Il Ramen, l’anima più autentica del Giappone

Ne abbiamo parlato con Luca Catalfamo, unico chef non giapponese che è rimasto per due anni nella food court del Museo del ramen di Shin-Yokohama

Il ramen è un piatto unico, semplice ma saporito, diventato lo street food per eccellenza in Giappone. Esistono decine e decine di varianti della ricetta, dal brodo di carne a quello di pesce, dalle spezie alle verdure, e in Giappone ogni regione ha la propria specialità. Fino agli anni ‘50 era chiamato shina soba cioè zuppa cinese, in quanto servito dai ristoratori cinesi. Il piatto simboleggiava l’imperialismo giapponese; gustare una ciotola di shina soba in quegli anni significava ingurgitare la stessa Cina. Il nome fu cambiato in ramen, che richiama la parola cinese lamian, ossia tagliolini tirati a mano. A introdurre la specialità, per primo, in Italia è stato lo chef Luca Catalfamo, 46 anni, di Vignate, che nel 2013 ha aperto a Milano Casa Ramen e poi Casa Ramen Super, ristorante dove si possono prenotare altri piatti, abbinando un bicchiere vino o birra. Nel libro Casa Ramen, pubblicato da Giunti, Catalfamo racconta la sua storia, una giornata nei suoi locali e non manca la ricetta per preparare un ottimo ramen a casa.

La scoperta del Ramen

«Una dozzina di anni fa lavoravo nelle cucine dei ristoranti di New York quando ho scoperto il ramen per caso, come accade per tutte le cose belle – racconta Catalfamo -. Finito il turno, passando fuori dai locali nell’Est Village, mi colpì una lunghissima coda. Era gente che aspettava di entrare a Ippudo, iconico ramen bar. Entrai e fu un colpo di fulmine». Lo chef si è messo a ricercare, ha studiato, assaggiato, testato, ponendo fin da subito un confine netto tra la sua attività culinaria tradizionale e la sua passione. «Il mio approccio era da cliente affezionato, cercavo di assaggiare più tipologie differenti – dice –. Così sono volato a Sidney e a Londra, l’idea era di aprire un ramen bar a Milano. E così è stato, nel 2013, con Casa Ramen, quando nessuno sapeva cosa fosse questo piatto: ho spianato la strada a tanti professionisti, dando un’impostazione».  Dopodiché è ripartito per il Giappone per un’immersione totale nella cultura che ha dato origine al ramen per poterne catturare l’anima.

Definizione e categorie

Il ramen è una zuppa calda. «Questo secondo la visione italiana il ramen – afferma Catalfamo -. Ma è riduttivo definirlo tale, è molto di più: è il comfort food asiatico, composto da noodles freschi fatti con farina di frumento, brodo di carne o pesce e tanti altri ingredienti come pollo, uova sode, alghe. Si definisce da solo». Ci sono quattro macrocategorie: shio (brodo chiaro e molto saporito che combina carne di pollo con pesce, verdure e alghe, spesso guarnito con prugne sotto aceto), shoyu (brodo di carne scuro con salsa di soia, alghe, germogli di bambù, fagioli, uova sode e spezie), miso (brodo di miso con pesce o pollo) e tonkotsu (brodo di maiale, spesso servito con zenzero sotto aceto). «Ma non c’è una regola, la differenza la fa  chi lo cucina, in base al proprio gusto,  esperienza e anche umore – afferma l’esperto -. Varia a seconda del luogo, come accade in Italia per i piatti regionali. Il sapore del brodo non è mai identico. La regola semplice è cercare di non copiare, ma riprodurre l’anima con gli ingredienti del territorio. Il fine è portare chi lo gusta in Giappone o regalare un assaggio a chi desidera andarci».

Tonkotsu Ramen

Si narra che il ramen sia uno dei pochissimi piatti che consente di sentire l’umami, il quinto sapore, separato rispetto al dolce, al salato, all’aspro e all’amaro, che noi occidentali non conosciamo affatto. In questo caso, la prova è dimostrata facilmente assaporando il tonkotsu ramen. «Il migliore, quello che ho introdotto per primo, dal brodo denso, lattiginoso, preparato con carne e ossa di maiale che cuoce per 12-14 ore e riposa un’intera notte – conferma lo chef -.  E’ anche la variante più diffusa e gustosa».

I segreti per gustarlo

Il ramen è anche divertente da mangiare: si usano la bacchette, ma anche un mestolino per il brodo. Ecco alcune regole per gustarlo al meglio. «Girare i noodles con bacchette e cucchiaio fa molto spaghetto all’italiana, ma è parte della nostra cultura, dunque è bello da vedere – sorride Catalfamo -. Poi suggerisco di consumarli al dente e velocemente, altrimenti la pasta si ammorbidisce. Prima però si assaggia il brodo e prima ancora, lo si annusa. Gli ingredienti non vanno mescolati per godere di tutti i sapori e delle diverse sfumature, ma si mangiano uno alla volta, partendo dal topping. Seconda cosa: il brodo si beve alla fine, alzando la ciotola, senza badare all’etichetta».

Dal dilm Ramen Heads al Museo del Ramen

“Ramen heads” di Koki Shigeno, più che un documentario è un atto d’amore verso questa pietanza che rivela, passo dopo passo, i segreti dei migliori chef di questa zuppa, a partire da Tomita Osamu considerato l’imperatore indiscusso del ramen.   Per far capire quanto è grande la sua fama, il Tomita Ramen, a Matsudo, ha solo undici posti ed è un luogo di culto tra i più visitati in Giappone tanto che ha dovuto sviluppare un sistema di biglietteria digitalizzato per le prenotazioni. Esiste anche il Museo del ramen di Shin-Yokohama, vero parco a tema dedicato a questo piatto. Luca Catalfamo è stato invitato a presenziare nella food court, dove è rimasto per due anni, unico chef non giapponese.


Il maestro pasticciere Paolo Riva prende per la gola Maria Grazia Cucinotta

La troupe de “L’ingrediente perfetto” di La7 condotto dall’attrice siciliana entra nella premiata pasticceria di Treviglio

La troupe televisiva di La7 entra, domani (27 ottobre 2022), nella pasticceria trevigliese Paolo Riva, per scovare «L’ingrediente perfetto». Questo è il titolo del programma settimanale di cucina condotto da Maria Grazia Cucinotta, in onda tutte le domeniche, alle 10.10, su La7. Per la capacità di promozione delle eccellenze enogastronomiche italiane,  la trasmissione ha conquistato, quest’anno, il Premio Moige nella sezione «Intrattenimento, cultura e informazione» per essere «un programma di cucina senza chef ma con Maria Grazia Cucinotta nei panni della mamma di famiglia alle prese con delle ricette semplici e facili da replicare e in grado di esaltare tantissimi prodotti di qualità dell’agroalimentare italiano presentati direttamente dalle aziende produttrici attraverso interviste e servizi». L’attrice siciliana del piccolo e grande schermo, indimenticabile protagonista del film «Il postino» con Massimo Troisi, in ogni puntata, racconta, dalla sua cucina, sulle rive del Tevere, come un’attenta preparazione e la scelta degli ingredienti perfetti possano portare alla creazione di piatti gustosi e naturalmente sani. L’attrice, che sta girando in Basilicata «Il meglio di te», di Fabrizio MaricaCortese,  ama cucinare. I suoi piatti forti sono la parmigiana e la pasta alla norma. In ogni puntata del programma sono presentati quattro ingredienti perfetti, raccontati direttamente dai produttori locali. Paolo Riva, in particolare, svelerà tutti i segreti del cioccolato e del panettone artigianale.  Fondamentali i suggerimenti di Gianluca Mech, esperto di alimentazione naturale, che nella rubrica «la ricetta light», in questa nuova edizione, oltre ai dolci, propone anche ricette salate tra primi e secondi per un menù all’insegna della leggerezza. Le riprese nel locale trevigliese si svolgeranno domani pomeriggio, dalle 14. Il servizio sarà trasmesso nelle prossime settimane.

 

 

 

 

 


Gennaro Esposito: “Ricerca e avanguardia, con Città Alta nel cuore”

È un rinomatissimo chef napoletano, diventato famoso al grande pubblico per la partecipazione a tanti programmi televisivi dedicati ai fornelli. Gennaro Esposito, classe 1970, si avvicina alla cucina da giovanissimo: dopo il diploma alla scuola alberghiera, comincia a studiare con Giancarlo Vissani,  incontrato casualmente per i corridoi di Vinitaly. Lo chef umbro invita Gennaro a fare uno stage presso di lui: è la scoperta di un mondo nuovo, fatto di creatività. Poi il napoletano passa a lavorare nei ristoranti dell’alta cucina di Montecarlo e Parigi di Franck Cerutti e Alain Ducasse, imparandone i segreti. Decide di tornare nella sua terra per mettere in pratica gli insegnamenti acquisiti all’estero e, nel 1992, inaugura il ristorante La Torre del Saracino alla Marina di Seiano, frazione di Vico Equense, che conquista due stelle Michelin e tre forchette Gambero Rosso. Il suo talento è riconosciuto nel forte binomio tra veracità e innovazione. Ma Gennaro Esposito ha anche un passato e ricordi legati a Bergamo.

Esposito, quando ha vissuto a Bergamo e quali sono i suoi ricordi?

Io e la mia famiglia abbiamo vissuto nel cuore di Città Alta, quando allora era considerata un sobborgo e il sogno dei bergamaschi era vivere nei palazzi, nei condomini. Eravamo emigranti, io ero un bambino e mio papà lavorava all’Italcementi. Non era facile integrarsi nel tessuto sociale, ma poi ricordo che ce ne siamo andati piangendo. Si era creata una bellissima chimica. Mia mamma, armata di coraggio e amore, cucinava tanto, per lei era un modo per farci sentire il calore in un momento difficile lontano da casa e dai nostri cari. Ricordo i panini imbottiti che prevarava a me e mio fratello e i panini dei nostri compagni.

E’ stata sua mamma ad appassionarla alla cucina?

Era una bravissima cuoca, come tante mamme, che ti emozionano con poco, anche solo un uovo e una lattuga, con quelle piccole dotazioni che riescono a rendere grande la cucina italiana, caratterizzata da prodotti semplici e interpreti che la rendono incredibile. Bastano fagioli, patate, cipolle e tanta intelligenza e abilità. La nostra è la cucina dei due dopoguerra, del poco e del sacrificio. Oggi deve essere recuperata nel segno della sostenibilita, del rispetto degli ingredienti e contro lo spreco.

A proposito, secondo lei, contano di più gli ingredienti o la fantasia e le idee?

La buona tavola è una magia di tutte queste cose. C’è chi, con gli stessi ingredienti, prepara dieci piatti, chi non riesce a farne nessuno. I prodotti ti danno tanti spunti, però la tecnica, la conoscenza, la sapienza ti aiutano a dipingere degli acquerelli fatti di sapori meravigliosi.

Veniamo all’eterno dilemma: pasta liscia o rigata e perché?

Viviamo nell’epoca delle percezioni e, a volte,  questo porta a credere che la pasta rigata trattenga meglio il sugo. In realtà, la pasta rigata è imperfetta per sua natura perché il rigo, se lo guardiamo al microscopio, ha una punta e una base: quando le punte saranno cotte, la pasta all’interno sarà ancora cruda e quando le punte saranno perfettamente cotte,  all’interno la pasta si sfalderà inevitabilmente nella salsa e appesantirà la magia dell’incontro della salsa con la pasta. E’ come andare a un incontro galante con una bella donna, riempiendosi di profumo. Il troppo storpia, l’eccessiva presenza di amido rende tutto greve, meno elegante e più pesante.

Però, negli scaffali dei supermercati abbonda la pasta rigata, la liscia è quasi introvabile…

Il supermercato compra quello che il consumatore vuole. Si è perso il ruolo della gastronomia e della salumeria, luoghi dove il cliente comprava ciò che veniva selezionato; il salumiere, da persona esperta e competente, ti avrebbe consigliato la pasta liscia, mentre  nella grande distribuzione il tempo è poco, si asseconda il gusto, se ti lasci trasportare dalla corrente non ottieni niente di interessante. Oggi comanda la pubblicità che non ha nulla a che vedere con la qualità. Gli investimenti riguardano il target più ammiccante, lo spot più divertente o che resti più impresso.

Una influencer australiana ha scatenato una polemica per un menù “blind”, ovvero senza i prezzi per le donne in un ristorante a Venezia, bollandolo come sessista. Cosa ne pensa?

Abbiamo ereditato un catalogo delle buone maniere, lo stesso galateo oggi appare superato, anche se sono regole che hanno un loro fascino. Non ne farei una polemica, conoscere il prezzo è un’informazione che completa la visione di un ristorante, però, se invito una signora a pranzo o cena, vorrei farle capire che non voglio volgarmente mostrare quanto spenderò per lei, ma voglio semplicemente che si senta bene. Se andiamo io e lei a gustarci uno spaghetto in un locale la situazione è diversa e può starci che portino a entrambi il menù con i prezzi. Non esiste un modo, ma esistono tanti modi, purché abbiano a che fare con intelligenza, coerenza e un proprio modo di vedere la vita».

Ha cucinato per i Rolling Stones 

Sì tutto è nato in occasione del concerto evento al Lucca Summer Festival del 2017, quando ci siamo occupati della parte “family and friends”. C’erano ospiti stravip come Madonna e Vasco Rossi che assaggiavano i piatti del nostro brunch (in particolare ci chiesero un pasticcio di carne o shepherd’s pie e della limonata). Mick Jagger, da divo quale è, non uscì dal camerino. A un certo punto, uno dei suoi assistenti gli portò, prima del concerto, un piatto con il mio risotto agli agrumi, zafferano, gamberi e salsa al finocchietto. Quando iniziò il live e i fan si scatenarono sotto le note della storica rock band inglese, mi avvicinò un collaboratore dei Rolling Stones, domandandomi se avessi cucinato io il risotto. Venne da me con un tegamino con il coperchio, tipo schiscetta, chiedendomi quanto ci volesse per ripetere il piatto, risposi 20 minuti. Allora mi disse: “Quando sentirai “I can’t get no satisfaction”, la quart’ultima canzone, vai a prepararlo perché il signor Jagger vuole portarselo via e gustarselo durante il viaggio”. Ha voluto una vaschetta da tre porzioni, la band era rimasta talmente soddisfatta che ha voluto, quest’anno, fortemente ripetere il servizio di catering.

Chi le piacerebbe avere come ospite nel suo ristorante? E cosa gli preparerebbe?

Avevo promesso a Gualtiero Marchesi di cucinargli uno spaghetto alle vongole in bianco e, quando ci sentivamo al telefono, continuavamo a fare tutta una serie di teorie su come andava fatto e cosa bisognasse evitare di fare, perché è un piatto di grande semplicità e di una raffinatezza estrema. Mi dispiace moltissimo non esserci riuscito. Sarebbe stata un’occasione piacevole. Resta, per me, un grande rimpianto.

Lei è stato giudice di “Junior MasterChef Italia”, “Cuochi d’’Italia”, “Piatto Ricco”, conquistando con la sua simpatia il grande pubblico. Quando la rivedremo in tv?

Dico solo che ci sono diversi progetti, ma mi va anche bene dedicarmi di più al mio ristorante.

Qual è il piatto di Gennaro Esposito da provare almeno una volta nella vita?

Adoro la ricerca, l’avanguardia, la tecnica. Mi piace provare accostamenti diversi, anche con gusti a volte estremi, non “diritti”. Ma ho anche un’anima tradizionale che mi scalda tanto, ho un posto nel mio cuore, dove conservo gelosamente le mie visioni di come si interpreta la tradizione, ho sempre provato a migliorarla anche di un millesimo perché mi diverte centrare il gusto primordiale di una ricetta. In tal senso, se pensiamo alla tradizione, potrebbe essere la genovese, il ragù con cipolla e stracotto di carne, piatti che mi ha divertito tanto recuperare. E poi vale la pena sicuramente provare la zuppa di pesce “minestra di pasta mista” con crostacei e diverse varietà di pesce di scoglio, che quando la mangi ti sembra di averla già incontrata nella tua vita. Racconta il territorio, il pesce, la zuppa. Conquista il palato di un bambino come quello di un ottantenne. E tutti sono felici.


Dall’Alta Val Seriana il gusto della transumanza: nasce il gelato al fieno

Una novità che verrà presentata alla Festa del Fieno e dei Prati stabili in programma a Gradella di Pandino (Cr) dal 10 al 12 giugno

Viene proposto in pubblica degustazione il “gelato al fieno”, un’eccellenza sinora preparata solo da qualche chef in ristoranti prestigiosi.
Il fieno arriva da Nasolino (800 metri), una località della Valzurio (comune di Oltressenda Alta), che culmina nel “retro” della Presolana. Una di quelle valli che una certa retorica definisce “incontaminate” perché poco o nulla interessate dal boom dell’edilizia turistica. Il fieno di qui è figlio dell’erba morbida e sottile, trapuntata di fiori come salvia e centaurea.
Da Nasolino innumerevoli esponenti delle famiglie Baronchelli, Messa e Pedersoli hanno intrapreso, nei secoli, la transumanza verso le pianure, diffondendosi dal Lodigiano alla bassa bresciana, passando per il Cremasco. Si fa fatica a credere come da piccoli paesi e ancor più piccole contrade siano originate casate che sono si sparse per mezza pianura lombarda. Eppure è così. La transumanza con le mandrie bovine è durata cinque-sei secoli e le famiglie che si fermavano definitivamente in pianura venivano sostituite da nuove che entravano nel ciclo. Così hanno popolato le basse e hanno costruito le realtà zootecniche e casearie. Ricordiamo che anche a Crema vi era una grossa industria di latticini, la Angelo Arrigoni, famiglia della val Taleggio, che operò tra il 1922 e il 1954.
E proprio a Crema, città lungo il Serio, nasce il gelato del fieno. Unendo la passione di due personaggi: quella di Andrea Messa per la montagna e l’agricoltura e quella per il gelato da materie prime fresche e bio di Giovanni della Cremeria Unika di Crema. Messa da bambino ha fatto in tempo a fare a piedi la transumanza sino a Leno nella bassa bresciana e, da qualche anno, ha dato vita all’Associazione grani asta del Serio (che, tra l’altro, ha riscoperto il mais delle Fiorine di Clusone) e al progetto PanPrat (per rilanciare la pecora da latte nelle valli bergamasche). Andrea, inizialmente, era un po’ scettico riguardo al gelato al fieno, poi si è appassionato all’idea e l’ha attuata.
Oggi sale tanto fieno dal Cremasco verso le valli (prima scendevano le vacche a mangiarlo in inverno in pianura) ed è curiosa e bella la storia di qualche chilogrammo di fieno super selezionato, prodotto con cura amorevole, che fa il percorso inverso per diventare qualcosa di particolare: non essere consumato dalle mucche ma, sia pure nella sua essenza, dalle persone: dall’alta val Seriana al Cremasco. Si è aggiunto un tassello a questa storia di scambi ecologici e umani tra montagna e pianura fatta di latte, di acqua, di vacche, di fieno, di uomini intraprendenti e appassionati.
Qualche kg di fieno pulitissimo, profumatissimo, sceso lungo il Serio si è fermato a Crema per “fare il bagno” nel latte fresco bio locale. Latte, si badi bene, prodotto con foraggi irrigati con l’acqua dell’Adda e del Serio. Un matrimonio tra montagna e pianura più che simbolico, che ricorda i legami creati dalla transumanza lungo il Serio. Il fieno, lavato e sterilizzato è stato infuso nel latte cui ha donato i suoi aromi. E la storia è cominciata. Il primo risultato (la prima lavorazione è datata 5 giugno) è stato strepitoso. Il gelato al fieno è già in vendita alla Cremeria Unika, e, nel week end, alla Festa del fieno a Gradella di Pandino dove si troveranno anche tante altre cose buone da mangiare e interessanti e divertenti da vedere e da fare, soprattutto per i bambini.  Programma completo su www.festivalpastoralismo.org


In Città Alta torna De casoncello con un ripieno di solidarietà

Eventi e convegni dal 13 al 15 maggio. Donazioni raccolte per la comunità ucraina

L’accoglienza verso il popolo ucraino passa anche attraverso il buon cibo che porta le persone a stare insieme, a prescindere dalla provenienza o da qualsiasi altra differenza esista tra loro. Ancor di più, se si tratta di paste ripiene che riportano i prodotti e la storia del posto. Questa è la filosofia abbracciata da De Casoncello, manifestazione promossa dall’associazione De Cibo con il patrocinio e il sostegno del Comune, della Camera di commercio e dell’Archivio storico diocesano e di Bergamo Città Creativa Unesco per la gastronomia, in collaborazione con diverse associazioni del territorio. Città Alta ospiterà, da venerdì 13 a domenica 15 maggio, l’evento che, quest’anno, in via eccezionale, abbinerà le paste ripiene ucraine a quelle bergamasche. Il venerdì, dalle 19 alle 22, si terrà lo “Street casoncello”: una ventina di ristoratori proporranno paste ripiene della tradizione bergamasca e ucraina, mentre a fare da sfondo saranno la sfilata storica, i balli e le musiche tradizionali. “Paste ripiene della solidarietà” sotto i portici di Palazzo della Ragione venerdì, dalle 19 alle 22, sabato dalle 12 alle15 e dalle 19 alle 22, domenica dalle 12 alle 15: si potranno gustare casoncelli, scarpinócc, rafioli di Sant’Alessandro e varenyky. La pasta tradizionale ucraina dalla forma a mezzaluna può essere sia salata (ripiena di patate, carne, cavolo verza, funghi e formaggi), sia dolce: in Città Alta si potranno provare i varenyky con ripieno di patate e formaggio e condimento di salsiccia, cipolla o panna acida, sotto gli occhi dei visitatori, da sfogline bergamasche e ucraine. Le donazioni raccolte il venerdì sera saranno devolute alla Comunità greco cattolica ucraina di rito bizantino.

Grande attesa per il convegno di sabato, alle 10, ospitato nella Sala dei giuristi di Palazzo Podestà, dal titolo “Paste ripiene: cibo dell’accoglienza” alla presenza di monsignor Giulio Dellavite, segretario generale della curia diocesana di Bergamo che interverrà proprio sul tema della solidarietà in “Consum-attori per essere compagni, cum-panis”, del professor Massimo Montanari, docente di Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna che parlerà di “Ravioli e tortelli, un’invenzione medievale”, di Silvia Tropea Montagnosi giornalista e autrice, che tratterà l’aspetto storico in “Farina et ova ad faciendum rafiolos” e Oksana Babiychuk, di professione ingegnere, che svelerà le sue “Ricette ucraine per la pace”. A moderare sarà Raffaella Castagnini, della Camera di Commercio. Alle 15.45 visita guidata al Museo e al tesoro della Cattedrale di Sant’Alessandro e all’Archivio storico diocesano di Bergamo dove sarà in mostra la pergamena del 1187 contenente la prima attestazione in assoluto del termine rafiolo. Domenica, alle 16, lo spettacolo di burattini.

 

*credit photo: Marco Mazzoleni per De Casoncello 


Apre “La Cambusa di Chicco” in onore dello chef Coria

Inaugurato il giorno in cui avrebbe compiuto 55 anni. L’amico di infanzia Deleidi: “Abbiamo realizzato il suo sogno”

“Buon compleanno Chicco, abbiamo realizzato il tuo ristorante e so che, da lassù, stai apprezzando. Che abbiano inizio le danze”. Con queste poche parole e tanta commozione Marco Deleidi ha innalzato i calici al cielo e inaugurato “La Cambusa di Chicco” ad Azzano San Paolo, in onore dello chef Chicco Coria, mancato lo scorso dicembre per setticemia. Quella di ieri è stata un’inaugurazione in un giorno particolare: giovedì 27 gennaio, infatti, Coria avrebbe compiuto 55 anni.
Entrambi originari di Martinengo, Coria e Deleidi sono stati amici d’infanzia, poi si sono persi nel loro percorso di vita. Deleidi è, infatti, un imprenditore nel settore dei trasporti e della logistica con base della sua attività a Malta. A ottobre del 2020, aveva deciso di rilevare Puerto John Martin insieme a un altro socio, aggiungendosi al vecchio proprietario. Per rilanciare il locale, l’imprenditore si era affidato all’esperienza e ai piatti d’autore di Coria che però non ha fatto in tempo a vedere: è mancato lo scorso dicembre per setticemia alla vigilia dell’inaugurazione.

Un ristorante all’interno di un galeone

Il ristorante a lui dedicato è dentro il ristorante, all’interno di un galeone. Si accede salendo sulla scalinata. E già questo fa capire l’esclusività del locale. Sono una quarantina i posti a sedere dentro il galeone; l’ambiente è intimo e raffinato; cucina, guardaroba e servizi sono a sé stanti. Il locale è aperto solo tre sere a settimana, il giovedì, venerdì e sabato, su prenotazione (allo 035 530137). Lo chef è Andrea Moratti, che aveva collaborato con Coria.

“Chicco ci ha lasciato in eredità una miriade di ricette – dice orgoglioso Deleidi -. Proporremo i suoi piatti gourmet, tutto parlerà del suo estro. L’idea della cambusa è nata con lui, noi l’abbiamo arredata, scelto pentole, piatti, posate e tovaglie e disposto i tavoli esattamente come lui voleva”.

Di altissimo livello il menù dell’inaugurazione: frittella di baccalà con aperitivo, capesante avvolte nella pancetta con crema di trevisano e Porto, risotto con gamberi, carciofi e salsa al basilico, filetto di orata con verdure condite allo zenzero e salsa di agrumi, semifreddo al cioccolato bianco e frutto della passione. Il tutto accompagnato da vini di pregio.

 

Chef dal talento impossibile da imbrigliare, Coria era soprattutto un lavoratore infaticabile. Alla vigilia dell’inaugurazione della Cambusa era stato ricoverato all’ospedale di Romano. Prima che la situazione precipitasse e venisse trasferito al Niguarda, dove è rimasto due giorni in terapia intensiva, aveva deciso il suo ultimo menù, al telefono con il collega Ezio Gritti: insalata di calamari e capasanta con porro al pepe rosa e panna acida, risotto all’estratto di barbabietola con burrata, filetto di vitello con carciofi e riduzione al vin rosso.

“Lo faccio per il mio amico Chicco, voglio che sia ricordato, è stato uno chef coraggioso e generoso, un grande innovatore e professionista, con un talento alla pari di Cracco e Cannavacciuolo, che alla fama preferiva le sfide, come quella di trasformare il galeone di un risto-pub in un ristorante d’eccellenza”, conclude l’amico.

 


I piatti della devozione: una ricetta per ogni mese dell’anno

Usanze culinarie e tradizioni per celebrare santi e patroni: viaggio nella tradizione bergamasca e non solo

 

L’Italia è un Paese di santi, poeti, navigatori e… ricette per i santi. Sono numerosissime le usanze culinarie legate alla devozione, piatti preparati nei giorni di festa o che sono legate a un santo, ricette create per celebrare il culto, le cui origini sono spesso legate a fatti storici o a leggende. Vi proponiamo un viaggio nella tradizione bergamasca e non solo.

 

Gennaio – A BRESCIA E MANTOVA CHISÖL DI SANT’ANTONIO

Sant’Antonio Abate si festeggia il 17 gennaio. C’è una tradizione, che somiglia a una superstizione, legata al giorno a lui dedicato. Il detto recita S’at fe mia ‘l chisöl par Sant’Antoni chisuler at casca in testa al suler ovvero «se per Sant’Antonio Chisuler non prepari il chisöl, ti cade in testa il tetto». A seconda della zona, il chisöl può assumere la forma di un pane, una schiacciata con i ciccioli di maiale o dolce, di un ciambellone morbido oppure di un bussolano, una ciambella a pasta dura. Scegliete il chisöl che più vi aggrada, ma non dimenticate di infornarlo il 17 gennaio se non volete vedere crollare il tetto della vostra casa sotto il peso della neve.

Febbraio – LE NAVETTE CHE SALVARONO LE TRE MARIE IN PROVENZA 

Le navettes sono un biscotto tipico marsigliese, a forma di barca, aromatizzato ai fiori d’arancio e legato a una tradizione antichissima. Ogni anno il 2 febbraio, il giorno della Candelora, prima dell’alba, al termine di una processione, il vescovo di Marsiglia benedice le navette e il loro forno, situato di fronte all’abbazia di Saint Victor. La forma rimanda alla barca senza vela e senza remi che portò in salvo sulle coste della Provenza le tre Marie (Maria Maddalena, Maria Jacobé e Maria Salomé) in fuga da Gerusalemme. Il giorno della ricorrenza se ne comprano, o se ne infornano, 12 per simboleggiare i mesi dell’anno durante i quali si spera di ricevere protezione.

Marzo – LE FRISCEU DOLCI (E SALATE) DI SAN GIUSEPPE

Le frittelle di San Giuseppe, o frisceu de San Giòxeppe, a Genova sono golose palline fritte arricchite da qualche acino di uva zibibbo. La tradizione di friggere nel giorno dedicato al santo, il 19 marzo, è radicata in tutta la Penisola. Si pensa alle frittelle dolci arricchite con pezzetti di mela, che nelle friggitorie si trovano solo in quel periodo. Tutto l’anno c’è, invece, la versione salata: la pastella con cui sono preparate è più leggera e al suo interno sono fritti pezzetti di baccalà, stoccafisso, cavolfiore, borragini, lattughe o cipolle. Sono serviti come antipasto, ma sono anche un ottimo spuntino a merenda.

Aprile – A GANDINO CRUCA IN TAVOLA NELLA SETTIMANA SANTA
La cruca è un panettone povero e basso, preparato in Quaresima dai fornai di Gandino, dalle origini che risalgono al ‘400. “E’ una vivanda fatta con farina di frumento, zucchero, uva candiotta e altre droghe, cotta nell’olio”, scriveva Antonio Tiraboschi nel 1873 nel suo “Vocabolario dei dialetti bergamaschi”. Gli ingredienti sono legati alle contaminazioni gastronomiche favorite nei secoli dai commercianti di pannilana. Si usano cannella e uva di Candia che arrivava da Creta a Venezia, dove i gandinesi avevano fiorenti contatti.  Tutti ricordano le cruche preparate fino agli anni ’60 da Angelo e Pietro Motta, due fratelli che gestivano i forni in contrada Cerioli e sul sagrato della Basilica.

Maggio – FESTA DELLA TRINITA’ CON CHESCIOLA A CASNIGO 

Il santuario della Santissima Trinità a Casnigo è definito “la Sistina della Bergamasca” per il grande Giudizio Universale affrescato dai Baschenis. Secondo la tradizione, anticamente, in occasione della festa della Trinità (tra maggio e giugno, a seconda del calendario liturgico) l’edificio religioso ospitava un mercato che durava una settimana. Ogni anno, in occasione della festa è riproposta la tradizione del lacc è chésciöla, un dolce povero che le donne preparavano in occasione della festa usando la pasta fatta lievitare il giorno precedente e miscelata poi con latte, uova, burro, uvetta e zucchero, il tutto consumato con latte fresco.

Giugno – LA TORTELLATA IN ONORE DI SAN GIOVANNI

Nella notte del 23 giugno, che precede il giorno della ricorrenza di San Giovanni, a Parma e provincia, è tradizione cenare con i tortelli di erbette,  all’aperto, così da essere bagnati dalla rugiada, che fin dall’antichità, è considerata purificatrice e tiene lontano i malanni. Le goccioline simboleggiano il sangue versato dal capo di San Giovanni. Nella stessa notte, si raccolgono anche le noci per fare il nocino. I tortelli si preparano con pasta fresca, uova e farina, un ripieno di ricotta, erbette e Parmigiano Reggiano. Il ripieno va messo al centro di una sfoglia alta 8-10 centimetri e ripiegata su se stessa: il tortello è chiuso su tre lati e poi tagliato con una rotella dentellata.

Luglio – PIZZELLE FRITTE CON POMODORO FRESCO PER SANT’ANNA

Il 26 luglio si celebra la festa di Sant’Anna. Una ricorrenza che, a Borgo Croci in provincia di Foggia, si onora portando in tavola le pizze fritte con, sopra, sugo di pomodoro fresco: sono preparate insieme ad altri piatti tipici seguendo un rituale ricco di simbologia. L’impasto della pizza è fatto lievitare, poi è diviso in porzioni e fritto solo dopo averlo steso in piccoli dischi dal diametro di una decina di centimetri. Una volte fritte, le pizzelle sono condite con un cucchiaio di sugo di pomodoro e spolverate dal parmigiano.

Agosto – LA CORONA DI SAN BARTOLOMEO CHE FA FELICI I BAMBINI

La corona di San Bartolomeo è tipica di Pistoia e si prepara per la ricorrenza del santo, il 24 agosto. E’ composta da gustosi dolcetti di pasta frolla e consiste in collane fatte di pippi infilzati in uno spago. I pippi sono biscotti di pasta frolla dalla forma rotonda, abbelliti con pallini colorati e impreziositi da cioccolatini, quasi fossero gemme preziose, soprattutto sul medaglione centrale. I cioccolatini sono aggiunti subito dopo aver tolto i pippi dal forno, quando la pasta è ancora abbastanza morbida da permettere al cioccolatino di aderirvi. I bambini “spippolano” la corona togliendo i dolci dallo spago.

Settembre – A BARZIZZA E LEFFE I MICHINI PER SAN NICOLA

La devozione a San Nicola da Tolentino nella parrocchia di Barzizza, frazione di Gandino, risale ai tempi della diffusione della peste e si allarga agli abitanti di Leffe, che fecero voto al santo per essere liberati dal morbo. A Barzizza il 10 settembre si celebra la novena dedicata a San Nicola. A questa festa patronale è legata la tradizione dei “michini”, piccoli pani non lievitati formati da minuscole pernici disposte attorno a un pozzo, a ricordo di un miracolo di San Nicola che ridiede vita ad alcuni volatili. Le volontarie ne preparano diverse centinaia, per proporli ai fedeli dopo la benedizione che è impartita la domenica precedente alla ricorrenza liturgica del santo.

Ottobre – I MOSTACCIOLI TANTO AMATI DA SAN FRANCESCO

I mostaccioli di San Francesco, patrono d’Italia, che si festeggia il 4 ottobre, sono dei gustosi biscotti. C’è chi mette uova intere, chi lievito, chi usa la pasta di pane. La ricetta migliore è quella di Frate Indovino: in  una ciotola si mettono le mandorle, il miele, gli albumi, il mosto, il pepe e la cannella e si inizia a mescolare con una forchetta; si unisce anche la farina e si impasta con le mani, ritagliando i biscotti a forma di losanga, larghi quattro centimetri.  Si racconta che il poverello d’Assisi ne fosse ghiotto, tanto che prossimo alla morte dettò una lettera destinata all’amica Giacoma de’ Settesoli perché gli portasse i dolci che tanto amava.

Novembre – OCA CON LE VERZE PER SAN MARTINO

Il giorno di San Martino, l’11 novembre, si festeggia con una ricetta simile alla cassoeula, ma con carne di oca al posto del maiale. Si tritano cipolla e sedano, si mettono in un tegame con il burro e due cucchiai di olio e si fanno soffriggere. Poi si unisce l’oca in pezzi e la si fa rosolare, salando e pepando e lasciandola cuocere per 40 minuti. Quando l’oca è quasi a cottura, si taglia la verza a striscioline, la si lava e scola. Si mette la pancetta in un tegame con due cucchiai di olio e la si fa soffriggere; si unisce la verza, lasciandola appassire. Poi si mettono l’oca, il brodo caldo e si fa cuocere per 30 minuti. Da servire accompagnata da polenta.

Dicembre – GLI OCCHI DI SANTA LUCIA PUGLIESI

Sono taralli morbidi pugliesi in versione dolce, preparati con farina, olio d’oliva e vino bianco e ricoperti con una glassa bianca a base di acqua e zucchero chiamata sclepp. Alcune varianti prevedono aromatizzazioni all’anice e alla vaniglia. Tipici di Bari, si servono il 13 dicembre, ma si possono consumare anche durante le festività natalizie. In Abruzzo gli occhi di Santa Lucia sono biscotti all’anice a forma di occhiali. In Sardegna si benedicono i biscotti, nome che viene dall’unione della parola biscottos, biscotti, e di ocros, occhi. Sono dolcetti dalla forma rotondeggiante, incisi al centro a simboleggiare la fessura delle palpebre e farciti con marmellata, in genere di mirtilli.

 


“Artisti del panettone”, terzo posto per il trevigliese Mattia Premoli

Il titolare della pasticceria “La Primula”, già finalista al Panettone World Championship, dietro solo a Luigi Biasetto e Salvatore De Riso

Prestigioso riconoscimento per Mattia Premoli, titolare della pasticceria trevigliese “La Primula” che si è aggiudicato il terzo posto al concorso nazionale “Artisti del panettone”. La sfida tra i big della pasticceria, che ha premiato i migliori lievitati natalizi nella versione tradizionale, fa parte dell’iniziativa “Happy Natale Happy Panettone” di Confcommercio Milano e si è conclusa lunedì 13 dicembre con la premiazione a Palazzo Bovara.
Primo posto per il padovano Luigi Biasetto, secondo al panettone di Salvatore De Riso della pasticceria “Sal De Riso” di Minori, nel Salernitano.

A decretare i vincitori è stata una giuria di giornalisti del settore guidata da Vincenzo Santoro della “Pasticceria Martesana”, campione dell’edizione 2020 che hanno assaggiato alla cieca, analizzato e votato i candidati in gara. La premiazione è stata condotta dallo chef Alessandro Borghese e da Giulia Salemi, con la partecipazione dei rappresentanti delle istituzioni.

Premoli, pasticciere guidato dalla scienza e dall’etica

Mattia Premoli, 34 anni, ingegnere informatico, è un pasticcere guidato dalla scienza e dall’etica. Dopo aver raccolto l’eredità di famiglia del panificio-pasticceria-caffetteria in via Pontirolo, ha puntato tutto sull’autoformazione. Tra le novità, un nuovo brand, “Madre”, che evoca il lievito madre, per la linea di lievitati. Nella proposta di panettoni dolci di quest’anno, non manca la fusione di ingredienti e abbinamenti insoliti. Si potranno gustare, oltre al panettone tradizionale, quello basilico e limone Costa D’Amalfi Igp, cioccolato e olive taggiasche candite, cioccolato ruby amarene e bacche di Goji, il pancettone salato, la veneziana.
Ogni panettone acquistato riporta sulla confezione il “qr code” che regala speciali playlist da ascoltare e condividere su Spotify dai cantautori al jazz, dal rock’n’roll al classic, oltre a un’illustrazione su cartolina creata appositamente dall’artista Maurizio Rosenzweig.
Mattia Premoli, nel 2020, ha vinto “Gazza Golosa”, contest promosso dalla Gazzetta dello Sport ed è stato finalista ad “Artisti del panettone” e al “Panettone Day” (presieduto da Iginio Massari); quest’anno è stato finalista al Panettone World Championship e ha vinto la medaglia d’oro Figpc sia per la miglior colomba classica sia per il Campionato mondiale miglior panettone del mondo con il panettone classico.


Alessandro Borghese, lo chef rock & social

“Umiltà, fatica, educazione e rispetto sono funzionali in ogni campo. Io li ho portati in cucina”

Nessuno può negare che sia il più simpatico e vulcanico dei cuochi. Alessandro Borghese entra nelle case con diversi format, da “4 ristoranti”, oggi un vero cult, a “Kitchen Sound” su Sky Italia passando per “Cuochi d’Italia” e la novità “Piatto ricco” su Tv8. Nato a San Francisco nel 1976, ma cresciuto a Roma e trasferitosi a Milano dove ha messo radici per amore,  Borghese, definito lo chef rock & social, è stato premiato più volte per la sua cucina, legata alla qualità. Nel 2010 ha fondato a Milano AB Normal srl – Eatertainment Company. L’azienda si occupa di food consulting e advertising, punta sull’eccellenza creativa, comunicazione e allo sviluppo di format tv. Nel mondo della ristorazione, la società è presente con il brand “AB – Il lusso della semplicità”, nome del ristorante milanese dello chef. 

Borghese, è consapevole di essere il cuoco più simpatico della tv…

Me ne rallegro. La cucina non può essere severa, la cucina è gioia. E questo è il mio dogma. 

Lei è figlio dell’attrice di origine tedesca Barbara Bouchet e dell’imprenditore napoletano Gigi Borghese. Come ha scelto di intraprendere una strada diversa rispetto a quella dei suoi genitori?

Beh, alla fine ho avuto una ricaduta nel mondo dello spettacolo (sorride). La strada, in realtà, l’ho scelta da me. Da papà ho preso il lato gastronomico, da napoletano sanguigno era un amatore casalingo della cucina partenopea e romana. Fin da bambino mi divertivo a cucinare con lui. Ricordo il ragù messo sui fornelli al mattino presto che “pappugliava” per ore per poi farsi pacchero o spaghettone. E il giorno dopo, con quello che avanzava, ci faceva la frittata di maccheroni. E ancora la pasta e patate o fagioli o lenticchie.  Mamma, al contrario, non saprebbe neppure accendere la carbonella. Mangia perché il corpo necessita di cibo. Da lei ho preso la confidenza con lo showbiz. 

Come hanno reagito quando ha iniziato la sua gavetta da cuoco sulle navi da crociera?

Mi hanno sempre detto: “fai ciò che ti rende felice, se vuoi partire, viaggiare, conoscere il mondo, sei libero di farlo”. Anche loro sono autodidatti. Entrambi mi hanno insegnato valori come l’umiltà, la fatica, l’educazione, il rispetto, che sono funzionali in ogni campo. Io li ho portati in cucina. 

Lei è stato anche il promotore della cucina in tv.

Era ora che avvenisse. All’estero avevano iniziato a comunicarla molto tempo prima. E io ho lavorato a New York, Londra, Copenaghen, San Francisco. Altri colleghi hanno scelto di fare linee di abbigliamento o catene di bistrot. Io sono stato il primo a far uscire i cuochi dalle cucine e, dopo di me, è partito un mondo di programmi. Prima non esistevano, eravamo confinati nelle retrovie con il nostro mestiere. 

Veniamo alle novità in tv. In “Piatto ricco”, il suo nuovo programma in onda su Tv8 (dal lunedì al venerdì alle 19.30), contano la psicologia, la strategia e la capacità di resilienza. Vale anche nelle cucine reali? 

Mi ero stancato, volevo qualcosa di nuovo, che spaccasse un po’ le regole: un cooking game show. Le doti richieste sono quelle che ci appartengono, noi cuochi siamo quelli dell’ultimo secondo, capaciti di adattarsi alle richieste, alle stagioni, agli imprevisti, come quando qualcuno della brigata manca: siamo problem solvers. Nello show occorrono strategia, il saper bleffare e ritirarsi (in cambio di denaro) oppure aspettare il jackpot rischiando di perdere tutto se si resta in gara fino alla fine ma poi non si vince. Tutto dipende da quanta fiducia si ha in se stessi. 

Su Sky, da fine settembre, all’ora di pranzo, si sono riaccesi i fornelli e si è alzato il volume della musica con la settima stagione di “Alessandro Borghese – Kitchen sound”, la videoenciclopedia enogastronomica che negli anni è diventata un cult televisivo con oltre mille puntate trasmesse. Quali saranno le sorprese? 

Gli spettatori vedranno 70 puntate inedite: per la prima volta tra i dieci ospiti ci sarà anche un flair bartender, Giorgio Facchinetti, che assieme ad acclamati chef, come Giancarlo Morelli e Cristiano Tomei, Claudio Sadler, Gennaro Esposito (con me a “Piatto ricco”) e a maestri pasticceri, come Sal De Riso e Luigi Biasetto, porteranno la loro inventiva. Le tappe, che corrispondono ad altrettanti filoni tematici, cominciano dalle puntate “Kids” dedicate ai più piccoli con menù fantasiosi, ma salutari; proseguono con le stelle della cucina italiana e le loro portate racchiuse nella serie “Amici miei”. Non manca il tributo alla tradizione con i “Grandi classici”, ma quest’anno si vola anche oltreoceano nel cuore dello street food con “On the road”. Spazio alla pasticceria e al bakery con un’odissea nel dessert d’autore e nell’arte bianca della panificazione e della lievitazione. Infine, vi porto nella cucina del mio ristorante milanese “Il lusso della semplicità”. 

C’è competizione tra voi cuochi?

C’è cameratismo, pensiamo a Giancarlo Morelli che ha aiutato Filippo La Mantia, ospitando nel suo ristorante “Bulk” l’amico, rimasto orfano del suo locale in centro, “Oste e cuoco”, chiuso causa Covid.  Siamo cresciuti insieme, sono amico e ho stima di tutti. Oggi abbiamo carriere parallele. C’è chi insegue la seconda o terza Stella Michelin, chi ha diversificato aprendo catene di bistrot, oppure chi è rimasto fedele al mestiere. Mi capita spesso di fare tardi in cucina per creare piatti nuovi, non dobbiamo scordarci il nostro lavoro.

A proposito dell’esperienza Covid (che, tra l’altro, ha descritto nel podcast “Viaggio all’inferno”), come vede il futuro della ristorazione così pesantemente colpito dalle chiusure?

Speriamo che sia finito il periodo nero. Ora è arrivato il tempo della ristrutturazione e della ricostruzione con basi più solide, nel bene e nel male è stata fatta pulizia. Noi tutti abbiamo perso elementi di brigata, cuochi che hanno deciso di fare tutt’altro, dopo aver passato 15 anni della loro vita in cucina. Giancarlo (Morelli, ndr) in un post ha ribadito la necessità di avere personale giovane umile, educato, volenteroso. Poi a insegnare a cucinare ci pensiamo noi. Non credo ai super fenomeni, a chi cerca subito la popolarità grazie alla televisione, che in realtà arriva dopo la gavetta. I fornelli implicano sacrificio, il sapersi rimboccare le maniche, il fare di tutto per raggiungere un obiettivo a testa bassa. Non è un mestiere che si fa tanto per diventare famosi. Il tutto subito non funziona, si arriva per gradi. Le lunghe cotture non avvengono in 5 minuti.

Quindi il suo consiglio ai giovani qual è?

Imparare le basi, avere umiltà, pazienza e dedizione e nessuna smania se non c’e l’aumento di stipendio. Dico sempre: calma, calma, calma.

Coco Chanel diceva, spesso togliere è meglio che aggiungere. Lei ritiene che anche la cucina sia un gioco a levare e non ad aggiungere?

Certo, con la maturità gastronomica viene meno la foga, pensi alla tecnica giusta a un particolare abbinamento con determinate materie prima, ovviamente lavorate in un certo modo.

Chi considera il suo maestro? 

Papà, mia moglie, Gennaro Esposito, Ernesto Iaccarino e i tanti maestri che ho avuto sulle navi da crociera.

A proposito di sua moglie Wilma, come l’ha conquistato (a tavola)?

Con una cassetta di vino anonima che le ho mandato.  I fornelli poi hanno fatto la loro parte. Lei è una buongustaia, dalle mille risorse, prova gioia nel sedersi a tavola, dice che il cibo è fantasia, divertirsi e giocare. 

Qual è il piatto che le riesce meglio, il suo cavallo di battaglia?

La mia cacio e pepe è patrimonio mondiale dell’Unesco. Amo anche la cacciagione e sono un pastasciuttaro. 

Per chi la vorrebbe cucinare?

Valentino Rossi. Gli ho scritto: “ora che sei in pensione, passa al ristorante”. Ma anche i Led Zeppelin. 

La scorsa primavera è stato alle Maldive dove ha tenuto cene di gala pied dans l’eau e live cooking per il Gruppo Constance hotels & resorts. Prima ancora era a Mauritius. Che esperienza è stata? 

Meravigliosa. E poi vuoi mettere il piacere di cucinare con le ciabatte e in pantaloncini corti e, dopo che hai sudato ai fornelli, buttarti nel mare che è a dieci metri… Cosa vuoi di più dalla vita?.

 


Nasce la “Pizza Donizetti”: l’omaggio al compositore firmato da un ristoratore napoletano

Con provola di bufala, friarielli e polpettine fritte di manzo. La specialità lanciata da Gianpaolo Tewfiki in occasione del Donizetti Christmas Day

Gaetano Donizetti amava Napoli tanto da esserci vissuto per 16 anni, dal 1822 al 1838. L’ultimo omaggio culinario non poteva, dunque, prescindere dai sapori partenopei. A creare la Pizza Donizetti è Gianpaolo Tewfik, napoletano, titolare del ristorante pizzeria Antica Fiera, sul Sentierone.
Gli ingredienti sono
provola di bufala, friarielli e polpettine fritte di manzo. La specialità, che resterà nel menù del locale fino all’Epifania, al costo di 15 euro, è stata lanciata in occasione della presentazione del Donizetti Christmas Day, la nuova iniziativa della Fondazione Teatro Donizetti, realizzata in collaborazione con Immobiliare della Fiera, in programma sabato 4 dicembre, dalle 10 in poi, con concerti e performance artistiche ospitati dalle attività commerciali.

Ma la pizza non è l’unico tributo al compositore di Borgo Canale. Il bartender Tony Foini aveva ideato il Donizetti Spriss, cocktail con L’elisir d’amore bitter 24 delle Distillerie di Sarnico, mentre il Balzer ha sfornato il panettone Donizetti e preparato speciali cioccolatini. In passato per la “Donizetti Night” i ristoranti di Città Alta hanno dedicato a Donizetti menù e piatti, come il dessert “Al dolce guidami” ispirato a un verso di Anna Bolena del baretto di San Vigilio; “Una furtiva lagrima”, titolo della celebre aria dell’Elisir d’amore è, invece, il pluripremiato erborinato del Caseificio Defendi di Caravaggio, che nasce dall’unione di un gorgonzola selezionato dalla consistenza molto cremosa e particolari ingredienti che vanno dalle confetture a granelle di cereali. Esiste, inoltre, da tradizione, la Torta Donizetti, una ciambella, simile alla Margherita ma arricchita da tanta frutta candita e dall’inconfondibile aroma del Maraschino.

Prima di gustare la pizza per la giornata evento, dalle 10, si potrà partecipare alle visite guidate teatralizzate “Donizetti on live” (durata 40 minuti, biglietto 12-10 euro). Al termine del tour, il pubblico potrà ascoltare un concerto in Sala coro o in Sala musica. Il Balzer, Legami Sushi & More, la nuova galleria Art Events Mazzoleni Neroli32 ospiteranno gli allievi del conservatorio; la boutique di Tiziana Fausti offrirà spazio alla compagnia Artemis Danza, mentre “L’elisir d’amore” del Donizetti Opera sarà proiettato sugli schermi della vetrina della farmacia Terni.
Sotto i portici passerà la banda Venti d’opera, mentre all’ora dell’aperitivo ci saranno due angoli deejay: quello nella zona di via Monte San Michele, tra il Bu Cheese Bar e il T-Bakery, con Jodi Pedrali, l’altro al Balzer con NicoNote. I brevi concerti in programma saranno ripetuti più volte per permettere l’ascolto al più alto numero di passanti. Dalle 12 alle 17 si potrà esplorare gratis la città a bordo dei quattro
Tuk tuk elettrici, un progetto promosso dal Consorzio turistico di Bergamo con Visit Bergamo: una passeggiata verso Città Alta e ritorno con una guida che illustrerà i luoghi legati al musicista.