testo redatto intorno al 1300 presso la corte Angioina di Napoli a compendio dell’eredità gastronomica federiciana – compaiono infatti le indicazioni per la preparazione di una pietanza di cavoli secundum usum Imperatoris, che risultano personalmente dettate dal monarca. Se un francamente incolore stufato di verze e finocchi non può trarre immortalità che dall’universale rinomanza del suo ideatore, assai più convincenti paiono le fritelle da Imperatore magnifici riportate nel Libro di Cucina redatto a Venezia nel XIV secolo, il cui approntamento prevede che del formaggio fresco venga fritto in pastella di chiara d’uovo montata a neve con l’aggiunta di pinoli.

Sempre il testo veneziano racchiude due ricette di timballi che rimandano a re Manfredi di Sicilia, figlio prediletto dello Svevo nonché suo designato successore gastronomico: la torta manfreda bona e vantagiata e la torta di re Manfredi da fava frescha. E proprio grazie al rampollo cadetto dell’Imperatore, ed alla traduzione dall’arabo del Taqwim al Sihha di Ibn Buṭlān eseguita su suo impulso verso la metà del XIII secolo, è finalmente dato di chiudere il cerchio gastro-lessicologico che congiunge Federico II al casoncello. L’accostamento per affinità del sembusuch moresco – un raviolo fritto del califfato di Bagdad – all’italico calizon panis, decifrabile come calzoncello di pane, rende infatti perspicua la stretta parentela intercorrente tra quest’ultima vivanda, ad evidenza affermata presso la corte federiciana, ed il pressoché speculare artibotulo del notaio Castelli.

Resta infine da chiarire come sia riuscita a prender piede dalle nostre parti una pietanza che in realtà rivela precipui addentellati con la tradizione gastronomica meridionale. Ancor oggi nelle aree del mezzogiorno – segnatamente Puglia e Campania – che più profondamente subirono l’influsso della corte Sveva, si registra invero una profusione di tortelli fritti, morselletti e focacce imbottite denominati kalzoni, calcioni, calcioncelli e cazuncielli, tutti accomunati dall’involucro di pasta lievitata che caratterizzava anche l’artibotulo bergamasco.

In assenza di evidenze documentali a tale riguardo, balza comunque all’occhio che Bergamo e Cremona fossero schierate al fianco di Federico nella contesa che lo opponeva ai riottosi rimasugli della Lega Lombarda. E proprio a Cremona, storicamente legata alla nostra città da una ferrea alleanza, sono documentati prolungati soggiorni del monarca con il suo bizzarro seguito di eunuchi, odalische e giocolieri. È dunque suggestivo lasciarsi blandire dalla lusinga che il casoncello possa aver rappresentato un simbolico lascito dell’Imperatore ai nostri avi a riconoscimento della fedeltà dimostrata. Se l’antica preparazione non rappresenta pertanto sola farina del sacco bergamasco, è pur vero che per l’ammutinata Brescia la principale memoria legata allo Svevo resti quella della disfatta patita a Cortenuova nel 1237, resa ancor più agra dal risolutivo apporto prestato dalle milizie di Bergamo al trionfo dei lealisti.