Buoni pasto a doppia velocità

Nel pubblico le commissioni non possono oltrepassare il 5%, mentre nel  privato arrivano a sfiorare il 20%. La sfida è quella di cercare di uniformare i due settoriLa questione è delicatissima ed intricata quanto basta per creare più di qualche pensiero ai tanti ristoratori che da tempo stanno interrogandosi sull’effettiva opportunità di continuare o meno ad accettare i buoni pasto. Diciamolo subito: una risposta giusta, capace di soddisfare esigenze ed aspettative di tutti non c’è. Da una parte serbatoio di clientela che facilmente può fidelizzarsi al proprio locale, dall’altra i buoni pasto rappresentano un prezzo a volte troppo alto da pagare, se si vuole restare sul mercato: commissioni esorbitanti, tempi di pagamento molto lunghi (si parla di settimane per ricevere il corrispettivo in denaro) e in alcuni casi anche l’incertezza della tenuta delle società emettitrici (leggi: fallimento di Qui! Group, che nel 2018 finì a gambe all’aria con 325 milioni di euro di debiti, pagati in gran parte proprio dai commercianti, che per molto tempo avevano continuato ad accettare ticket che non sono più stati rimborsati).

Chi è del mestiere questi meccanismi li conosce bene: chi acquista i buoni pasto dalle società emettitrici, lo fa chiedendo sconti anche a doppia cifra, che poi si traducono in commissioni fino al 15-20% a carico dei titolari di bar e ristoranti, sottoforma di commissione. Lo scorso mese di marzo un primo, importante passo per sbrogliare la matassa è stato fatto, grazie anche al meticoloso lavoro ai fianchi della Fipe, la Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi. Nell’ultima gara d’appalto che si è chiusa a inizio primavera, la Consip – società per azioni del Ministero dell’Economia che si occupa della gestione dei servizi – ha fissato al 5% il tetto massimo delle commissioni che le società emettitrici di buoni pasto possono chiedere ai commercianti.

Una svolta (quasi) epocale, che però non risolve del tutto il problema. Questa condizione vale infatti solo per il mercato pubblico, che pure vale un miliardo e 250 milioni di euro l’anno, pari a poco più di un terzo del giro d’affari complessivo. Resta dunque scoperto il settore privato, che di miliardi ne vale addirittura 2, e sul quale il peso dello Stato non può farsi sentire. Oggi il rischio più evidente per il titolare di un locale è quello di ricevere buoni pasto di Serie A e buoni pasto di Serie B, ovvero ticket sui quali si ritrova a pagare il 5% di commissioni e altri sui quali la percentuale può arrivare a sfiorare il 20%, con ripercussioni non solo sul cassetto del ristorante, ma anche sul servizio ai clienti (a tutti i clienti, ovviamente, non solo quelli che si presentano coi buoni). E vedremo come. 

Nel frattempo aver «sistemato» il comparto pubblico rappresenta un primo obiettivo raggiunto: «Si era arrivati a condizioni di vendita con sconti a monte troppo alti, che generavano commissioni ancora più elevate e, dunque, insostenibili per i commercianti – spiega Oscar Fusini, direttore di Ascom Confcommercio Bergamo –. Lo Stato risparmiava tanto, ma tutti questi soldi venivano poi ricaricati sugli esercenti». Ora le cose sono cambiate: nella commissione massima del 5% rientrano anche gli eventuali servizi aggiunti (ad esempio i pagamenti più veloci o anticipati), che normalmente le società si facevano pagare con ulteriori ritocchi alle loro percentuali. Tutto questo è senz’altro un bene: si stima che solo in Lombardia la mossa di dare un freno alle commissioni per il settore pubblico genererà un risparmio di 14,1 milioni di euro all’anno per i commercianti. «Siamo di fronte a una manovra importante – dice ancora Fusini –. Resta però ancora da definire il mercato privato e con esso altre questioni legate all’innalzamento della qualità del servizio e al superamento del concetto del massimo ribasso». Altri nodi da sciogliere sui quali però l’impressione è che non sarà così facile intervenire, non almeno nel breve periodo. 

Il fenomeno dei buoni pasti non è affatto marginale: nella sola provincia di Bergamo sono circa 59mila lavoratori tra settore pubblico e privato a riceverli, e sono sempre più numerosi: dopo la pandemia il numero di coloro che riscuoto i ticket ogni mese è cresciuto di 2mila unità per effetto dell’incremento dei servizi legati al welfare aziendale. Il valore complessivo si aggira intorno ai 70 milioni di euro all’anno in Bergamasca, con una media di poco superiore ai 1.200 euro all’anno per lavoratore, pari a 5,36 euro al giorno, di certo non il valore di un pasto, ma un buon contributo (il buono mutua il valore di un pasto servito in una mensa aziendale). I punti vendita che accettano i buoni pasto sono circa 800.

«Stiamo parlando di uno strumento che risulta essere ancora efficace – spiega Fusini–; al lavoratore piace perché è molto spendibile: serve per mangiare, ma anche per fare la spesa, ed è un’integrazione al reddito del tutto defiscalizzata. I buoni pasto piacciono anche perché sono molto flessibili nell’utilizzo, basti pensare che tanti di coloro che non li hanno, vorrebbero beneficiarne. Per il datore di lavoro è innanzitutto uno strumento che fa parte del welfare aziendale e che serve in qualche modo a fidelizzare i dipendenti e a gratificarli, con un onere contributivo e fiscale davvero minimo per l’azienda». Al netto delle difficoltà che permangono in un contesto ancora troppo variegato, i benefici ci sono e «pesano» non poco sulla circolazione dei buoni pasto e sulle loro prospettive future. «Con l’ultima gara Consip è stato ottenuto un primo risultato, ma occorre sistemare l’impianto normativo per migliorare l’equilibrio della filiera anche nel settore privato– insiste Fusini, richiamando l’obiettivo sul quale è necessario continuare a lavorare–. Si deve impedire, per esempio, alle aziende di spuntare il massimo ribasso, che si traduce in commissioni insostenibili per i commercianti, puntando in questo modo ad aumentare il livello della qualità e della fruibilità del buono pasto». 

Commissioni ragionevoli e dunque più sostenibili, insieme a tempi di pagamento più certi: sono questi i prerequisiti necessari per indurre ad accettare i buoni pasto anche chi attualmente preferisce non averci a che fare. Spesso si tratta di locali di un certo livello che se entrassero nel giro dei buoni pasto, potrebbero contribuire a trascinare verso l’alto la qualità media dell’offerta, ma che in questo momento non hanno interesse a farlo. «Per questo motivo – conclude il direttore di Ascom – si deve lavorare per rendere sostenibile a lungo termine tutto il processo di filiera, a vantaggio di chi acquista i ticket, di chi li compra e degli esercenti che li accettano».

Eccola, dunque, la sfida per il prossimo futuro: provare a metter mano alla giungla del settore privato che viaggia ancora con commissioni «libere». E qui la palla passa di nuovo tra i piedi della Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi: «Stiamo lavorando su più fronti – spiega Luciano Sbraga, direttore dell’Ufficio Studi di Fipe –. Siamo impegnati innanzitutto in un’azione di “persuasione morale” nei confronti dei datori di lavoro privati e in particolare delle grandi aziende che acquistano i buoni pasto per i loro dipendenti, Stiamo cercando di sollecitarli a un’assunzione di responsabilità nei confronti di tutti gli stakeholder della filiera. Se loro pretendono dagli emettitori uno sconto esagerato, è chiaro che l’emettitore lo ribalta a sua volta sugli esercizi convenzionati».

Per l’azienda, vale la pena ricordarlo, sono totalmente deducibili e decontribuiti i buoni pasto fino a 8 euro (se elettronici; quelli cartacei lo sono fino a 4 euro). «Stiamo lavorando anche per capire quale potrebbe essere lo strumento più adatto per regolare il sistema. La verità è che il codice degli appalti non vale per i contratti privati e il tetto del 5% che abbiamo ottenuto sulle gare pubbliche non si applica alle aziende». In altre parole, una soluzione ancora non c’è: compito della Fipe è quello di trovarne una per fare in modo che anche ai contratti privati si possa applicare una commissione massima che non superi il 5%. Se la cosiddetta «moral suasion» sulle aziende sortirà qualche effetto lo vedremo nei prossimi mesi, ma probabilmente non prima della fine dell’anno, quando si avranno – è questo l’auspicio – i primi risultati di un’iniziativa di comunicazione in programma per la ripresa delle attività lavorative dopo l’estate. 

«Il rischio al quale siamo esposti con queste commissioni non è tanto quello di ritrovarci con dei buoni pasto a doppia velocità – è l’opinione di Luciano Sbraga –. Semmai stiamo registrando lamentele da parte dei lavoratori rispetto al fatto che alcune tipologie di buoni non vengono accettate nei locali. Alcune commissioni sono troppo alte e gli esercenti possono decidere di non prendere alcuni ticket, rinunciando però a dare un’opportunità in più ai loro clienti. Il danno è per entrambi: il lavoratore sa di non poter avere un servizio, mentre per l’esercente essere costretto a rinunciare a un cliente è sempre un problema».

In alcune regioni è anche possibile che una stessa azienda emettitrice abbia sottoscritto contratti sia con lo Stato che con qualche datore di lavoro privato: e così buoni pasto apparentemente uguali possono avere un peso anche molto diverso per le tasche dei ristoratori.

Il fatto è che quando una vendita presenta più costi che benefici, al titolare di un bar o di un ristorante non resta che farsi due conti in tasca e per mandare avanti l’azienda può vedersi costretto anche a rinunciare a qualche coperto. L’alternativa è quella di trasferire i costi anche sugli altri clienti, ma ciò vorrebbe dire aumentare prezzi per tutti, anche per chi paga in contanti (o comunque senza buoni pasto). «Ma anche in questo caso non è facile prendere una decisione – dice ancora Sbraga –. L’esercente deve fare i conti con il mercato, e non può permettersi né di aumentare i prezzi in modo indiscriminato, né tantomeno di abbassare troppo la qualità, rischiano di perdere i clienti».

Un equilibrio che non è per niente facile da raggiungere; la soluzione meno indolore, al momento, resta dunque quella di non prendere i buoni pasto che hanno commissioni insostenibili. Fare leva sui lavoratori non è possibile perché, a parte il disagio di non vedersi accettare i propri ticket in alcuni locali, per loro il valore del buono pasto resta quello nominale, a prescindere dalle commissioni. Anzi, molto spesso coloro che usufruiscono dei ticket non sono a conoscenza delle dinamiche che s’intersecano dietro il blocchetto dei loro buoni pasto, «e non si rendono conto che l’eventuale disservizio non è altro che il risultato finale di una scelta che fa il suo datore di lavoro quando vuole risparmiare eccessivamente sull’acquisto di quel servizio – puntualizza il direttore del Centro Studi di Fipe –. Da parte loro, anche gli emettitori hanno una parte di responsabilità, poiché rappresentano la cinghia di trasmissione tra il datore di lavoro e l’esercente, ma è evidente che se possiamo parlare di “ingordigia”, questa è tutta del datore di lavoro». E non sembra percorribile neppure la strada in una forma di tassazione da mettere in capo alle aziende private per scoraggiarle a chiedere sconti sempre più elevati.

In attesa di un non facile soluzione, un’altra questione ancora aperta e sulla quale la Fipe come rappresentante dei gestori dei locali è chiamata a fare una riflessione, riguarda i costi aggiuntivi legati alla gestione dei Pos. Nei bar e nei ristoranti ce ne sono ancora tanti e l’obiettivo è quello di riuscire ad avere un Pos unico per tutti. Un’opera di semplificazione, anche questa, di portata eccezionale, che però coinvolge anche gli istituti di credito, aumentando il coefficiente di difficoltà. «Ancora non si trova la strada per farlo – ammette Sbraga –, ed è un altro motivo per cui molti esercenti sono scoraggiati dall’accettare i buoni pasto. Ormai sulla questione dei buoni pasto elettronici la strada è tracciata: lo sono tutti i ticket oggetto dell’ultima asta pubblica, e parliamo già di un terzo del totale, e anche nel privato la percentuale di chi li adotta in questa forma è sempre più rilevante».

 


Giorgio Locatelli: “Si criticano i giovani ma credo sia un’idiozia”

Il giudice di Masterchef e Home Restaurant fa il punto sul futuro della ristorazione in un’intervista a tutto campo

Entriamo in scivolata a freddo, nel mezzo di un soleggiato pomeriggio londinese. In Inghilterra, come in Italia, tanti ristoranti sono chiusi il lunedì, ed è il giorno di “corta” anche per Giorgio Locatelli che, tra un set televisivo e l’altro, ci risponde dalla sua Locanda – primo ristorante italiano stellato all’estero – dove ha appena provato a convincere l’addetto alla spesa di un albergo di lusso, cui lui fa consulenza, che se un Parmigiano Reggiano invecchiato 36 mesi costa il doppio di un 12 mesi, è del tutto normale. «La qualità dei prodotti italiani è altissima – dice – ma bisogna ancora insegnare alla gente come riconoscerli, purtroppo anche agli addetti ai lavori». Il takle, però, è in agguato e arriva subito alla prima domanda sul successo della trasmissione “Home restaurant” condotta dallo chef su TV8.

Lo sa quanti nemici si è fatto, in Italia, tra i suoi colleghi, sponsorizzando gli home restaurant in televisione? 

Dice davvero? No, non penso: stiamo parlando di due esperienze completamente diverse, quasi agli opposti. L’home restaurant è andare a trovare qualcuno, volerlo conoscere, vedere cosa succede in casa; non c’è una carta, o una proposta internazionale, ma un menù già deciso, che è l’espressione della persona che vive in quella casa.

L’atmosfera è diversa, su questo siamo d’accordo. Resta però un’alternativa al ristorante.

Non credo che l’home restaurant possa cannibalizzare i clienti dei locali. Dopotutto, sono talmente poche le persone che si possono trovare a cena in un appartamento, che il problema non esiste. L’idea è quella di passare una serata diversa e di esplorare un modo nuovo di stare insieme. E per chi cucina non può essere un business: di soldi ne circolano pochi.

Un hobby, più che una nuova occupazione? 

Sì. Io per esempio ho incontrato persone che sapevano tutto di whisky, o che andavano matte per un ingrediente, o una ricetta. Il contesto è molto personale, familiare, anche nel servizio.

Lo sviluppo degli home restaurant può essere legato alla riscoperta della cucina che tutti noi abbiamo vissuto durante il lockdown? 

Sì, sicuramente il Covid ci ha cambiato tantissimo, anche nella maniera con cui facciamo la spesa. Ha avuto un impatto sulla nostra vita che forse capiremo bene solo tra qualche anno. Un tempo a Londra gli home restaurant venivano organizzati perlopiù dai giovani che, non avendo tanti soldi, facevano una colletta, andavano a fare la spesa e tornavano a cucinare quello che avevano comprato. Adesso si sono evoluti e ce ne sono di più. Ma non possiamo parlare di vere e proprie aziende.

Ha mai mangiato male nelle case che ha visitato per la sua trasmissione? 

Ne ho provate 25 in giro per l’Italia e devo dire che lo standard è molto buono. Il programma è nato da una cosa che accomuna tutti gli chef: nessuno li invita mai a cena, per paura delle critiche. Questo però è sbagliato perché quando i cuochi vanno a cena da qualcuno, piuttosto che fare una lamentela, si mettono qualcosa in tasca, se proprio non è buona da mangiare. A me l’idea è piaciuta subito: entrare nelle case degli italiani è un po’ come prendere il polso della cucina familiare tradizionale, e raccontare uno spaccato della cultura del mangiare in Italia, che ci contraddistingue nel mondo. Nessuno cucina meglio della mamma, e questo è un valore grande che noi italiani abbiamo ancora. Altrove la gente non fa più da mangiare, mentre da noi questa passione per la cucina fa parte della nostra identità. E devo dire che sono rimasto lusingato e a volte straordinariamente colpito da pranzi o cene molto piacevoli. Qualcuno ha preparato piatti che potrebbero essere serviti in un ristorante stellato.

La cucina familiare resta la spina dorsale della ristorazione italiana che però in questi anni ha sofferto tanto. 

Chi ha subito di più gli effetti della crisi sono i ristoratori in affitto. Le attività storiche, quelle a conduzione familiare, i cui titolari sono proprietari anche dei locali, hanno sofferto meno e in percentuale sono quelli che sono sopravvissuti di più.

Ci siamo risvegliati dalla pandemia con il problema del personale. Oggi sembra che più nessuno voglia lavorare nei ristoranti.

È un problema che abbiamo anche noi: la Brexit ha fermato il flusso di talento europeo, e specialmente italiano, di persone che venivano anche per imparare l’inglese. Oggi è più difficile che i ragazzi arrivino solo per lavorare. 

Anche in Italia i ristoratori fanno fatica ad assumere. Com’è possibile? 

Oggi si criticano tanto i giovani, ma credo che questa sia un’idiozia: i ragazzi di oggi sono molto più intelligenti, maturi, onesti e aperti al mondo. Arrivano a lavorare dopo aver studiato e la qualità è altissima. Dobbiamo solo invogliarli; c’è chi dice che non vogliono lavorare il sabato e la domenica, ma non credo che sia così. Chi nasce con la passione della cucina, sa che il fine settimana si lavora: se io non lavoro a Natale mi sento male. 

E allora, dov’è il problema?

Serve motivare il proprio personale e fargli intravvedere una carriera. Io, per esempio, non ho problemi in cucina, ma nel servizio. Dobbiamo entrare nell’ottica che il nostro non dev’essere un lavoro da matti. Oggi è un po’ così: si parte alle 9 del mattino e si rientra alle 2 di notte. Se vogliamo farla diventare una professione seria, dobbiamo accettare il fatto che la gente sia pagata bene per lavorare il giusto. Dobbiamo vendere ai giovani questo mestiere come una carriera. 

Senza alzare i prezzi, come si fa? 

Bisogna far pagare ai clienti per il servizio che riusciamo a dare. Il mondo è cambiato e oggi la vita media di un ristorante a Londra è molto più breve che in passato: il 40% fallisce entro un anno e gli altri chiudono quasi tutti prima dei 5 anni di attività. Chi riesce ad andare avanti è spesso finanziato da qualcuno. 

I giovani che entrano in cucina sono meno improvvisati di un tempo?

Sicuramente. Gli improvvisati sono di più in sala: si inizia un po’ così, poi si scopre che si può fare carriera e si prosegue. Noi cuochi e maȋtre d’hotel dobbiamo lavorare proprio su questo: far diventare questo mestiere una professione.

Manca la formazione per il personale di sala? 

No, manca la gente che vuole diventare cameriere, perché in tanti lo vedono come un lavoro che non dà un futuro. Non a caso gli istituti alberghieri hanno diminuito le classi di sala e aumentato quelle di cucina. 

Questo grazie anche a voi di Masterchef.

Grazie a noi, forse, ma anche al “sistema Italia” che in 20 anni è cambiato molto. Siamo in un momento molto positivo per quanto riguarda, per esempio, i prodotti di qualità e dobbiamo cercare di cavalcarlo, questo momento. Le copie, l’Italian sounding, purtroppo ci saranno sempre. Noi però dobbiamo cercare di far capire alle persone qual è la differenza, e ciò può arrivare con la serietà nel trattare il prodotto e con l’insegnamento. Dopodiché, quando fai da mangiare bene, la gente se ne accorge e se lo ricorda. Sappiamo tutti riconoscere qualcosa di buono.

E qui torniamo ai prezzi, che secondo alcuni ristoratori andrebbero alzati. 

Non lo so, dipende dai locali e dalle proposte: io pago mezzo milione di sterline all’anno di affitto, faccio 50 mila coperti e so che ogni cliente mi costa 10 sterline solo d’affitto. Poi c’è chi è proprietario del suo locale e chi riesce a mantenere un prezzo competitivo perché è più bravo degli altri. Certo, invece di proporre una carta con 30 piatti, ne bastano 5 fatti bene, e questo è un trend che ho notato molto in questi anni. Oppure ci sono ristoranti che propongono dei menù degustazione, magari anche di 15-16 portate, o altri che si specializzano in qualcosa. Così si possono tagliare costi di personale e di approvvigionamento. 

La soluzione sta nei menù più corti? 

Sì, magari focalizzati sul prodotto stagionale, per risparmiare ed evitare gli sprechi. Ognuno, poi, deve trovare il suo parametro e bisogna tenere conto anche della tipologia di ristorante: il mio è in centro a Londra e quando un mese fa ho tolto il pollo dalla carta – perché il nostro fornitore, che li alleva solo per il mio ristorante, non riusciva a starmi dietro – ho dovuto discutere con mia moglie, perché giustamente mi diceva che in un posto internazionale come il nostro, non possiamo obbligare la gente a mangiare solo carne rossa. Altrimenti, ripeto, bisogna specializzarsi ed è quello che stanno facendo tanti nuovi ristoranti stellati italiani.

E i clienti come reagiscono?

Sinceramente non so se la gente è pronta a capire questo passaggio; certo sarebbe molto più semplice se tutti i ristoratori si orientassero in questo senso.


La rivincita della barbabietola: da prodotto povero a protagonista di piatti stellati

C’è quella da zucchero e quella da foraggio, quella da orto e la «cruenta»; gli antichi più che in cucina, la utilizzavano per le sue proprietà medicinali, tanto che ancora oggi è considerata un toccasana per le ossa grazie alle sue intrinseche quantità di calcio e magnesio, oltre che un’arma efficace – chi l’avrebbe mai detto? – contro la depressione. Insomma, si fa presto a dire barbabietola. La sua fama, inutile nascondersi, non è tra le migliori: sarà per il suo colore rosso scuro non troppo accattivante o per il sapore dolciastro che è in grado di sprigionare e che difficilmente sposa i gusti dei palati più sopraffini e delicati. Tubero fin troppo bistrattato rispetto alla più democratica patata o al «trendissimo» topinambur, la barbabietola sta tuttavia concedendosi un meritato riscatto in cucina, grazie soprattutto all’intuizione e all’azzardo di qualche chef. Perché di azzardo, in fondo, si tratta, quando si decide di proporre ai clienti dei propri ristoranti, anche stellati, una ricetta a base di questo ingrediente povero dell’orto e ancora poco apprezzato, perché forse troppo poco conosciuto.

Vincente per Enrico Bartolini

Ma quando a cedere alla tentazione di rielaborare la barbabietola, rendendola addirittura protagonista di un piatto «stellato», è nientemeno che l’enfant prodige della cucina italiana Enrico Bartolini, 42 anni e 8 stelle Michelin nel suo palmarès, allora forse è il caso di soffermarsi un attimo per capire quali risorse può offrire alla carta di un ristorante (e, perché no, anche alla cucina di casa), un ingrediente come la rapa rossa. L’azzardo che ormai 16 anni fa ha portato Enrico Bartolini a proporre un risotto con barbabietola e gorgonzola ha premiato il pluristellato cuoco toscano – presente a Bergamo con il suo «Casual» di Città alta – al punto che quella ricetta oggi rappresenta il suo piatto più iconico, cucinato su richiesta in ogni parte del mondo, dall’America all’Estremo Oriente, agli Emirati, fino agli appuntamenti mondani più prestigiosi, come la «prima» della Scala. 

Prima di lui lo aveva fatto anche il maestro della cucina italiana e del risotto, Gualtiero Marchesi; ma è grazie ad Enrico Bartolini e alla sua intuizione durante un soggiorno in Oltrepò Pavese, che la barbabietola ha iniziato ad entrare nelle carte dei ristoranti. «In Oltrepò le rape rosse si coltivano, così come il riso – dice lo chef –. E siccome da quelle parti si ha l’abitudine di mangiare gorgonzola, mi sembrava che un risotto con questi ingredienti potesse raccontare il bene territorio». Così nel 2005 nacque la ricetta che Bartolini proposte da subito nel suo ristorante «Le Robinie Bistrot» di Montescano (Pv). «È stato apprezzato così tanto – ammette – che non abbiamo più smesso di farlo. La combinazione di questi ingredienti è risultata piacevole al gusto e alla vista e per anni è rimasto in carta. A un certo punto, sembrava che questo piatto avesse un aspetto tecnico più debole rispetto ad altri, perciò abbiamo pensato di complicarlo un po’, aggiungendo un’essenza di noci e una salsa di ciliegie o di more, in base alla stagione: le note della frutta esaltano l’acidità della rapa, mentre il gusto della noce è tannico, profumato, quasi amaro e dà un grado di complessità al piatto».

Inutile chiedere allo chef se pensa di rimettersi di nuovo in gioco con un’altra ricetta a base di barbabietola: «È un ingrediente ricco di personalità – dice – e non avendo carte molto lunghe nei miei locali, sarebbe una ripetizione. È un ortaggio cui sono molto affezionato, ma arriva inevitabilmente il momento in cui c’è voglia di cambiare. Quando iniziammo a utilizzarla, la barbabietola si usava molto poco. Ricordo che da piccolo, negli hotel, vedevo queste rape tagliate, messe nei barattoli che sapevano di terra. Forse per questo ne abbiamo un ricordo sbagliato. Oggi la barbabietola è molto popolare, soprattutto nelle cucine del Nord Europa, dove un tempo veniva data da mangiare alle mucche o spedita per le mense ospedaliere in altri Paesi».

In Italia c’è anche chi ha provato a centrifugarla e a servirla al ristorante come aperitivo, «ma è una tecnica che rilascia le proprietà lassative della barbabietola – avverte Bartolini –, per cui non mi sembra una buona idea. Detto questo, vedo che c’è senz’altro della creatività attorno a questo ingrediente, che probabilmente sta prendendo sempre più piede in questi anni. Se coltivato bene è buono e può dare spunti interessanti a chi lo cucina».

 

Divertente per Filippo Saporito

Decisamente più consono è l’utilizzo che fa della barbabietola Filippo Saporito, chef dello stellato «La Leggenda dei Frati» di Firenze, che pure la propone come antipasto: «Amo molto il mondo vegetale e cerco sempre di esaltarlo al massimo – dice –. La scelta della barbabietola arriva da uno stimolo di alcuni clienti vegani. Noi abbiamo sempre in carta un menù pensato per loro, ma che è in grado di accontentare un po’ tutti. Utilizzare la barbabietola mi diverte, innanzitutto perché inganna l’occhio, sembrando una bresaola, poi perché si possono comporre piatti colorati, freschi e con sapori delicati. E i nostri clienti rimangono piacevolmente stupiti. Fino a 10 anni fa era persino difficile trovarla cruda, oggi con l’avvento della cucina nordica c’è stato senz’altro un ritorno anche nelle nostre cucine».

Versatile per Massimo Amaddeo

A Bergamo, l’estate scorsa, è stato il ristorante «Da Mimmo ai Colli» a proporre la barbabietola in più versioni nei suoi menù: non solo come ingrediente di punta nel risotto, ma anche nell’impasto degli gnocchi o preparata a maionese nei club sandwiches. «È senz’altro un tubero molto interessante, che dà molto colore ai piatti e che quindi può essere una scelta vincente – spiega il titolare del ristorante, Massimo Amaddeo –. Cruda, cotta o rielaborata in tanti modi, la barbabietola può dare grandi soddisfazioni. Si possono fare gli gnocchetti, per esempio, inserendo nell’impasto spezie come la cannella, che dà una spinta forte, in contrasto con la dolcezza della barbabietola. Un ottimo condimento può essere un crumble di Agrì di Valtorta, che è presidio SlowFood, oppure lo Strachitùnt, con il suo naturale contrasto di bianco e blu». Una ricetta “veloce” per un’esperienza culinaria senza dubbio inedita (meglio se arricchita da foglie di salvia fritta come decorazione). «Come tutti i tuberi – dice ancora Amaddeo – la barbabietola è un po’ bistrattata. Peccato, perché la natura ci ha dato una biodiversità incredibile, che spesso non sfruttiamo. In particolare, la barbabietola ha sempre suscitato un po’ di diffidenza, forse a causa del suo particolare aspetto cromatico, ma ora la gente si sta avvicinando. Non è invadente nei piatti, quindi non predomina, anche se bisogna saper dominare quel suo carattere dolciastro per raggiungere un equilibrio apprezzabile. Noi, per esempio, l’abbiamo proposta anche come piatto da finger o da pranzo e, in chiave più moderna, preparando una maionese di barbabietola con pane tostato, verdure e formaggio».

Dopo i suggerimenti degli chef, torniamo a scoprire qualche altra proprietà «nascosta» della barbabietola. Ricca di sali minerali, vitamine e oligoelementi, è anche un ricostituente naturale contro stanchezza, mancanza di appetito e anemia grazie alla presenza di microelementi che rivitalizzano i globuli rossi e riequilibrano i livelli di ferro nel sangue. Pochi ingredienti in cucina hanno un colore così acceso: quello della rapa rossa è dovuto alla betaina, un pigmento solubile in acqua; dalle barbabietole si estrae un colorante naturale che viene normalmente utilizzato nell’industria alimentare, ma anche per la tintura tradizionale di tessuti.

 


Paese che vai, Pasqua che trovi: la rinascita sulla tavole del mondo

Dalla Croazia alla Spagna, dalla Grecia alla Germania: andiamo alla scoperta delle ricette tipiche che arricchiscono le festività pasquali

Paese che vai, tradizioni, ricette e (soprattutto) menu che trovi. Le abitudini degli europei in tavola nella settimana di Pasqua non fanno certo eccezione: ognuno ha le sue e, a voler vedere, come ci si sposta di latitudine, sanno modificarsi in modo così radicale che in certi casi si fa persino fatica a raccoglierle tutte. Eppure, ci sono almeno un paio di capisaldi della tradizione che sono comuni a tanti Stati del Vecchio Continente. L’agnello, per esempio, ma specialmente le uova – seppure preparate in modi anche diversissimi da un Paese all’altro – potrebbero farci sentire un po’ più a casa se, in occasione della Pasqua, dovessimo trovarci seduti a tavola in qualsiasi altro posto in Europa, lontano dall’Italia. Dall’Osterlamm tedesco al Gigot d’Agneau alla francese, fino allo stufato portoghese, il piatto forte della tradizione pasquale in Francia, in Germania e in Portogallo è senz’altro l’agnello che – attenzione – nei Lander tedeschi è declinato anche nella versione da dessert. 

Da quelle bollite a quelle decorate a mano, proposte alla fine del pranzo oppure, come in Croazia e in Polonia, fin dalla prima colazione, le uova sono senz’altro le protagoniste della Pasqua non solo in Italia e in Europa, ma un po’ in tutto il mondo, e il perché è presto spiegato: associate spesso alla fecondità della primavera, le uova – anche per la loro forma molto particolare – hanno sempre rivestito un ruolo unico, quello del simbolo della vita in sé, ma anche del mistero, quasi della sacralità. Nell’iconografia cristiana, l’uovo è il simbolo della Resurrezione (leggi, della Pasqua), dove il guscio rappresenta la “tomba” dalla quale esce un essere vivente, mentre per i pagani l’uovo è il simbolo della fertilità e dell’eterno ritorno alla vita.

Ma torniamo alla tavola e alle tante specialità che arricchiscono dalla notte dei tempi i banchetti delle famiglie europee: c’è chi, come in Russia, festeggia con il porcellino al forno e chi invece, come greci, rumeni e spagnoli, si prepara ad abbuffate (anche di dolci) con zuppe dai mille, caratteristici, sapori. Vale la pena, dunque, iniziare una sorta di rapido viaggio per l’Europa, immaginando di salire su un moderno Orient Express, che ad ogni fermata ci fa visitare un Paese diverso e conoscere alcune delle sue specialità.


Spagna

Immaginiamo di partire a ovest del Vecchio Continente, e di cominciare a indagare tra le specialità della caliente Spagna. Qui ci si prepara alla Pasqua durante la Settimana Santa che, per rispettare la tradizione di magro (i giorni che precedono la Pasqua fanno pur sempre parte della quaresima), concede alla tavola zuppe all’aglio o alle cipolle, con pane raffermo e paprika e una speciale “zuppa della vigilia” con baccalà, ceci e spinaci. Protagonista dei giorni che precedono la festa, il baccalà è spesso cucinato anche sotto forma di crocchette o in frittelle ed è presente anche nel Pa torrat del Venerdì Santo, un pane tostato al forno, con olio, aglio e formaggio, oppure con acciughe fritte e cipolle. Un po’ meno magro, è invece l’Hornazo castigliano, una torta di pane ripiena di uova, lombo di maiale e prosciutto, di cui c’è anche una versione dolce a base di mandorle, zucchero, anice e uova. Sempre in Castiglia la specialità è il Cochinillo asado, un maialino di 6 settimane preparato al forno.
E non c’è pranzo delle feste che non si concluda con uno o più dolci della tradizione. La Mona è una torta tipica catalana decorata con nocciole e uova colorate, ci sono poi le Torrijas, fette di pane fritto spolverate di zucchero e cannella, le Flores de Semana Santa, dolci croccanti a forma di fiori fritti in olio; i Bartolillos, ravioli fritti ripieni di crema pasticciera, le Rosquillas (ciambelle fritte aromatizzate all’anice), il Pestiños, dolce di origine araba tagliato a quadrato con due lembi ripiegati e bagnato con miele. E ancora: i Buñuelos, simili alle nostre frittelle e la Leche frita, crema fritta tagliata a pezzetti. 

Francia

Dalla Penisola iberica ai cugini francesi, per trovare il classico Gigot d’Agneau, che altro non è che il nostro cosciotto d’agnello che viene marinato nell’aglio, sale, pepe e olio d’oliva e poi arrostito al forno. È servito tradizionalmente con fagiolini e patate stufate e, in Provenza soprattutto, è insaporito con le classiche spezie locali. Arrosto, in crosta, allo spiedo e stufato, a Pasqua l’agnello in Francia è un piatto che si declina in tante ricette, anche a mo’ di spiedino (le tipiche brochettes d’agneau).
E se in Italia spopola la Torta pasqualina, ad accompagnare l’agnello Oltralpe c’è il Pâté de Pâques, una sorta di timballo ripieno di carne e uova, anche questo declinato in molteplici varianti. Uova e agnello sono così popolari in Francia, che li ritroviamo anche nei dolci. In Alsazia, in particolare, si preparano anche dei biscotti a forma di agnello.

Germania

Prossima fermata Germania, dove l’agnello pasquale è così tradizionale che lo si ritrova anche alla fine del pasto. L’Osterlamm (letteralmente, appunto, agnello di Pasqua) è un tipico dolce, preparato in molte varianti diverse. A parte i piatti tipici come l’Hefezopf (un tipo di brioche) e le uova bollite e colorate a mano, le tradizioni moderne si sono spostate da qualche tempo a questa parte verso il cosiddetto brunch, dove non possono mancare omelette e uova in salsa verde. Un’altra tradizione riguarda invece il giovedì santo, giorno in cui c’è l’abitudine di servire in tavola una zuppa di cerfoglio.

Inghilterra

Prima di proseguire verso Est, immaginiamo di continuare il nostro viaggio puntando a Nord. E così dalla Germania ci trasferiamo in Inghilterra, dove l’agnello arrosto tradizionale è senz’altro il piatto più tipico delle feste pasquali. Gli amanti del cioccolato non possono sfuggire ai Brownies con le uova di cioccolato cremoso. Gli Hot cross buns sono invece dei panini al latte aromatizzati con cannella o chiodi di garofano, arricchiti con uvette e con una croce di pastafrolla in superficie. Ha invece un richiamo più religioso la Simnel cake, una torta la cui decorazione richiama i 12 apostoli: è un dolce arricchito da due strati di marzapane, ripieno di bucce di limone candite e di frutta secca.

Finlandia

Una delle tradizioni più popolari in Finlandia è mangiare il Mämmi, un budino al malto servitor con panna o gelato alla vaniglia. Il piatto viene di solito consumato durante il venerdì Santo e, in generale, durante il periodo di digiuno, di certo molto più che nel resto dell’anno.
Tra i piatti tipici della festa il Pasha, a base di formaggio simile al quark, analogo alla Pashka russa e alla Pasca rumena, di forma circolare con al centro una croce di pasta, e il Mammi, un budino di farina di segale condito con melassa che si consuma freddo con panna e zucchero.

Russia

Dal Nord ci spostiamo verso est e più precisamente nella sconfinata Russia, dove la Pasqua è sinonimo soprattutto di dolci. In tavola, al posto del coniglio, non può mancare il porcellino al forno, fatto marinare con succo di limone, pepe e alloro, quindi salato, imburrato e cotto in forno. Ma è appunto al termine del pranzo che le famiglie russe danno il meglio di sé. Il dolce principe dai monti Urali al confine con la Cina è senz’altro il kulish o koulich, un grosso muffin lievitato coperto con glassa di zucchero o zucchero a velo.

Polonia

Dalla Russia torniamo a spostarci di nuovo verso ovest e ci fermiamo in Polonia, un Paese prevalentemente cattolico, in cui piatti tipici come la Pasha, simile alla Paska russa, e il Mazurek, sono serviti di solito nei giorni di festa. Il Mazurek è una torta sottile realizzata con uno strato di frolla e uno di una pasta diversa, più morbida. Il dolce può essere guarnito con marmellata, cioccolato o con altre creme. Le uova sono invece le protagoniste della mattina di Pasqua: accanto a loro, per una colazione-pranzo molto ricchi, compaiono prosciutto cotto e salsicce, un po’ come avviene in Croazia.

Romania 

In Romania a Pasqua si cucina il Kozunak, una sorta di panettone preparato in diverse varianti, la più comune sembra essere quella con i semi di papavero. Un’altra specialità molto diffusa è la Ciorba, una zuppa acida cui vengono accostati generalmente arrosti di manzo e sformati di agnello. Il dolce tipico di Pasqua è la Pasca, una torta al formaggio.

Croazia

Il nostro viaggio in giro per l’Europa volge quasi al termine, ma prima del capolinea è d’obbligo una fermata in Croazia dove, come in gran parte del Nord Europa, le uova bollite e decorate a mano non mancano mai. Con una variante del tutto particolare: ogni commensale ha un uovo nella mano e deve colpire l’uovo dell’avversario per vedere quale dei due ha il guscio più duro. Vince chi possiede l’uovo che resiste meglio all’urto. Durante la Pasqua, tra i cibi più utilizzati ci sono il prosciutto cotto, le cipolline dolci, il radicchio e il rafano. Ma il piatto davvero tipico è il Pinca, un tipo di pane dolce, simile al Hefezopf tedesco. 

Grecia

L’ultima fermata del nostro immaginario Orient Express ci porta in Grecia, dove si festeggia la Pasqua ortodossa con la zuppa Maghiritsa, preparata con interiora di agnello tagliate finissime e lessate con cipolla, aneto, riso. Accompagna tutto una salsa a base di uovo e di limone. Le interiora d’agnello possono essere gustate anche allo spiedo (il piatto si chiama Kokoretsi), mentre il dessert tipico si chiama Tsoureki ed è un pane dolce lievitato, aromatizzato con semi di ciliegio selvatico e decorato con uova sode. Il pandolce è tipico anche in Olanda, dove prende il nome di Paasbrod: è arricchito all’interno con uva passa e ribes, ed è morbido come una ciambella.