Le bugie in un click

Il fenomeno delle false valutazioni rischia di compromettere la credibilità del settore ristorativo. Un nuovo disegno di legge introduce misure per contrastare le recensioni ingannevoli

C’era una volta il “passaparola”, la pratica più diffusa tra amici o in ambito familiare per consigliare o farsi consigliare un luogo da visitare, un film da vedere al cinema o un ristorante dove andare a cena. Con lo sbarco dei social e delle piattaforme online, anche questa usanza si è trasferita in rete, assumendo proporzioni un tempo inimmaginabili. L’abitudine di recensire esperienze – siano queste di luoghi, serie tv, alberghi o locali – ha contagiato tanti, così com’è cresciuta in maniera esponenziale negli ultimi 10-15 anni l’attitudine a rivolgersi alla rete prima di compiere una scelta. Basti pensare che, secondo una recente stima di Fipe, la Federazione italiana dei pubblici esercizi, il 65,5% dei consumatori, ovvero due clienti su tre, prima di scegliere un ristorante legge le recensioni online, attribuendo loro un’importanza centrale per farsi un’idea sul servizio offerto, sulle pietanze e sull’atmosfera generale del locale. Fin qui tutto bene (o quasi). Il problema nasce però quando qualcuno – per ripicca, per ragioni di opportunismo, per questioni di antipatia o semplicemente per divertimento (eh sì, esiste anche questo fenomeno) – inizia a scrivere recensioni che nulla hanno a che fare con il locale di cui stanno parlando.

E siccome, lo abbiamo visto, le recensioni sulle piattaforme online hanno ormai il potere di condizionare fortemente le scelte dei clienti, va da sé che i pareri positivi o negativi espressi per questo o quel locale possono indirizzare per settimane, se non addirittura per mesi, l’andamento delle attività commerciali. Nel bene e nel male.

È un argomento ampio e ricco di sfaccettature, quello che si apre parlando della piaga delle false recensioni; un tema che i ristoratori conoscono bene. C’è chi prova a rispondere colpo su colpo, chi ignora, chi s’imbarca in difficili interlocuzioni con le piattaforme per reclamare i propri diritti, chi ne approfitta e chi infine denuncia. Il risultato di questo movimento è un disegno di legge approvato il 23 dicembre scorso dal Consiglio dei Ministri che introduce misure per contrastare il fenomeno delle recensioni false nel settore della ristorazione e dell’ospitalità. Il provvedimento rappresenta senz’altro un importante passo avanti per tutelare consumatori e imprese, prevedendo il divieto di acquistare o vendere recensioni online, l’obbligo di eliminare i commenti non autentici e la pubblicazione esclusiva di recensioni provenienti da clienti che abbiano effettivamente usufruito del servizio.

Problema risolto? Magari. Posta la “pietra angolare” che dovrebbe costituire l’inizio del cambiamento e il ritorno alla legalità, si affacciano i tanti nodi che s’incontrano sul cammino, dalla collaborazione delle piattaforme – che, vedremo, non è affatto scontata – ai controlli, fino all’impossibilità per un ristoratore di uscire da un sistema nel quale è entrato molto spesso senza volerlo.

«Siamo tutti d’accordo sul fatto che le piattaforme debbano mettere in atto una serie di attività e di azioni che assicurino i requisiti di sicurezza – spiega Luciano Sbraga, vicedirettore di Fipe Confcommercio –. Il problema è capire come lo fanno e come si trova una recensione falsa. Ciò che preoccupa è il fatto che siamo in una fase in cui le piattaforme stanno facendo passi indietro rispetto al passato, ad esempio sulla trasparenza». E questo è già uno scoglio difficile da superare: le recensioni false arrivano da persone che non hanno fatto l’esperienza e oggi, per com’è organizzato il sistema, accertare questo fenomeno non è così semplice. «Attualmente le grandi piattaforme consentono di lasciare recensioni fino a 12 mesi dopo l’esperienza – spiega Sbraga –. Aver introdotto un vincolo a due settimane è un passo in avanti oggettivo, così come il fatto di dover dare una descrizione reale dell’esperienza con riferimenti precisi, ad esempio sul locale o sul menu». Ma la domanda resta: come si fa a verificare la corrispondenza tra l’esperienza e la recensione? «Il problema si può risolvere innanzitutto con una maggiore attenzione da parte delle piattaforme, che oggi hanno strumenti efficaci come filtri, controlli, fino all’intelligenza artificiale, per capire bene cosa c’è dietro un recensore. Dopodiché la soluzione del problema non potrà che passare da ciò che avviene già nel mondo della ricettività (con la piattaforma booking.com, per esempio, ndr) dove la recensione si lascia a fronte di un servizio effettivamente erogato». In altre parole, il futuro per garantire recensioni quantomeno corrispondenti a un’esperienza vissuta, passerà per un sistema di prenotazioni online, dunque tracciato, e di commenti a seguire, un po’ come succede con The Fork. «Bisognerà fare anche una scelta di qualità, a scapito della quantità – continua Sbraga –. Mi spiego: una delle cose che le piattaforme contestano è il fatto che la recensione possa essere lasciata da un solo commensale per tavolo, perché – sostengono loro – l’esperienza la fanno tutti. Tuttavia adottando un sistema tracciato, è sempre necessario sapere chi ha lasciato il commento, anche se il nome online non compare».

In questo modo si potrebbe depotenziare anche il fenomeno della compravendita delle recensioni e il proliferare delle cosiddette «agenzie di ottimizzazione», che si propongono ai ristoratori prospettando un incremento di visibilità e di reputazione per i loro locali. Come? Naturalmente attraverso recensioni false. «In alcuni casi si assiste a veri e propri ricatti – denuncia Sbraga –: se qualcuno non sottostà alle proposte, iniziano a partire recensioni negative a raffica. Ma ci sono anche ristoratori in buona fede che si affidano a queste agenzie pensando che portino recensioni autentiche, salvo poi ritrovarsi in un sistema fasullo e artificioso». Uscire dalle piattaforme e rinunciare ad essere recensito non è possibile, né è una battaglia che la Fipe intende intraprendere: «Su questo argomento nessuno ci verrà mai dietro – ammette Sbraga –, perché è come se si volesse impedire a un cliente di comunicare un’esperienza». In altre parole, sarebbe considerata un po’ come una limitazione della libertà. «Dobbiamo fare in modo piuttosto che i ristoratori si dotino di un sistema di prenotazione che serve a prescindere – conclude Sbraga –, perché non è più possibile andare avanti con le telefonate. Abbiamo raggiunto livelli tali di tecnologia, che affidarsi ancora alle chiamate non è più accettabile, anche per un discorso di organizzazione. Ciò non esclude che il ristoratore possa riservarsi alcuni tavoli da gestire fuori dal sistema di prenotazione. Solo così si potrà ragionare sulle recensioni rispetto a chi ha veramente frequentato il ristorante. Non è un caso che la maggioranza di quelle lasciate su TripAdvisor riguardino ristoranti e non alberghi».


Il coraggio di denunciare. L’esperienza di Vincenzo Colao

Un messaggio sul cellulare, con un’offerta: 100 recensioni positive per il suo «Ripa 12» – il ristorante nel cuore di Trastevere di cui è proprietario – per la modica cifra di 400 euro. Parte da questo episodio il racconto di Vincenzo Colao, ristoratore romano tra i pochi ad aver avuto il coraggio di denunciare. «Ci sono tanti soggetti che si offrono per scrivere recensioni fasulle in rete, da Google a Facebook e persino in Instagram – dice –. Un giorno ricevetti un messaggio su WhatsApp; invece di bloccare il numero, risposi che non mi interessava. La mattina dopo ricevetti un altro messaggio in cui dicevano che se non avessi accettato l’offerta, mi sarebbero arrivate delle recensioni negative».

E lei cos’ha fatto? Sono andato a sporgere denuncia e una volta in questura ho consegnato il telefono al poliziotto che si è messo in contatto con queste persone.

Com’è andata a finire? Quando si sono accorti che dall’altra parte c’era la polizia, hanno bloccato il numero. Non siamo più riusciti a rintracciarlo, ma se non altro non mi hanno fatto nulla. Oggi per fortuna mi arrivano meno messaggi, forse qualcuno ha imparato il mio numero di telefono….

Quale consiglio dà ai ristoratori? C’è una sola cosa da fare, denunciare, come ho fatto io. Ma il problema è che alcuni ci cascano: il ristorante è fatto di cucina e di accoglienza, non di recensioni. Ci sono locali che ancora prima di aprire, partono con centinaia di recensioni positive costruite a tavolino, e questo non va bene.

Insomma, c’è chi ne approfitta, danneggiando la maggioranza di ristoratori onesti. Purtroppo è così e c’è il grande problema che non si riesce a dialogare con le piattaforme e in particolare con Google. La mia fidanzata, che ha un altro ristorante, ha dovuto fare due denunce e pagare almeno duemila euro di avvocati per un commento fasullo pubblicato in rete. Purtroppo se la recensione arriva dall’estero, le piattaforme non ti danno i mezzi per rintracciare gli account e chi ci sta dietro. Ma se qualcuno scrive, deve poter essere rintracciato.

La Fipe auspica l’adozione di un sistema di prenotazioni on-line. È giusto. Non si dovrebbe, per esempio, poter mettere una recensione se non si è stati davvero nel locale. Serve un sistema di prenotazione fatto bene, che contribuirebbe a risolvere anche il problema del no show: c’è gente che prenota ovunque e sceglie all’ultimo dove andare. Prenotando tramite un’unica piattaforma questo si potrebbe evitare.

È difficile mettere in rete tutti i ristoranti. Intanto si potrebbe cominciare con quelli associati alla Fipe. Poi gli altri potrebbero seguire l’esempio.

Se fosse possibile, lei sarebbe disposto a rinunciare alle recensioni, togliendosi da quei siti? Se si potesse fare, io lo farei. D’altronde non è giusto: a questo punto recensiamo tutto e tutti, impiegati di banca, della posta, i medici, gli agenti di polizia, i giornalisti… C’è gente che non sa cucinare una pasta aglio e olio e si prende il lusso di recensire ristoranti per un pizzico di sale in più o in meno nel piatto. Ma se si riuscisse a sconfiggere la rete di coloro che le recensioni le vendono, avremmo tolto di mezzo almeno uno dei problemi.


 SPORTELLO DI FIPE SOS RECENSIONI

“SOS Recensioni” è lo sportello ideato da Fipe per supportare le imprese del settore nei rapporti con le piattaforme. Nato nel 2018 per segnalare recensioni false su TripAdvisor, oggi ha una più ampia funzione: segnalare irregolarità nelle recensioni e le eventuali violazioni da parte delle piattaforme web.

Riguardo alle recensioni si possono segnalare quelle offensive o palesemente false, effettuate da parte di persone che non abbiano effettivamente usufruito del servizio o che, pur avendone usufruito, realizzano una descrizione oggettivamente non vera (es. non ha ordinato le pietanze recensite). Rientrano nei casi da segnalare la minaccia di recensioni negative a fronte della mancata applicazione di sconti o altre utilità. Ma anche qualsiasi irregolarità riscontrata con le piattaforme di intermediazione online (recensioni denigratorie, mancata implementazione di un sistema di monitoraggio, non corretta gestione dei servizi di delivery).

Tutte le segnalazioni devono essere inviate allo sportello SOS Recensioni di Fipe.  Solo così sarà possibile così da raccogliere le informazioni utili e rendere maggiormente consapevoli i policymakers nazionali ed europei dell’importanza di adottare correttivi alle normative in vigore. Per info Confcommercio Bergamo tel 035 4120135.




Zero sprechi

Nella lotta allo sperpero alimentare il settore della ristorazione si distingue grazie a iniziative virtuose e all’impegno sempre crescente di Fipe. 

Se è vero che ci sono numeri da prendere con le pinze (specie quando si parla di ricerche condotte a campione), quelli che ci restituisce il Rapporto Internazionale Waste Watcher 2024 «Lo spreco alimentare nei Paesi del G7: dall’analisi all’azione» – curato dall’Osservatorio Waste Watcher International-Campagna Spreco Zero, dall’Università di Bologna insieme a Ipsos – sono così drammatici da far sperare in un abbaglio. L’argomento è serio, anzi serissimo: si parla di spreco alimentare, di cibo gettato nel cestino, un fenomeno che secondo i risultati della ricerca è in netta crescita tra le famiglie italiane, nonostante le tante campagne di sensibilizzazione promosse negli ultimi anni. Nel 2024 lo spreco di prodotti alimentari è aumentato al punto da far registrare una crescita pari addirittura al 45,6%. Un dato sconcertante, contro ogni auspicio e previsione, e come se gli appelli e le iniziative attorno alla lotta agli sprechi fossero stati spazzati via in un baleno. I dati d’altronde parlano chiaro: secondo la ricerca ogni settimana nelle case degli italiani finiscono nel bidone della spazzatura 683,3 grammi di cibo pro capite, rispetto ai 469,4 grammi rilevati nell’agosto 2023. Nella «top five» dei cibi più sprecati ci sono la frutta fresca (27,1 grammi), le verdure (24,6 grammi), il pane fresco (24,1 grammi), le insalate (22,3 grammi), cipolle, aglio e tuberi (20 grammi), vale a dire tutti prodotti fondamentali della Dieta Mediterranea.

Ora, indipendentemente dalle cause, che pure proveremo ad analizzare, i risultati dell’ultimo rapporto di Waste Watcher non possono che porre degli interrogativi. A determinare l’aumento dello sperpero alimentare nel nostro Paese si evidenziano, per esempio, alcuni elementi critici individuabili proprio nella scarsa qualità dei prodotti acquistati. Il 42% delle risposte individua la causa dello spreco familiare nel fatto di dover buttare la frutta e la verdura conservata nelle celle frigo perché una volta portata a casa va subito a male. O ancora, il 37% sostiene di buttare via gli alimenti perché i cibi venduti sono già vecchi. Elementi critici si riscontrano anche nel comportamento dei consumatori. Più di un terzo degli italiani (37%) dimenticano gli alimenti in frigorifero e nella dispensa lasciando che si deteriorino, solo il 23% è disposto a programmare i pasti settimanali, inoltre il 75% non è disposto o non è capace di rielaborare gli avanzi in modo creativo per evitare di gettarli.

Fin qui i numeri del fenomeno in ambito “privato”, un segmento che rappresenta il focus della ricerca. Nelle nostre case finisce nella spazzatura il 70% della quantità di cibo sprecato lungo tutta la filiera, a partire dalla terra. La buona notizia da leggere in filigrana è che in questo contesto così «drammatico» la componente virtuosa della filiera è quella degli operatori della ristorazione: nei bar e soprattutto nei ristoranti non viene buttato via quasi nulla e, anzi, sono tante le iniziative per tenere alta l’attenzione e sensibilizzare sul tema. Non a caso la campagna “Zero sprechi” si è avvalsa quest’anno di una testimonial presa in prestito dalla cucina di un ristorante, vale a dire la chef stellata Cristina Bowerman.

Ma torniamo ad analizzare i risultati dell’analisi condotta dall’osservatorio Waste Watchers, partendo da una considerazione di Andrea Segrè, direttore scientifico Waste Watcher International – Campagna Spreco Zero, Università di Bologna. «Abbiamo iniziato a studiare il fenomeno negli anni Novanta, quando era ancora poco conosciuto – dice –. Stiamo coinvolgendo da tempo anche le istituzioni, ma bisogna fare di più perché i dati sono tutt’altro che incoraggianti. Ciò che si spreca tra le mura domestiche non è purtroppo recuperabile. I numeri, per quanto sconfortanti, non riescono a fare breccia sulla nostra sensibilità. Stiamo parlando di pochi grammi al giorno pro capite e dunque le persone non si accorgono dello spreco. Se però moltiplichiamo quel dato per il numero dei consumatori, i giorni dell’anno e il valore medio dei prodotti, si arriva a cifre molto elevate».

Detto che serve uno sforzo maggiore per sensibilizzare la popolazione, tanto si sta già facendo nei ristoranti: «Con Fipe abbiamo un legame particolare attraverso lo “Sprecometro”, un’app che misura lo spreco alimentare – racconta Segrè –. Abbiamo poi attivato un particolare osservatorio sullo spreco extra domestico, monitorando mense e ristoranti. L’obiettivo è raccogliere dati che ancora non sono disponibili. I primi risultati dimostrano però come lo spreco nella ristorazione sia modestissimo, sia per una questione economica, sia perché ormai la maggior parte dei ristoratori danno la possibilità ai clienti di portare a casa il cibo avanzato».

“Rimpiattino” è il nome che nel 2018 è uscito da un concorso nazionale lanciato da Fipe tra centinaia di ristoratori per declinare all’italiana la cosiddetta “doggy bag”. Nato in collaborazione con Comieco da un’idea del presidente Amelio Cecchini, non è un vero e proprio neologismo (il termine, in fondo, è preso in prestito dal gioco del classico nascondino) ma un’espressione che riporta alla cultura, tutta italiana, del “rimpiattare”, ovvero del saper rielaborare gli avanzi del giorno precedente perché il cibo non si spreca non solo, o non tanto, per ragioni economiche ma anche per rispetto alla fatica e al lavoro necessari per portarlo in tavola e di tutti coloro che ogni giorno fanno fatica per procurarselo. Secondo tre ristoratori su quattro questa iniziativa – che consiste nel dare ai clienti una scatola contenente il cibo avanzato – è determinante per ridurre lo spreco alimentare e allo stesso tempo per migliorare la percezione del locale agli occhi del cliente. Ad oggi sono 24mila i rimpiattini distribuiti in 875 ristoranti di 22 città italiane, tra cui Bergamo.

«Nei ristoranti di spreco alimentare non ce n’è, oltre che per un’attenzione particolare da parte del ristoratore, anche per una questione economica – puntualizza Matteo Musacci, presidente del Gruppo Giovani di Fipe –. E ciò avviene soprattutto da quando i margini si sono ridotti notevolmente. Tanti ingredienti, se invenduti, vengono impiegati in modi diversi, ottimizzandone così l’utilizzo». Tuttavia a fronte di una percentuale di ristoratori in grado di consegnare il cibo avanzato ai loro clienti che sfiora ormai il 90%, i consumatori che chiedono di portare a casa quello che è rimasto nel piatto sono appena il 27%. «Al netto di chi si dichiara non interessato a farlo, c’è un 9% di persone che si vergognano a chiedere, come se fosse un “disonore” – racconta Musacci –. Stiamo parlando però di una pratica che è molto diffusa all’estero. Smarcandosi dall’accezione un po’ negativa della “doggy bag”, l’idea del “rimpiattino” è quella di ricordare che il cibo che si porta a casa potrebbe essere quello avanzato a tavola che siamo abituati a mangiare la sera o il giorno dopo».

La Fipe quest’anno ha lanciato anche un’altra campagna on line denominata “Love food don’t waste” per sensibilizzare soprattutto gli operatori del settore. «Attraverso le Fipe territoriali cerchiamo anche di promuovere incontri nelle province – dice ancora Musacci –. Questa è la nostra battaglia più grande, che deve passare necessariamente dalla sensibilizzazione del ristoratore. Non bisogna aspettare che sia il cliente a chiedere la box, si deve proporla e, naturalmente, essere attrezzati per farlo. Sono azioni semplicissime e a costo zero. E c’è anche un lavoro con le istituzioni locali per “premiare” i ristoratori più virtuosi con agevolazioni sulla raccolta dei rifiuti».

C’è infine un’altra collaborazione che Fipe ha avviato con la piattaforma danese “Too good to go”, approdata di recente anche in Italia. «È una risorsa importante – conclude Musacci – perché l’eventuale spreco, che non è quello del cliente al tavolo, ma eventualmente l’esubero di produzione della cucina, si può vendere a un prezzo più basso, generando comunque un’entrata». In questo caso il cliente che accede alla piattaforma, acquista un piatto senza sapere di cosa si tratta e lo ritira direttamente al ristorante.




Troppo buono per essere sprecato

Nella lotta allo sperpero alimentare il settore della ristorazione si distingue grazie a iniziative virtuose e all’impegno sempre crescente di FipeSe è vero che ci sono numeri da prendere con le pinze (specie quando si parla di ricerche condotte a campione), quelli che ci restituisce il Rapporto Internazionale Waste Watcher 2024 «Lo spreco alimentare nei Paesi del G7: dall’analisi all’azione» – curato dall’Osservatorio Waste Watcher International-Campagna Spreco Zero, dall’Università di Bologna insieme a Ipsos – sono così drammatici da far sperare in un abbaglio. L’argomento è serio, anzi serissimo: si parla di spreco alimentare, di cibo gettato nel cestino, un fenomeno che secondo i risultati della ricerca è in netta crescita tra le famiglie italiane, nonostante le tante campagne di sensibilizzazione promosse negli ultimi anni. Nel 2024 lo spreco di prodotti alimentari è aumentato al punto da far registrare una crescita pari addirittura al 45,6%. Un dato sconcertante, contro ogni auspicio e previsione, e come se gli appelli e le iniziative attorno alla lotta agli sprechi fossero stati spazzati via in un baleno. I dati d’altronde parlano chiaro: secondo la ricerca ogni settimana nelle case degli italiani finiscono nel bidone della spazzatura 683,3 grammi di cibo pro capite, rispetto ai 469,4 grammi rilevati nell’agosto 2023. Nella «top five» dei cibi più sprecati ci sono la frutta fresca (27,1 grammi), le verdure (24,6 grammi), il pane fresco (24,1 grammi), le insalate (22,3 grammi), cipolle, aglio e tuberi (20 grammi), vale a dire tutti prodotti fondamentali della Dieta Mediterranea. 

Ora, indipendentemente dalle cause, che pure proveremo ad analizzare, i risultati dell’ultimo rapporto di Waste Watcher non possono che porre degli interrogativi. A determinare l’aumento dello sperpero alimentare nel nostro Paese si evidenziano, per esempio, alcuni elementi critici individuabili proprio nella scarsa qualità dei prodotti acquistati. Il 42% delle risposte individua la causa dello spreco familiare nel fatto di dover buttare la frutta e la verdura conservata nelle celle frigo perché una volta portata a casa va subito a male. O ancora, il 37% sostiene di buttare via gli alimenti perché i cibi venduti sono già vecchi. Elementi critici si riscontrano anche nel comportamento dei consumatori. Più di un terzo degli italiani (37%) dimenticano gli alimenti in frigorifero e nella dispensa lasciando che si deteriorino, solo il 23% è disposto a programmare i pasti settimanali, inoltre il 75% non è disposto o non è capace di rielaborare gli avanzi in modo creativo per evitare di gettarli.

Fin qui i numeri del fenomeno in ambito “privato”, un segmento che rappresenta il focus della ricerca. Nelle nostre case finisce nella spazzatura il 70% della quantità di cibo sprecato lungo tutta la filiera, a partire dalla terra. La buona notizia da leggere in filigrana è che in questo contesto così «drammatico» la componente virtuosa della filiera è quella degli operatori della ristorazione: nei bar e soprattutto nei ristoranti non viene buttato via quasi nulla e, anzi, sono tante le iniziative per tenere alta l’attenzione e sensibilizzare sul tema. Non a caso la campagna “Zero sprechi” si è avvalsa quest’anno di una testimonial presa in prestito dalla cucina di un ristorante, vale a dire la chef stellata Cristina Bowerman.

Ma torniamo ad analizzare i risultati dell’analisi condotta dall’osservatorio Waste Watchers, partendo da una considerazione di Andrea Segrè, direttore scientifico Waste Watcher International – Campagna Spreco Zero, Università di Bologna. «Abbiamo iniziato a studiare il fenomeno negli anni Novanta, quando era ancora poco conosciuto – dice –. Stiamo coinvolgendo da tempo anche le istituzioni, ma bisogna fare di più perché i dati sono tutt’altro che incoraggianti. Ciò che si spreca tra le mura domestiche non è purtroppo recuperabile. I numeri, per quanto sconfortanti, non riescono a fare breccia sulla nostra sensibilità. Stiamo parlando di pochi grammi al giorno pro capite e dunque le persone non si accorgono dello spreco. Se però moltiplichiamo quel dato per il numero dei consumatori, i giorni dell’anno e il valore medio dei prodotti, si arriva a cifre molto elevate».

Detto che serve uno sforzo maggiore per sensibilizzare la popolazione, tanto si sta già facendo nei ristoranti: «Con Fipe abbiamo un legame particolare attraverso lo “Sprecometro”, un’app che misura lo spreco alimentare – racconta Segrè –. Abbiamo poi attivato un particolare osservatorio sullo spreco extra domestico, monitorando mense e ristoranti. L’obiettivo è raccogliere dati che ancora non sono disponibili. I primi risultati dimostrano però come lo spreco nella ristorazione sia modestissimo, sia per una questione economica, sia perché ormai la maggior parte dei ristoratori danno la possibilità ai clienti di portare a casa il cibo avanzato».

“Rimpiattino” è il nome che nel 2018 è uscito da un concorso nazionale lanciato da Fipe tra centinaia di ristoratori per declinare all’italiana la cosiddetta “doggy bag”. Nato in collaborazione con Comieco da un’idea del presidente Amelio Cecchini, non è un vero e proprio neologismo (il termine, in fondo, è preso in prestito dal gioco del classico nascondino) ma un’espressione che riporta alla cultura, tutta italiana, del “rimpiattare”, ovvero del saper rielaborare gli avanzi del giorno precedente perché il cibo non si spreca non solo, o non tanto, per ragioni economiche ma anche per rispetto alla fatica e al lavoro necessari per portarlo in tavola e di tutti coloro che ogni giorno fanno fatica per procurarselo. Secondo tre ristoratori su quattro questa iniziativa – che consiste nel dare ai clienti una scatola contenente il cibo avanzato – è determinante per ridurre lo spreco alimentare e allo stesso tempo per migliorare la percezione del locale agli occhi del cliente. Ad oggi sono 24mila i rimpiattini distribuiti in 875 ristoranti di 22 città italiane, tra cui Bergamo. 

«Nei ristoranti di spreco alimentare non ce n’è, oltre che per un’attenzione particolare da parte del ristoratore, anche per una questione economica – puntualizza Matteo Musacci, presidente del Gruppo Giovani di Fipe –. E ciò avviene soprattutto da quando i margini si sono ridotti notevolmente. Tanti ingredienti, se invenduti, vengono impiegati in modi diversi, ottimizzandone così l’utilizzo». Tuttavia a fronte di una percentuale di ristoratori in grado di consegnare il cibo avanzato ai loro clienti che sfiora ormai il 90%, i consumatori che chiedono di portare a casa quello che è rimasto nel piatto sono appena il 27%. «Al netto di chi si dichiara non interessato a farlo, c’è un 9% di persone che si vergognano a chiedere, come se fosse un “disonore” – racconta Musacci –. Stiamo parlando però di una pratica che è molto diffusa all’estero. Smarcandosi dall’accezione un po’ negativa della “doggy bag”, l’idea del “rimpiattino” è quella di ricordare che il cibo che si porta a casa potrebbe essere quello avanzato a tavola che siamo abituati a mangiare la sera o il giorno dopo».

La Fipe quest’anno ha lanciato anche un’altra campagna on line denominata “Love food don’t waste” per sensibilizzare soprattutto gli operatori del settore. «Attraverso le Fipe territoriali cerchiamo anche di promuovere incontri nelle province – dice ancora Musacci –. Questa è la nostra battaglia più grande, che deve passare necessariamente dalla sensibilizzazione del ristoratore. Non bisogna aspettare che sia il cliente a chiedere la box, si deve proporla e, naturalmente, essere attrezzati per farlo. Sono azioni semplicissime e a costo zero. E c’è anche un lavoro con le istituzioni locali per “premiare” i ristoratori più virtuosi con agevolazioni sulla raccolta dei rifiuti». 

C’è infine un’altra collaborazione che Fipe ha avviato con la piattaforma danese “Too good to go”, approdata di recente anche in Italia. «È una risorsa importante – conclude Musacci – perché l’eventuale spreco, che non è quello del cliente al tavolo, ma eventualmente l’esubero di produzione della cucina, si può vendere a un prezzo più basso, generando comunque un’entrata». In questo caso il cliente che accede alla piattaforma, acquista un piatto senza sapere di cosa si tratta e lo ritira direttamente al ristorante.

 

I consigli della chef. Parola a Stefania Porcelli di “Checcho er carrettiere” di Roma 

«La spesa? Meglio farne poca per volta, piuttosto che riempire carrelli e frigoriferi e poi buttarla. E se in cucina avanza qualcosa, bisogna riciclare, purtroppo però ci sono tante persone che non hanno voglia di farlo o che non hanno fantasia». Stefania Porcelli, chef e titolare del ristorante «Checco er carrettiere» di Roma, non vuole sentir neppure parlare di gettare il cibo nel cestino. Le chiediamo una ricetta per “salvare” gli eccessi dei pranzi natalizia e lei ci riempie di consigli, uno dietro l’altro, sfoderando la parlantina tipica dei “romani de Roma”. «Sa qual è il problema? La gente non sa più cucinare, oppure si rifiuta di mangiare gli avanzi del giorno prima, che è ancora peggio. A me quando avanza della carne da brodo, il giorno dopo la macino, aggiungo un uovo, 50 grammi di formaggio grattugiato, qualche odore e ci faccio le polpette. E così con un acquisto, ci mangiamo due giorni». Una tecnica replicabile: «Avete troppo formaggio in casa? Per evitare che faccia la muffa, lessate due patate e fateci un sufflè. Il pane avanzato? Lo bagnate nel latte, aggiungete uova e formaggio e ci fate altre polpette. Peccato che non possiamo più farlo seccare al ristorante; una volta lo utilizzavamo anche come pan grattato». E ancora: «Al ristorante, tra dipendenti e familiari, siamo sempre in 15 o 20 a mangiare. Quando avanza qualcosa, lo riscaldiamo il giorno dopo, ma a casa basterebbe avere un po’ di fantasia: c’è gente che mangia la stessa cosa per una settimana dopo il pranzo di Natale e altri che invece buttano via tutto, poi magari acquistano del cibo veloce in friggitoria o al sushi e se lo fanno portare a casa».

Quando si parla d’inventiva, secondo la chef, neppure le tante trasmissioni di cucina pare abbiano insegnato ad essere più estroversi in cucina: «Semmai hanno confuso le idee – dice Stefania Porcelli –. Queste trasmissioni vertono soprattutto sulla cucina gourmet, insegnando preparazioni per le quali servono delle mezze giornate. Prendiamo invece le due fette di prosciutto avanzate, perché non cucinarle per condire un piatto? E le verdure, se oggi le mangiamo bollite, domani possiamo ripassarle in aglio, olio e peperoncino». Idee semplici, quasi persino scontate, che però – dati i risultati dell’Osservatorio Waste Watcher – è sempre bene ricordare. «Nei ristoranti non si spreca – conclude Stefania Porcelli –. Lavoro da 53 anni e se avessi buttato via del cibo, avrei chiuso da un pezzo».




Menù e psiche. Il segreto di un menù vincente 

Il neuromarketing, applicato alla struttura e presentazione del menù, può influenzare in modo determinante le scelte dei consumatori, migliorando la redditività del locale

Questione di gusti, certo, ma anche di emozioni e di psicologia. È vero che in un ristorante a fare la differenza è la cucina, tuttavia la scelta dei piatti può incidere in maniera determinante sull’esperienza a tavola in un locale. E incide anche – in certi casi, soprattutto – per il ristoratore. Si chiama «neuromarketing», ovvero l’applicazione delle conoscenze neuroscientifiche alla strategia di vendita, allo scopo di analizzare ciò che accade inconsapevolmente nella mente del consumatore e che influisce sulle sue decisioni di acquisto. Lo strumento più utilizzato, nella fattispecie, è il menù, vero e proprio biglietto da visita di ogni ristorante. È da come vengono proposte queste pagine che si gioca l’indice di profittabilità di un locale. Tutto sta nel sapere come utilizzarlo. A descrivere la pratica del neuromarketing applicata al menù ci ha pensato Roberto Pone, dell’ufficio Marketing, Innovazione e Internazionalizzazione di Confcommercio, con un test

Roberto Pone

pubblicato su Le Bussole, il sito di Confcommercio che offre spunti, notizie e consigli agli imprenditori. «Emotività e psicologia contano nelle scelte dei consumatori più di quanto si pensi – dice Roberto Pone –. E questo accade al ristorante come altrove. Parliamo di psicologia comportamentale, molto diffusa anche all’estero: il valore della prima impressione, l’attenzione attirata rispetto ad alcune cose piuttosto che ad altre, il significato dei colori, oppure la relazione empatica con l’addetto alla vendita, sono tutti elementi fondamentali che spesso guidano le nostre scelte. L’economia comportamentale non è mai da intendersi in senso manipolativo, la qualità resta la prerogativa essenziale, tuttavia ci sono elementi che possono accompagnarci nelle scelte e il menù è uno di questi, insieme all’atmosfera, all’illuminazione e all’eventuale sottofondo musicale». Vediamo dunque quali sono gli aspetti che Roberto Pone ha analizzato nel suo test.

La «consistenza» della carta

«Avere un menù con meno di 4 facciate è un’ottima scelta in quanto, entro tale dimensione, è più agevole la progettazione delle azioni per migliorarne l’efficacia comunicativa e indirizzare le preferenze della clientela. Dalle 4 facciate in poi progettazione e controllo diventano più complessi e la dimensione ostacola la capacità di “suggerire” le scelte dei clienti. Tre facciate sono utili laddove si voglia trasferire l’idea di un’esperienza culinaria completa, comunicare ampia varietà e avere spazio per un’accattivante descrizione delle pietanze. La migliore configurazione però, è quella a 2 facciate che unisce l’idea di un’esperienza culinaria completa alla semplicità di lettura. Una sola pagina, invece, porta il cliente a contenere la spesa per via dell’associazione con qualcosa di veloce».

L’importanza tattile

Il tatto è un senso da non sottovalutare, meglio dunque se il menù viene stampato su carta naturale e con un po’ di spessore. «Se poi ha anche un certo peso, garantito da un porta-menù, viene abbinato all’idea di un locale più esclusivo – spiega Roberto Pone –. Ben diverso, invece, in termini di percezione è un menù su un semplice foglio di carta, magari inserito in una bustina di plastica che, col tempo, potrebbe sporcarsi oppure opacizzarsi».

La sequenza dei piatti

L’ordine è un altro aspetto importante: un buon menù deve proporre le pietanze in base a popolarità e margine. «Se non è così c’è un problema – scrive Roberto Pone –. Il punto di partenza nella progettazione del menù è conoscere, per ogni pietanza, il prezzo di vendita, il food cost e, quindi, il margine dato dalla differenza tra i due. Va poi monitorata la popolarità della pietanza, che è data dalle vendite in un determinato periodo. Con questi dati è possibile mettere a confronto le pietanze per gli antipasti, per i primi e così via ottenendo un’immediata indicazione di cosa è preferibile o meno vendere». Le pietanze molto popolari e dall’alto margine devono quindi essere associate a posizioni molto visibili, il personale deve essere preparato nel proporre questi piatti e magari, assieme allo chef, si può ipotizzare una loro estensione proponendo altre versioni con qualche diversità negli ingredienti, nella preparazione e nel prezzo. «Le pietanze che garantiscono un alto margine, ma sono poco popolari potrebbero avere bisogno di un cambio di nome per aumentarne l’appetibilità, una descrizione evocativa che faccia venir voglia di provarle, un ancoraggio visivo (grassetto, sottolineatura o altro elemento grafico) per accrescerne la visibilità, un intervento per modificarne la preparazione o persino una leggera riduzione di prezzo». Le pietanze popolari ma dal ridotto margine potrebbero essere spostate in posizioni meno pregiate in termini di visibilità o essere ripensate per ridurne il food cost o aumentarne il prezzo, infine «le pietanze poco popolari e dal ridotto margine potrebbero essere rese più profittevoli aumentandone il prezzo di vendita o riducendone il food cost». Ma c’è anche l’opzione di sostituirle con altre. 

L’effetto isolamento

Un modo per attirare l’attenzione su alcuni piatti è quello di utilizzare un riquadro, uno sfondo diverso, grassetti, colori, sottolineature, icone o altri elementi grafici. «In questo caso si parla di “effetto isolamento” – dice ancora Roberto Pone –, altro elemento che aumenta la probabilità della pietanza di essere considerata. È un’azione tanto semplice quanto efficace dal momento che, se l’attenzione del cliente non si posa su un determinato piatto, di certo non verrà acquistato. Se poi si considera che il cliente dedica al menù circa 180 secondi, è evidente l’importanza, per i piatti, di farsi notare velocemente». Attenzione però a non esagerare in quanto troppi stimoli visivi generano confusione risultando, pertanto, meno efficaci. Una buona regola è quella di limitarsi a evidenziare un solo elemento per categoria. Far risaltare le specialità preferite dal pubblico, che quindi diviene testimone della loro bontà, è utile perché fa leva sulla “riprova sociale” (quel che piace a molti, guida il nostro comportamento) e può indirizzare nella scelta, soprattutto un cliente indeciso. «Una catena di ristoranti a Pechino – racconta Pone – ha registrato un incremento tra il 13% e il 20% delle vendite dei prodotti segnalati come “preferiti”. In una birreria di Londra, invece, una birra proposta come la più venduta della settimana, ha fatto registrare un aumento di vendite di 2,5 volte rispetto alla settimana precedente».

Il numero di portate

Di  quante portate dev’essere composta una carta? Il tema è sempre attuale: «Il numero ideale è di 7 portate massimo per gli antipasti, 10 per i piatti principali e 7 dessert – è l’opinione di Roberto Pone –. Un numero di piatti contenuto comunica qualità dell’offerta e rende agevole la scelta del cliente. Un numero più elevato di proposte rischia di essere associato all’idea di poca freschezza e, per via del “paradosso della scelta” (troppe opzioni fiaccano la decisione) il cliente, a fronte di un numero eccessivo di possibilità, opta per quella più familiare che, però, non è detto sia la più redditizia per il ristorante».

La narrazione dei piatti

Giusto incuriosire i clienti rispetto a ciò che troveranno nel piatto. Inserire una descrizione del prodotto ne aumenta il valore percepito: «Il racconto, se non si limita all’indicazione degli ingredienti, deve essere evocativo, appetitoso, con qualche particolare in grado di incuriosire il cliente e, comunque, breve», avverte Pone, che cita un altro esempio: «Un’interessante sperimentazione in una caffetteria ha utilizzato diverse etichette per accompagnare i prodotti: una articolata e “aulica”, l’altra standard con il solo nome. I prodotti descritti in maniera aulica sono stati scelti nel 27% dei casi più degli altri (la lettura del testo contribuisce alla proverbiale acquolina, quanto mai efficace in termini persuasivi), sono stati valutati migliori (grazie all’aspettativa di qualcosa di buono generata prima della degustazione per il tramite del testo) e, addirittura, è stata associata una migliore qualità all’intero negozio. Detto che è utile evidenziare, nelle descrizioni delle pietanze, la connessione con elementi della tradizione e luoghi con un forte valore simbolico positivo, come prodotti certificati e territori dalle tipicità ed eccellenze enogastronomiche, serve fare attenzione sull’utilizzo delle fotografie: «Sebbene l’uso di un’immagine può aumentare le vendite anche del 30%, l’effetto positivo si annulla quando le foto sono numerose – avverte Roberto Pone –. In linea generale, in un ristorante di fascia medio-alta e con una clientela prevalentemente italiana le foto delle pietanze nel menù consultato in sala o all’ingresso andrebbero evitate. Queste, infatti, in Italia vengono associate a menù turistici o di modesta qualità. C’è anche un secondo effetto negativo nell’uso delle fotografie all’interno dei menù. Vedere in anteprima il piatto annulla il piacevole effetto sorpresa al suo arrivo, oltre al rischio che eventuali differenze tra il piatto in tavola e la foto, potrebbero lasciare deluso il cliente».

L’indicazione dei prezzi

E quale “strategia” utilizzare per comunicare i prezzi? «Disporli in maniera non allineata, pur mantenendoli facilmente leggibili, evita che l’attenzione si focalizzi su di essi invece che sulla descrizione dei piatti – dice ancora Pone –. È utile, quindi, riportare il prezzo di fianco a ogni nome, sfruttando le diverse lunghezze dei testi per ottenere il voluto disallineamento ed evitare così che il confronto tra le proposte parta dal prezzo. Uno studio realizzato dalla Cornell University sulle modalità tipiche di presentazione dei prezzi nei menù dei ristoranti ha evidenziato come l’indicazione di prezzi in cifre e senza decimali, né simboli relativi alla valuta (per esempio “19” anziché “19,00 euro”), abbiano contribuito ad aumentare la spesa dei clienti. In tal modo i prezzi, poiché il cervello impiegherebbe meno tempo a leggerli e a elaborare l’informazione, possono essere percepiti più bassi. Inoltre si distanzia, a livello percettivo, il consumatore dalla tangibilità del denaro». Da qualche anno nei ristoranti si sta affermando l’abitudine del menù digitale. Queste raccomandazioni valgono comunque? «È in atto una transizione che la pandemia ha accelerato – osserva Ponte –. Per incontrare un pubblico sempre più ampio, avere entrambi i menù potrebbe essere una buona soluzione. Ma non è detto che quello digitale non debba seguire le stesse regole del menù cartaceo in fatto di chiarezza, esposizione di prezzi, oppure mettere in risalto alcune proposte rispetto ad altre. Il menù digitale è più flessibile e questo è un punto di vantaggio». Tanto lavoro, dunque, dietro a un “semplice» menù”: «La consapevolezza dei ristoratori rispetto a questi temi sta crescendo – conclude Pone –, anche se c’è ancora un ampio margine di miglioramento. Capita spesso, infatti, di incontrare menu inadeguati che non valorizzano la proposta. Detto questo, si tende ancora a sottovalutare il neuromarketing, perché non se ne percepiscono le potenzialità in termini di vendita».

 




Fabio Tacchella: “L’essenza oltre la sorpresa” 

A tu per tu con lo chef, scrittore e video blogger ed esperto nelle nuove tecnologie di cottura e lavorazione degli alimentiChi non ricorda il gusto e la tenerezza dello spezzatino o del brasato cucinato dalla nonna? A tavola, soprattutto nelle ricorrenze speciali, si era così in tanti che la cucina di casa ‘apriva’ uno, forse anche due giorni prima di ritrovarsi con le gambe sotto il tavolo. Ore di cottura, sul fuoco e poi sulla stufa spenta, a ‘riposare’, perché «tanto domani è ancora più buono». Non lo sapevano, le nostre nonne, ma utilizzavano già all’epoca una tecnica che in tempi molto più recenti è stata riscoperta come uno dei sistemi oggi considerati tra più ‘innovativi’, vale a dire la cottura a bassa temperatura. In cucina c’è sempre più voglia di sperimentare e così capita che, non conoscendo bene la storia, gli esperimenti si facciano anche con modalità utilizzate da decenni e che con il passare del tempo si erano perse. L’innovazione in cucina, però, non è fatta solo di riscoperte inconsapevoli del passato, ma anche di tanto studio e di tecnologia, un binomio indissolubile anche tra i fornelli.
Fabio Tacchella è chef, gastronomo, scrittore e video blogger, nonché esperto nelle nuove tecnologie di cottura e lavorazione degli alimenti.

Anche lei ha notato un desiderio crescente di sperimentare in cucina? 

C’è senz’altro una maggiore attenzione nel ricercare un perfezionamento delle tecniche da parte sia dei privati che dei ristoratori. Ciò è dovuto anche alle tante trasmissioni televisive che parlano di cucina. Tuttavia, le persone che hanno questo hobby conoscono poco i sistemi di cottura. Le tecniche sono importanti, ma bisogna conoscerle bene e saperle applicare in maniera corretta e intelligente. Questo vale sia per gli appassionati che, a maggior ragione, per i professionisti.

L’approccio di cuochi e ristoratori a queste tematiche è sempre corretto? 

Solo in parte. Oggi, per esempio, si parla tanto della cottura sottovuoto a bassa temperatura. È importante, ma solo se si conoscono le tecniche per utilizzarla, altrimenti si rischia di creare più danno. Questo metodo, peraltro, non è nuovo: fu ideato anni fa dallo chef francese George Pralus (nel 1974 per il ristorante Troisgros di Roanne, ndr) per migliorare e ottimizzare la conservazione del foie gras. Dopo quell’esperimento, Pralus lo ha utilizzato con tante altre preparazioni. Non solo: l’esercito americano, per esempio, lo usava per portare le carni ai soldati al fronte. Ma veniva utilizzato solo con determinati tagli di carne. Oggi vedo filetti di manzo o di pesce cotti a bassa temperatura, ma non ha senso.

Perché? 

La cottura a bassa temperatura è efficace per le carni un po’ più coriacee, ovvero la parte anteriore degli animali, i muscoli o la pancia. Sono i pezzi di carne più duri e nervosi. La cottura a bassa temperatura mantiene la carne a 72, 75 gradi dopo aver raggiunto una temperatura di 60 gradi al cuore. In questo modo si accelera il processo di decomposizione in maniera controllata, innescando un enzima che trasforma la cartilagine e la parte muscolare in collagene, rendendo la carne più tenera. A volte, però, si tende ad abusare di questa tecnica, con cotture lunghissime e così la carne non risulta più tenera come dovrebbe.

Quali sono gli accorgimenti che è importante prendere? 

Tutto ciò che viene cotto a bassa temperatura va sanificato: prima di inserire il cibo nella busta la parte esterna dev’essere trattata, perché potrebbe essere stata aggredita dalla carica batterica. La sanificazione può avvenire con una marinatura in salamoia oppure con una sostanza acida, come limone o aceto, o ancora in forno a 250 gradi per cinque minuti, o in acqua bollente per un minuto. In questo modo si riesce ad eliminare la carica batterica che eventualmente si è depositata in superficie. Cuocere un alimento a bassa temperatura senza sanificarlo vuol dire favorire lo sviluppo della carica batterica che, in quelle condizioni, trova umidità e proteine. Se poi ci troviamo in presenza di batteri anaerobici, si crea loro l’ambiente ideale per proliferare. Così però si rischia di intossicare le persone. Questo è il motivo per cui, ad esempio, non si devono cuocere a bassa temperatura le carni ripiene, perché nel ripieno c’è l’aria.

E i filetti? 

Se messo sottovuoto, un filetto di pesce subisce uno schiacciamento tale per cui, al taglio, non si sfalda più come dovrebbe, ma rimane compatto e si sfilaccia. Lo stesso avviene con il filetto di manzo. Sono alimenti che perdono quella masticabilità di cui invece hanno bisogno. Generalmente nei ristoranti il filetto cotto a bassa temperatura viene poi raffreddato, abbattuto e messo in frigorifero. Quando arriva il cliente, si prende dalla busta e lo si mette in padella o sulla griglia per riportarlo a temperatura e servirlo. Così però non si fa altro che servire riscaldato un prodotto che ha bisogno di pochi minuti per cuocere, buttando via del tempo inutilmente.

Questi sono errori che fanno i ristoratori? 

Purtroppo sì. Li fanno per avere una linea pronta, ma esistono anche altri sistemi per cuocere un filetto a bassa temperatura, come l’oliocottura. Tante tecniche sono emerse negli ultimi anni, ma non dimentichiamo che la cottura a bassa temperatura si è sempre praticata, magari inconsciamente. Basti pensare al brasato o allo spezzatino che si lasciavano andare sulla stufa anche a fuoco spento facendo raffreddare le carni che, in quel modo, si intenerivano. Ed erano più buone il giorno dopo.

Un po’ come le lasagne

Cosa c’entrano le lasagne?.

Anche le lasagne sono più buone il giorno dopo

Sì, ma in quel caso è diverso, gli ingredienti hanno il tempo di amalgamarsi e di stabilizzarsi, per quello sono più buone. E mi raccomando, mai mischiare il ragù con la besciamella.

Ah no? 

No. Consistenza e gusto cambiano.

Ci insegni. 

Bisogna imburrare la teglia, stendere un primo strato di besciamella, poi la lasagna, un altro strato di besciamella, il ragù, la lasagna e poi ancora la besciamella, il ragù e così via. Vedrà che il sapore è diverso.

C’è una tecnica da utilizzare in cucina, alla portata di tutti, che può fare anche bene alla salute? 

Ce n’è una semplicissima: usare il sale liquido al posto di quello semolato. E si può preparare facilmente anche a casa. Si prendono 600 ml d’acqua e 400 grammi di sale e si mettono a bollire. Ad ebollizione il sale si scioglie e satura l’acqua. A quel punto si ha il 37,2% di sale nell’acqua e quel composto si può utilizzare per insaporire le insalate oppure i carpacci, la maionese o alimenti grassi.

Qual è il vantaggio per la salute?

 Innanzitutto il sale si diluisce più velocemente perché è già liquido e non ha bisogno di trovare altra acqua per sciogliersi, dopodiché le nostre papille lo percepiscono molto di più, quindi, alla fine, ci si ritrova a salare di meno.

Abbiamo parlato solo di cottura a bassa temperatura. 

Ce ne sono altre, innovative, di cui si parla poco, come quelle agli ultrasuoni e agli infrarossi, oppure la cottura al microonde che è molto poco sfruttata, ma che invece mantiene i prodotti molto più salutari e con più vitamine.

La sola idea che in un ristorante sia presente un forno a microonde fa inorridire tanti clienti. 

Perché si pensa che il ristoratore lo utilizzi per riscaldare il cibo. In genere il microonde è utilizzato proprio per riscaldare, soprattutto a casa, ma usarlo per cucinare, come dicevo, può essere molto vantaggioso. Non solo: se ci avanza una cipolla e la mettiamo in frigo, già dopo qualche ora l’odore cambia, diventa “stanco”; se la tritiamo e la passiamo qualche secondo al microonde nell’olio, si conserva per giorni senza che il sapore si alteri. E la possiamo usare per fare il risotto, un sugo o altre preparazioni. Solo il microonde riesce a fare questo.

Cosa serve, invece, per la cottura ad ultrasuoni? 

Ci vuole uno strumento adatto e per permettere alle molecole di sfrigolare, riscaldandosi piano. Si possono utilizzare tutti gli alimenti, purché in busta o in acqua, ma è una tecnica che ha bisogno ancora di essere perfezionata. Oggi è poco utile perché ancora tanto dispendiosa.

C’è un suggerimento che si sente di dare ai ristoratori? 

La tecnologia è importantissima e, soprattutto, non ci fa ridurre il personale, che è già poco. Può permettere però al personale che abbiamo di lavorare e di rendere meglio, cucinando in modo più sano e producendo di più. Però la tecnologia bisogna conoscerla a fondo. Oggi ci sono tante aziende che stanno sfornando prodotti molto interessanti, ma gli operatori non li sanno usare.

Insomma, serve più formazione professionale.

Sì. Serve conoscenza e chi utilizza la tecnologia deve essere in grado anche di saperla spiegare. È dunque necessario informarsi su cosa si sta facendo. Perché una cucina colorata e ben impiattata è bella, ma deve soprattutto nutrire correttamente.

Ecco, non abbiamo parlato di cucina molecolare e sferificazione dei liquidi, altre pratiche molto trendy. Certe tecniche vanno bene per fare sensazione, sotto però devono esserci un concetto e una buona preparazione. Stupire in cucina va bene, ma quando scoppia la bolla bisogna trovare qualcosa nel piatto. E che sia buono.

 




Buoni pasto a doppia velocità

Nel pubblico le commissioni non possono oltrepassare il 5%, mentre nel  privato arrivano a sfiorare il 20%. La sfida è quella di cercare di uniformare i due settoriLa questione è delicatissima ed intricata quanto basta per creare più di qualche pensiero ai tanti ristoratori che da tempo stanno interrogandosi sull’effettiva opportunità di continuare o meno ad accettare i buoni pasto. Diciamolo subito: una risposta giusta, capace di soddisfare esigenze ed aspettative di tutti non c’è. Da una parte serbatoio di clientela che facilmente può fidelizzarsi al proprio locale, dall’altra i buoni pasto rappresentano un prezzo a volte troppo alto da pagare, se si vuole restare sul mercato: commissioni esorbitanti, tempi di pagamento molto lunghi (si parla di settimane per ricevere il corrispettivo in denaro) e in alcuni casi anche l’incertezza della tenuta delle società emettitrici (leggi: fallimento di Qui! Group, che nel 2018 finì a gambe all’aria con 325 milioni di euro di debiti, pagati in gran parte proprio dai commercianti, che per molto tempo avevano continuato ad accettare ticket che non sono più stati rimborsati).

Chi è del mestiere questi meccanismi li conosce bene: chi acquista i buoni pasto dalle società emettitrici, lo fa chiedendo sconti anche a doppia cifra, che poi si traducono in commissioni fino al 15-20% a carico dei titolari di bar e ristoranti, sottoforma di commissione. Lo scorso mese di marzo un primo, importante passo per sbrogliare la matassa è stato fatto, grazie anche al meticoloso lavoro ai fianchi della Fipe, la Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi. Nell’ultima gara d’appalto che si è chiusa a inizio primavera, la Consip – società per azioni del Ministero dell’Economia che si occupa della gestione dei servizi – ha fissato al 5% il tetto massimo delle commissioni che le società emettitrici di buoni pasto possono chiedere ai commercianti.

Una svolta (quasi) epocale, che però non risolve del tutto il problema. Questa condizione vale infatti solo per il mercato pubblico, che pure vale un miliardo e 250 milioni di euro l’anno, pari a poco più di un terzo del giro d’affari complessivo. Resta dunque scoperto il settore privato, che di miliardi ne vale addirittura 2, e sul quale il peso dello Stato non può farsi sentire. Oggi il rischio più evidente per il titolare di un locale è quello di ricevere buoni pasto di Serie A e buoni pasto di Serie B, ovvero ticket sui quali si ritrova a pagare il 5% di commissioni e altri sui quali la percentuale può arrivare a sfiorare il 20%, con ripercussioni non solo sul cassetto del ristorante, ma anche sul servizio ai clienti (a tutti i clienti, ovviamente, non solo quelli che si presentano coi buoni). E vedremo come. 

Nel frattempo aver «sistemato» il comparto pubblico rappresenta un primo obiettivo raggiunto: «Si era arrivati a condizioni di vendita con sconti a monte troppo alti, che generavano commissioni ancora più elevate e, dunque, insostenibili per i commercianti – spiega Oscar Fusini, direttore di Ascom Confcommercio Bergamo –. Lo Stato risparmiava tanto, ma tutti questi soldi venivano poi ricaricati sugli esercenti». Ora le cose sono cambiate: nella commissione massima del 5% rientrano anche gli eventuali servizi aggiunti (ad esempio i pagamenti più veloci o anticipati), che normalmente le società si facevano pagare con ulteriori ritocchi alle loro percentuali. Tutto questo è senz’altro un bene: si stima che solo in Lombardia la mossa di dare un freno alle commissioni per il settore pubblico genererà un risparmio di 14,1 milioni di euro all’anno per i commercianti. «Siamo di fronte a una manovra importante – dice ancora Fusini –. Resta però ancora da definire il mercato privato e con esso altre questioni legate all’innalzamento della qualità del servizio e al superamento del concetto del massimo ribasso». Altri nodi da sciogliere sui quali però l’impressione è che non sarà così facile intervenire, non almeno nel breve periodo. 

Il fenomeno dei buoni pasti non è affatto marginale: nella sola provincia di Bergamo sono circa 59mila lavoratori tra settore pubblico e privato a riceverli, e sono sempre più numerosi: dopo la pandemia il numero di coloro che riscuoto i ticket ogni mese è cresciuto di 2mila unità per effetto dell’incremento dei servizi legati al welfare aziendale. Il valore complessivo si aggira intorno ai 70 milioni di euro all’anno in Bergamasca, con una media di poco superiore ai 1.200 euro all’anno per lavoratore, pari a 5,36 euro al giorno, di certo non il valore di un pasto, ma un buon contributo (il buono mutua il valore di un pasto servito in una mensa aziendale). I punti vendita che accettano i buoni pasto sono circa 800.

«Stiamo parlando di uno strumento che risulta essere ancora efficace – spiega Fusini–; al lavoratore piace perché è molto spendibile: serve per mangiare, ma anche per fare la spesa, ed è un’integrazione al reddito del tutto defiscalizzata. I buoni pasto piacciono anche perché sono molto flessibili nell’utilizzo, basti pensare che tanti di coloro che non li hanno, vorrebbero beneficiarne. Per il datore di lavoro è innanzitutto uno strumento che fa parte del welfare aziendale e che serve in qualche modo a fidelizzare i dipendenti e a gratificarli, con un onere contributivo e fiscale davvero minimo per l’azienda». Al netto delle difficoltà che permangono in un contesto ancora troppo variegato, i benefici ci sono e «pesano» non poco sulla circolazione dei buoni pasto e sulle loro prospettive future. «Con l’ultima gara Consip è stato ottenuto un primo risultato, ma occorre sistemare l’impianto normativo per migliorare l’equilibrio della filiera anche nel settore privato– insiste Fusini, richiamando l’obiettivo sul quale è necessario continuare a lavorare–. Si deve impedire, per esempio, alle aziende di spuntare il massimo ribasso, che si traduce in commissioni insostenibili per i commercianti, puntando in questo modo ad aumentare il livello della qualità e della fruibilità del buono pasto». 

Commissioni ragionevoli e dunque più sostenibili, insieme a tempi di pagamento più certi: sono questi i prerequisiti necessari per indurre ad accettare i buoni pasto anche chi attualmente preferisce non averci a che fare. Spesso si tratta di locali di un certo livello che se entrassero nel giro dei buoni pasto, potrebbero contribuire a trascinare verso l’alto la qualità media dell’offerta, ma che in questo momento non hanno interesse a farlo. «Per questo motivo – conclude il direttore di Ascom – si deve lavorare per rendere sostenibile a lungo termine tutto il processo di filiera, a vantaggio di chi acquista i ticket, di chi li compra e degli esercenti che li accettano».

Eccola, dunque, la sfida per il prossimo futuro: provare a metter mano alla giungla del settore privato che viaggia ancora con commissioni «libere». E qui la palla passa di nuovo tra i piedi della Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi: «Stiamo lavorando su più fronti – spiega Luciano Sbraga, direttore dell’Ufficio Studi di Fipe –. Siamo impegnati innanzitutto in un’azione di “persuasione morale” nei confronti dei datori di lavoro privati e in particolare delle grandi aziende che acquistano i buoni pasto per i loro dipendenti, Stiamo cercando di sollecitarli a un’assunzione di responsabilità nei confronti di tutti gli stakeholder della filiera. Se loro pretendono dagli emettitori uno sconto esagerato, è chiaro che l’emettitore lo ribalta a sua volta sugli esercizi convenzionati».

Per l’azienda, vale la pena ricordarlo, sono totalmente deducibili e decontribuiti i buoni pasto fino a 8 euro (se elettronici; quelli cartacei lo sono fino a 4 euro). «Stiamo lavorando anche per capire quale potrebbe essere lo strumento più adatto per regolare il sistema. La verità è che il codice degli appalti non vale per i contratti privati e il tetto del 5% che abbiamo ottenuto sulle gare pubbliche non si applica alle aziende». In altre parole, una soluzione ancora non c’è: compito della Fipe è quello di trovarne una per fare in modo che anche ai contratti privati si possa applicare una commissione massima che non superi il 5%. Se la cosiddetta «moral suasion» sulle aziende sortirà qualche effetto lo vedremo nei prossimi mesi, ma probabilmente non prima della fine dell’anno, quando si avranno – è questo l’auspicio – i primi risultati di un’iniziativa di comunicazione in programma per la ripresa delle attività lavorative dopo l’estate. 

«Il rischio al quale siamo esposti con queste commissioni non è tanto quello di ritrovarci con dei buoni pasto a doppia velocità – è l’opinione di Luciano Sbraga –. Semmai stiamo registrando lamentele da parte dei lavoratori rispetto al fatto che alcune tipologie di buoni non vengono accettate nei locali. Alcune commissioni sono troppo alte e gli esercenti possono decidere di non prendere alcuni ticket, rinunciando però a dare un’opportunità in più ai loro clienti. Il danno è per entrambi: il lavoratore sa di non poter avere un servizio, mentre per l’esercente essere costretto a rinunciare a un cliente è sempre un problema».

In alcune regioni è anche possibile che una stessa azienda emettitrice abbia sottoscritto contratti sia con lo Stato che con qualche datore di lavoro privato: e così buoni pasto apparentemente uguali possono avere un peso anche molto diverso per le tasche dei ristoratori.

Il fatto è che quando una vendita presenta più costi che benefici, al titolare di un bar o di un ristorante non resta che farsi due conti in tasca e per mandare avanti l’azienda può vedersi costretto anche a rinunciare a qualche coperto. L’alternativa è quella di trasferire i costi anche sugli altri clienti, ma ciò vorrebbe dire aumentare prezzi per tutti, anche per chi paga in contanti (o comunque senza buoni pasto). «Ma anche in questo caso non è facile prendere una decisione – dice ancora Sbraga –. L’esercente deve fare i conti con il mercato, e non può permettersi né di aumentare i prezzi in modo indiscriminato, né tantomeno di abbassare troppo la qualità, rischiano di perdere i clienti».

Un equilibrio che non è per niente facile da raggiungere; la soluzione meno indolore, al momento, resta dunque quella di non prendere i buoni pasto che hanno commissioni insostenibili. Fare leva sui lavoratori non è possibile perché, a parte il disagio di non vedersi accettare i propri ticket in alcuni locali, per loro il valore del buono pasto resta quello nominale, a prescindere dalle commissioni. Anzi, molto spesso coloro che usufruiscono dei ticket non sono a conoscenza delle dinamiche che s’intersecano dietro il blocchetto dei loro buoni pasto, «e non si rendono conto che l’eventuale disservizio non è altro che il risultato finale di una scelta che fa il suo datore di lavoro quando vuole risparmiare eccessivamente sull’acquisto di quel servizio – puntualizza il direttore del Centro Studi di Fipe –. Da parte loro, anche gli emettitori hanno una parte di responsabilità, poiché rappresentano la cinghia di trasmissione tra il datore di lavoro e l’esercente, ma è evidente che se possiamo parlare di “ingordigia”, questa è tutta del datore di lavoro». E non sembra percorribile neppure la strada in una forma di tassazione da mettere in capo alle aziende private per scoraggiarle a chiedere sconti sempre più elevati.

In attesa di un non facile soluzione, un’altra questione ancora aperta e sulla quale la Fipe come rappresentante dei gestori dei locali è chiamata a fare una riflessione, riguarda i costi aggiuntivi legati alla gestione dei Pos. Nei bar e nei ristoranti ce ne sono ancora tanti e l’obiettivo è quello di riuscire ad avere un Pos unico per tutti. Un’opera di semplificazione, anche questa, di portata eccezionale, che però coinvolge anche gli istituti di credito, aumentando il coefficiente di difficoltà. «Ancora non si trova la strada per farlo – ammette Sbraga –, ed è un altro motivo per cui molti esercenti sono scoraggiati dall’accettare i buoni pasto. Ormai sulla questione dei buoni pasto elettronici la strada è tracciata: lo sono tutti i ticket oggetto dell’ultima asta pubblica, e parliamo già di un terzo del totale, e anche nel privato la percentuale di chi li adotta in questa forma è sempre più rilevante».

 




Giorgio Locatelli: “Si criticano i giovani ma credo sia un’idiozia”

Il giudice di Masterchef e Home Restaurant fa il punto sul futuro della ristorazione in un’intervista a tutto campo

Entriamo in scivolata a freddo, nel mezzo di un soleggiato pomeriggio londinese. In Inghilterra, come in Italia, tanti ristoranti sono chiusi il lunedì, ed è il giorno di “corta” anche per Giorgio Locatelli che, tra un set televisivo e l’altro, ci risponde dalla sua Locanda – primo ristorante italiano stellato all’estero – dove ha appena provato a convincere l’addetto alla spesa di un albergo di lusso, cui lui fa consulenza, che se un Parmigiano Reggiano invecchiato 36 mesi costa il doppio di un 12 mesi, è del tutto normale. «La qualità dei prodotti italiani è altissima – dice – ma bisogna ancora insegnare alla gente come riconoscerli, purtroppo anche agli addetti ai lavori». Il takle, però, è in agguato e arriva subito alla prima domanda sul successo della trasmissione “Home restaurant” condotta dallo chef su TV8.

Lo sa quanti nemici si è fatto, in Italia, tra i suoi colleghi, sponsorizzando gli home restaurant in televisione? 

Dice davvero? No, non penso: stiamo parlando di due esperienze completamente diverse, quasi agli opposti. L’home restaurant è andare a trovare qualcuno, volerlo conoscere, vedere cosa succede in casa; non c’è una carta, o una proposta internazionale, ma un menù già deciso, che è l’espressione della persona che vive in quella casa.

L’atmosfera è diversa, su questo siamo d’accordo. Resta però un’alternativa al ristorante.

Non credo che l’home restaurant possa cannibalizzare i clienti dei locali. Dopotutto, sono talmente poche le persone che si possono trovare a cena in un appartamento, che il problema non esiste. L’idea è quella di passare una serata diversa e di esplorare un modo nuovo di stare insieme. E per chi cucina non può essere un business: di soldi ne circolano pochi.

Un hobby, più che una nuova occupazione? 

Sì. Io per esempio ho incontrato persone che sapevano tutto di whisky, o che andavano matte per un ingrediente, o una ricetta. Il contesto è molto personale, familiare, anche nel servizio.

Lo sviluppo degli home restaurant può essere legato alla riscoperta della cucina che tutti noi abbiamo vissuto durante il lockdown? 

Sì, sicuramente il Covid ci ha cambiato tantissimo, anche nella maniera con cui facciamo la spesa. Ha avuto un impatto sulla nostra vita che forse capiremo bene solo tra qualche anno. Un tempo a Londra gli home restaurant venivano organizzati perlopiù dai giovani che, non avendo tanti soldi, facevano una colletta, andavano a fare la spesa e tornavano a cucinare quello che avevano comprato. Adesso si sono evoluti e ce ne sono di più. Ma non possiamo parlare di vere e proprie aziende.

Ha mai mangiato male nelle case che ha visitato per la sua trasmissione? 

Ne ho provate 25 in giro per l’Italia e devo dire che lo standard è molto buono. Il programma è nato da una cosa che accomuna tutti gli chef: nessuno li invita mai a cena, per paura delle critiche. Questo però è sbagliato perché quando i cuochi vanno a cena da qualcuno, piuttosto che fare una lamentela, si mettono qualcosa in tasca, se proprio non è buona da mangiare. A me l’idea è piaciuta subito: entrare nelle case degli italiani è un po’ come prendere il polso della cucina familiare tradizionale, e raccontare uno spaccato della cultura del mangiare in Italia, che ci contraddistingue nel mondo. Nessuno cucina meglio della mamma, e questo è un valore grande che noi italiani abbiamo ancora. Altrove la gente non fa più da mangiare, mentre da noi questa passione per la cucina fa parte della nostra identità. E devo dire che sono rimasto lusingato e a volte straordinariamente colpito da pranzi o cene molto piacevoli. Qualcuno ha preparato piatti che potrebbero essere serviti in un ristorante stellato.

La cucina familiare resta la spina dorsale della ristorazione italiana che però in questi anni ha sofferto tanto. 

Chi ha subito di più gli effetti della crisi sono i ristoratori in affitto. Le attività storiche, quelle a conduzione familiare, i cui titolari sono proprietari anche dei locali, hanno sofferto meno e in percentuale sono quelli che sono sopravvissuti di più.

Ci siamo risvegliati dalla pandemia con il problema del personale. Oggi sembra che più nessuno voglia lavorare nei ristoranti.

È un problema che abbiamo anche noi: la Brexit ha fermato il flusso di talento europeo, e specialmente italiano, di persone che venivano anche per imparare l’inglese. Oggi è più difficile che i ragazzi arrivino solo per lavorare. 

Anche in Italia i ristoratori fanno fatica ad assumere. Com’è possibile? 

Oggi si criticano tanto i giovani, ma credo che questa sia un’idiozia: i ragazzi di oggi sono molto più intelligenti, maturi, onesti e aperti al mondo. Arrivano a lavorare dopo aver studiato e la qualità è altissima. Dobbiamo solo invogliarli; c’è chi dice che non vogliono lavorare il sabato e la domenica, ma non credo che sia così. Chi nasce con la passione della cucina, sa che il fine settimana si lavora: se io non lavoro a Natale mi sento male. 

E allora, dov’è il problema?

Serve motivare il proprio personale e fargli intravvedere una carriera. Io, per esempio, non ho problemi in cucina, ma nel servizio. Dobbiamo entrare nell’ottica che il nostro non dev’essere un lavoro da matti. Oggi è un po’ così: si parte alle 9 del mattino e si rientra alle 2 di notte. Se vogliamo farla diventare una professione seria, dobbiamo accettare il fatto che la gente sia pagata bene per lavorare il giusto. Dobbiamo vendere ai giovani questo mestiere come una carriera. 

Senza alzare i prezzi, come si fa? 

Bisogna far pagare ai clienti per il servizio che riusciamo a dare. Il mondo è cambiato e oggi la vita media di un ristorante a Londra è molto più breve che in passato: il 40% fallisce entro un anno e gli altri chiudono quasi tutti prima dei 5 anni di attività. Chi riesce ad andare avanti è spesso finanziato da qualcuno. 

I giovani che entrano in cucina sono meno improvvisati di un tempo?

Sicuramente. Gli improvvisati sono di più in sala: si inizia un po’ così, poi si scopre che si può fare carriera e si prosegue. Noi cuochi e maȋtre d’hotel dobbiamo lavorare proprio su questo: far diventare questo mestiere una professione.

Manca la formazione per il personale di sala? 

No, manca la gente che vuole diventare cameriere, perché in tanti lo vedono come un lavoro che non dà un futuro. Non a caso gli istituti alberghieri hanno diminuito le classi di sala e aumentato quelle di cucina. 

Questo grazie anche a voi di Masterchef.

Grazie a noi, forse, ma anche al “sistema Italia” che in 20 anni è cambiato molto. Siamo in un momento molto positivo per quanto riguarda, per esempio, i prodotti di qualità e dobbiamo cercare di cavalcarlo, questo momento. Le copie, l’Italian sounding, purtroppo ci saranno sempre. Noi però dobbiamo cercare di far capire alle persone qual è la differenza, e ciò può arrivare con la serietà nel trattare il prodotto e con l’insegnamento. Dopodiché, quando fai da mangiare bene, la gente se ne accorge e se lo ricorda. Sappiamo tutti riconoscere qualcosa di buono.

E qui torniamo ai prezzi, che secondo alcuni ristoratori andrebbero alzati. 

Non lo so, dipende dai locali e dalle proposte: io pago mezzo milione di sterline all’anno di affitto, faccio 50 mila coperti e so che ogni cliente mi costa 10 sterline solo d’affitto. Poi c’è chi è proprietario del suo locale e chi riesce a mantenere un prezzo competitivo perché è più bravo degli altri. Certo, invece di proporre una carta con 30 piatti, ne bastano 5 fatti bene, e questo è un trend che ho notato molto in questi anni. Oppure ci sono ristoranti che propongono dei menù degustazione, magari anche di 15-16 portate, o altri che si specializzano in qualcosa. Così si possono tagliare costi di personale e di approvvigionamento. 

La soluzione sta nei menù più corti? 

Sì, magari focalizzati sul prodotto stagionale, per risparmiare ed evitare gli sprechi. Ognuno, poi, deve trovare il suo parametro e bisogna tenere conto anche della tipologia di ristorante: il mio è in centro a Londra e quando un mese fa ho tolto il pollo dalla carta – perché il nostro fornitore, che li alleva solo per il mio ristorante, non riusciva a starmi dietro – ho dovuto discutere con mia moglie, perché giustamente mi diceva che in un posto internazionale come il nostro, non possiamo obbligare la gente a mangiare solo carne rossa. Altrimenti, ripeto, bisogna specializzarsi ed è quello che stanno facendo tanti nuovi ristoranti stellati italiani.

E i clienti come reagiscono?

Sinceramente non so se la gente è pronta a capire questo passaggio; certo sarebbe molto più semplice se tutti i ristoratori si orientassero in questo senso.




La rivincita della barbabietola: da prodotto povero a protagonista di piatti stellati

C’è quella da zucchero e quella da foraggio, quella da orto e la «cruenta»; gli antichi più che in cucina, la utilizzavano per le sue proprietà medicinali, tanto che ancora oggi è considerata un toccasana per le ossa grazie alle sue intrinseche quantità di calcio e magnesio, oltre che un’arma efficace – chi l’avrebbe mai detto? – contro la depressione. Insomma, si fa presto a dire barbabietola. La sua fama, inutile nascondersi, non è tra le migliori: sarà per il suo colore rosso scuro non troppo accattivante o per il sapore dolciastro che è in grado di sprigionare e che difficilmente sposa i gusti dei palati più sopraffini e delicati. Tubero fin troppo bistrattato rispetto alla più democratica patata o al «trendissimo» topinambur, la barbabietola sta tuttavia concedendosi un meritato riscatto in cucina, grazie soprattutto all’intuizione e all’azzardo di qualche chef. Perché di azzardo, in fondo, si tratta, quando si decide di proporre ai clienti dei propri ristoranti, anche stellati, una ricetta a base di questo ingrediente povero dell’orto e ancora poco apprezzato, perché forse troppo poco conosciuto.

Vincente per Enrico Bartolini

Ma quando a cedere alla tentazione di rielaborare la barbabietola, rendendola addirittura protagonista di un piatto «stellato», è nientemeno che l’enfant prodige della cucina italiana Enrico Bartolini, 42 anni e 8 stelle Michelin nel suo palmarès, allora forse è il caso di soffermarsi un attimo per capire quali risorse può offrire alla carta di un ristorante (e, perché no, anche alla cucina di casa), un ingrediente come la rapa rossa. L’azzardo che ormai 16 anni fa ha portato Enrico Bartolini a proporre un risotto con barbabietola e gorgonzola ha premiato il pluristellato cuoco toscano – presente a Bergamo con il suo «Casual» di Città alta – al punto che quella ricetta oggi rappresenta il suo piatto più iconico, cucinato su richiesta in ogni parte del mondo, dall’America all’Estremo Oriente, agli Emirati, fino agli appuntamenti mondani più prestigiosi, come la «prima» della Scala. 

Prima di lui lo aveva fatto anche il maestro della cucina italiana e del risotto, Gualtiero Marchesi; ma è grazie ad Enrico Bartolini e alla sua intuizione durante un soggiorno in Oltrepò Pavese, che la barbabietola ha iniziato ad entrare nelle carte dei ristoranti. «In Oltrepò le rape rosse si coltivano, così come il riso – dice lo chef –. E siccome da quelle parti si ha l’abitudine di mangiare gorgonzola, mi sembrava che un risotto con questi ingredienti potesse raccontare il bene territorio». Così nel 2005 nacque la ricetta che Bartolini proposte da subito nel suo ristorante «Le Robinie Bistrot» di Montescano (Pv). «È stato apprezzato così tanto – ammette – che non abbiamo più smesso di farlo. La combinazione di questi ingredienti è risultata piacevole al gusto e alla vista e per anni è rimasto in carta. A un certo punto, sembrava che questo piatto avesse un aspetto tecnico più debole rispetto ad altri, perciò abbiamo pensato di complicarlo un po’, aggiungendo un’essenza di noci e una salsa di ciliegie o di more, in base alla stagione: le note della frutta esaltano l’acidità della rapa, mentre il gusto della noce è tannico, profumato, quasi amaro e dà un grado di complessità al piatto».

Inutile chiedere allo chef se pensa di rimettersi di nuovo in gioco con un’altra ricetta a base di barbabietola: «È un ingrediente ricco di personalità – dice – e non avendo carte molto lunghe nei miei locali, sarebbe una ripetizione. È un ortaggio cui sono molto affezionato, ma arriva inevitabilmente il momento in cui c’è voglia di cambiare. Quando iniziammo a utilizzarla, la barbabietola si usava molto poco. Ricordo che da piccolo, negli hotel, vedevo queste rape tagliate, messe nei barattoli che sapevano di terra. Forse per questo ne abbiamo un ricordo sbagliato. Oggi la barbabietola è molto popolare, soprattutto nelle cucine del Nord Europa, dove un tempo veniva data da mangiare alle mucche o spedita per le mense ospedaliere in altri Paesi».

In Italia c’è anche chi ha provato a centrifugarla e a servirla al ristorante come aperitivo, «ma è una tecnica che rilascia le proprietà lassative della barbabietola – avverte Bartolini –, per cui non mi sembra una buona idea. Detto questo, vedo che c’è senz’altro della creatività attorno a questo ingrediente, che probabilmente sta prendendo sempre più piede in questi anni. Se coltivato bene è buono e può dare spunti interessanti a chi lo cucina».

 

Divertente per Filippo Saporito

Decisamente più consono è l’utilizzo che fa della barbabietola Filippo Saporito, chef dello stellato «La Leggenda dei Frati» di Firenze, che pure la propone come antipasto: «Amo molto il mondo vegetale e cerco sempre di esaltarlo al massimo – dice –. La scelta della barbabietola arriva da uno stimolo di alcuni clienti vegani. Noi abbiamo sempre in carta un menù pensato per loro, ma che è in grado di accontentare un po’ tutti. Utilizzare la barbabietola mi diverte, innanzitutto perché inganna l’occhio, sembrando una bresaola, poi perché si possono comporre piatti colorati, freschi e con sapori delicati. E i nostri clienti rimangono piacevolmente stupiti. Fino a 10 anni fa era persino difficile trovarla cruda, oggi con l’avvento della cucina nordica c’è stato senz’altro un ritorno anche nelle nostre cucine».

Versatile per Massimo Amaddeo

A Bergamo, l’estate scorsa, è stato il ristorante «Da Mimmo ai Colli» a proporre la barbabietola in più versioni nei suoi menù: non solo come ingrediente di punta nel risotto, ma anche nell’impasto degli gnocchi o preparata a maionese nei club sandwiches. «È senz’altro un tubero molto interessante, che dà molto colore ai piatti e che quindi può essere una scelta vincente – spiega il titolare del ristorante, Massimo Amaddeo –. Cruda, cotta o rielaborata in tanti modi, la barbabietola può dare grandi soddisfazioni. Si possono fare gli gnocchetti, per esempio, inserendo nell’impasto spezie come la cannella, che dà una spinta forte, in contrasto con la dolcezza della barbabietola. Un ottimo condimento può essere un crumble di Agrì di Valtorta, che è presidio SlowFood, oppure lo Strachitùnt, con il suo naturale contrasto di bianco e blu». Una ricetta “veloce” per un’esperienza culinaria senza dubbio inedita (meglio se arricchita da foglie di salvia fritta come decorazione). «Come tutti i tuberi – dice ancora Amaddeo – la barbabietola è un po’ bistrattata. Peccato, perché la natura ci ha dato una biodiversità incredibile, che spesso non sfruttiamo. In particolare, la barbabietola ha sempre suscitato un po’ di diffidenza, forse a causa del suo particolare aspetto cromatico, ma ora la gente si sta avvicinando. Non è invadente nei piatti, quindi non predomina, anche se bisogna saper dominare quel suo carattere dolciastro per raggiungere un equilibrio apprezzabile. Noi, per esempio, l’abbiamo proposta anche come piatto da finger o da pranzo e, in chiave più moderna, preparando una maionese di barbabietola con pane tostato, verdure e formaggio».

Dopo i suggerimenti degli chef, torniamo a scoprire qualche altra proprietà «nascosta» della barbabietola. Ricca di sali minerali, vitamine e oligoelementi, è anche un ricostituente naturale contro stanchezza, mancanza di appetito e anemia grazie alla presenza di microelementi che rivitalizzano i globuli rossi e riequilibrano i livelli di ferro nel sangue. Pochi ingredienti in cucina hanno un colore così acceso: quello della rapa rossa è dovuto alla betaina, un pigmento solubile in acqua; dalle barbabietole si estrae un colorante naturale che viene normalmente utilizzato nell’industria alimentare, ma anche per la tintura tradizionale di tessuti.

 




Paese che vai, Pasqua che trovi: la rinascita sulla tavole del mondo

Dalla Croazia alla Spagna, dalla Grecia alla Germania: andiamo alla scoperta delle ricette tipiche che arricchiscono le festività pasquali

Paese che vai, tradizioni, ricette e (soprattutto) menu che trovi. Le abitudini degli europei in tavola nella settimana di Pasqua non fanno certo eccezione: ognuno ha le sue e, a voler vedere, come ci si sposta di latitudine, sanno modificarsi in modo così radicale che in certi casi si fa persino fatica a raccoglierle tutte. Eppure, ci sono almeno un paio di capisaldi della tradizione che sono comuni a tanti Stati del Vecchio Continente. L’agnello, per esempio, ma specialmente le uova – seppure preparate in modi anche diversissimi da un Paese all’altro – potrebbero farci sentire un po’ più a casa se, in occasione della Pasqua, dovessimo trovarci seduti a tavola in qualsiasi altro posto in Europa, lontano dall’Italia. Dall’Osterlamm tedesco al Gigot d’Agneau alla francese, fino allo stufato portoghese, il piatto forte della tradizione pasquale in Francia, in Germania e in Portogallo è senz’altro l’agnello che – attenzione – nei Lander tedeschi è declinato anche nella versione da dessert. 

Da quelle bollite a quelle decorate a mano, proposte alla fine del pranzo oppure, come in Croazia e in Polonia, fin dalla prima colazione, le uova sono senz’altro le protagoniste della Pasqua non solo in Italia e in Europa, ma un po’ in tutto il mondo, e il perché è presto spiegato: associate spesso alla fecondità della primavera, le uova – anche per la loro forma molto particolare – hanno sempre rivestito un ruolo unico, quello del simbolo della vita in sé, ma anche del mistero, quasi della sacralità. Nell’iconografia cristiana, l’uovo è il simbolo della Resurrezione (leggi, della Pasqua), dove il guscio rappresenta la “tomba” dalla quale esce un essere vivente, mentre per i pagani l’uovo è il simbolo della fertilità e dell’eterno ritorno alla vita.

Ma torniamo alla tavola e alle tante specialità che arricchiscono dalla notte dei tempi i banchetti delle famiglie europee: c’è chi, come in Russia, festeggia con il porcellino al forno e chi invece, come greci, rumeni e spagnoli, si prepara ad abbuffate (anche di dolci) con zuppe dai mille, caratteristici, sapori. Vale la pena, dunque, iniziare una sorta di rapido viaggio per l’Europa, immaginando di salire su un moderno Orient Express, che ad ogni fermata ci fa visitare un Paese diverso e conoscere alcune delle sue specialità.


Spagna

Immaginiamo di partire a ovest del Vecchio Continente, e di cominciare a indagare tra le specialità della caliente Spagna. Qui ci si prepara alla Pasqua durante la Settimana Santa che, per rispettare la tradizione di magro (i giorni che precedono la Pasqua fanno pur sempre parte della quaresima), concede alla tavola zuppe all’aglio o alle cipolle, con pane raffermo e paprika e una speciale “zuppa della vigilia” con baccalà, ceci e spinaci. Protagonista dei giorni che precedono la festa, il baccalà è spesso cucinato anche sotto forma di crocchette o in frittelle ed è presente anche nel Pa torrat del Venerdì Santo, un pane tostato al forno, con olio, aglio e formaggio, oppure con acciughe fritte e cipolle. Un po’ meno magro, è invece l’Hornazo castigliano, una torta di pane ripiena di uova, lombo di maiale e prosciutto, di cui c’è anche una versione dolce a base di mandorle, zucchero, anice e uova. Sempre in Castiglia la specialità è il Cochinillo asado, un maialino di 6 settimane preparato al forno.
E non c’è pranzo delle feste che non si concluda con uno o più dolci della tradizione. La Mona è una torta tipica catalana decorata con nocciole e uova colorate, ci sono poi le Torrijas, fette di pane fritto spolverate di zucchero e cannella, le Flores de Semana Santa, dolci croccanti a forma di fiori fritti in olio; i Bartolillos, ravioli fritti ripieni di crema pasticciera, le Rosquillas (ciambelle fritte aromatizzate all’anice), il Pestiños, dolce di origine araba tagliato a quadrato con due lembi ripiegati e bagnato con miele. E ancora: i Buñuelos, simili alle nostre frittelle e la Leche frita, crema fritta tagliata a pezzetti. 

Francia

Dalla Penisola iberica ai cugini francesi, per trovare il classico Gigot d’Agneau, che altro non è che il nostro cosciotto d’agnello che viene marinato nell’aglio, sale, pepe e olio d’oliva e poi arrostito al forno. È servito tradizionalmente con fagiolini e patate stufate e, in Provenza soprattutto, è insaporito con le classiche spezie locali. Arrosto, in crosta, allo spiedo e stufato, a Pasqua l’agnello in Francia è un piatto che si declina in tante ricette, anche a mo’ di spiedino (le tipiche brochettes d’agneau).
E se in Italia spopola la Torta pasqualina, ad accompagnare l’agnello Oltralpe c’è il Pâté de Pâques, una sorta di timballo ripieno di carne e uova, anche questo declinato in molteplici varianti. Uova e agnello sono così popolari in Francia, che li ritroviamo anche nei dolci. In Alsazia, in particolare, si preparano anche dei biscotti a forma di agnello.

Germania

Prossima fermata Germania, dove l’agnello pasquale è così tradizionale che lo si ritrova anche alla fine del pasto. L’Osterlamm (letteralmente, appunto, agnello di Pasqua) è un tipico dolce, preparato in molte varianti diverse. A parte i piatti tipici come l’Hefezopf (un tipo di brioche) e le uova bollite e colorate a mano, le tradizioni moderne si sono spostate da qualche tempo a questa parte verso il cosiddetto brunch, dove non possono mancare omelette e uova in salsa verde. Un’altra tradizione riguarda invece il giovedì santo, giorno in cui c’è l’abitudine di servire in tavola una zuppa di cerfoglio.

Osterlamm

Inghilterra

Prima di proseguire verso Est, immaginiamo di continuare il nostro viaggio puntando a Nord. E così dalla Germania ci trasferiamo in Inghilterra, dove l’agnello arrosto tradizionale è senz’altro il piatto più tipico delle feste pasquali. Gli amanti del cioccolato non possono sfuggire ai Brownies con le uova di cioccolato cremoso. Gli Hot cross buns sono invece dei panini al latte aromatizzati con cannella o chiodi di garofano, arricchiti con uvette e con una croce di pastafrolla in superficie. Ha invece un richiamo più religioso la Simnel cake, una torta la cui decorazione richiama i 12 apostoli: è un dolce arricchito da due strati di marzapane, ripieno di bucce di limone candite e di frutta secca.

Finlandia

Una delle tradizioni più popolari in Finlandia è mangiare il Mämmi, un budino al malto servitor con panna o gelato alla vaniglia. Il piatto viene di solito consumato durante il venerdì Santo e, in generale, durante il periodo di digiuno, di certo molto più che nel resto dell’anno.
Tra i piatti tipici della festa il Pasha, a base di formaggio simile al quark, analogo alla Pashka russa e alla Pasca rumena, di forma circolare con al centro una croce di pasta, e il Mammi, un budino di farina di segale condito con melassa che si consuma freddo con panna e zucchero.

Russia

Dal Nord ci spostiamo verso est e più precisamente nella sconfinata Russia, dove la Pasqua è sinonimo soprattutto di dolci. In tavola, al posto del coniglio, non può mancare il porcellino al forno, fatto marinare con succo di limone, pepe e alloro, quindi salato, imburrato e cotto in forno. Ma è appunto al termine del pranzo che le famiglie russe danno il meglio di sé. Il dolce principe dai monti Urali al confine con la Cina è senz’altro il kulish o koulich, un grosso muffin lievitato coperto con glassa di zucchero o zucchero a velo.

Polonia

Dalla Russia torniamo a spostarci di nuovo verso ovest e ci fermiamo in Polonia, un Paese prevalentemente cattolico, in cui piatti tipici come la Pasha, simile alla Paska russa, e il Mazurek, sono serviti di solito nei giorni di festa. Il Mazurek è una torta sottile realizzata con uno strato di frolla e uno di una pasta diversa, più morbida. Il dolce può essere guarnito con marmellata, cioccolato o con altre creme. Le uova sono invece le protagoniste della mattina di Pasqua: accanto a loro, per una colazione-pranzo molto ricchi, compaiono prosciutto cotto e salsicce, un po’ come avviene in Croazia.

Mazurek

Romania 

In Romania a Pasqua si cucina il Kozunak, una sorta di panettone preparato in diverse varianti, la più comune sembra essere quella con i semi di papavero. Un’altra specialità molto diffusa è la Ciorba, una zuppa acida cui vengono accostati generalmente arrosti di manzo e sformati di agnello. Il dolce tipico di Pasqua è la Pasca, una torta al formaggio.

Croazia

Il nostro viaggio in giro per l’Europa volge quasi al termine, ma prima del capolinea è d’obbligo una fermata in Croazia dove, come in gran parte del Nord Europa, le uova bollite e decorate a mano non mancano mai. Con una variante del tutto particolare: ogni commensale ha un uovo nella mano e deve colpire l’uovo dell’avversario per vedere quale dei due ha il guscio più duro. Vince chi possiede l’uovo che resiste meglio all’urto. Durante la Pasqua, tra i cibi più utilizzati ci sono il prosciutto cotto, le cipolline dolci, il radicchio e il rafano. Ma il piatto davvero tipico è il Pinca, un tipo di pane dolce, simile al Hefezopf tedesco. 

Grecia

L’ultima fermata del nostro immaginario Orient Express ci porta in Grecia, dove si festeggia la Pasqua ortodossa con la zuppa Maghiritsa, preparata con interiora di agnello tagliate finissime e lessate con cipolla, aneto, riso. Accompagna tutto una salsa a base di uovo e di limone. Le interiora d’agnello possono essere gustate anche allo spiedo (il piatto si chiama Kokoretsi), mentre il dessert tipico si chiama Tsoureki ed è un pane dolce lievitato, aromatizzato con semi di ciliegio selvatico e decorato con uova sode. Il pandolce è tipico anche in Olanda, dove prende il nome di Paasbrod: è arricchito all’interno con uva passa e ribes, ed è morbido come una ciambella.