Pizza in pala, la migliore del mondo è bergamasca

Salvatore La Porta, chef-pizzaiolo di Castelli Calepio trionfa al Campionato mondiale della pizza 2024 a ParmaLa migliore pizza del mondo è bergamasca, o meglio di Castelli Calepio.  Salvatore La Porta ha trionfato nella categoria Pizza in pala al Campionato mondiale della pizza 2024 che si è svolto alla Fiera di Parma. Salvatore La Porta è il titolare della pizzeria “Al posto giusto” a Castelli Calepio, aperta da dodici anni e che da due è in via dei Mille 117. A complimentarsi con lui, per «la grande passione e creatività», è stato il presidente della Regione Attilio Fontana con un post su Instagram. Il pizzaiolo, che nel 2023 è arrivato terzo ai mondiali, si è aggiudicato anche il Premio Parmigiano Reggiano. «Nasco come cuoco – spiega La Porta – pertanto le mie pizze sono tutte ad alta idratazione e con l’abbinata di piatti della tradizione: alla gara ho portato Parmidoro una semplice parmigiana di melanzane, tagliate a listarelle e cotte al vapore, finite in cottura con il pomodorino giallo. La parmigiana è stata messa sopra la pizza con l’aggiunta di sfere di speciali Rocher di Parmigiano, solo che al posto della nocciola, all’interno c’è la caponata». Nella categoria pizza classica ha trionfato Giulia Vicini, sempre di Castelli Calepio, che ha vinto per il secondo anno consecutivo anche il premio sulla Sostenibilità – La pizza del cambiamento, realizzato in collaborazione con la farina Le 5 Stagioni di Agugiaro & Figna Molini.   Giulia Vicini e la socia Giulia Zanni gestiscono la pizzeria Giuly Pizza. La vittoria è arrivata con una pizza vegana a base di verdure dell’orto di proprietà e prodotti bergamaschi come il mais rostrato rosso della Val Seriana. Il padre Marco Zanni, ha avviato l’insegna nel 2012 e, negli anni, ha insegnato il mestiere alla figlia e alla collega. Nel 2023 Giulia aveva già conquistato il terzo posto nella categoria pizza classica.


Caseificio Arrigoni, nuovo marchio per i 110 anni: “Battista 1914” per l’export

E i cubetti di quartirolo finiscono in vasetto, con nove versioni aromatiche da scoprire 

Il caseificio di Pagazzano Arrigoni Battista compie, quest’anno, 110 anni. L’iniziativa più importante per festeggiare l’anniversario è il lancio di un nuovo brand, «Battista 1914», pensato per il mercato estero e in onore dell’avo che ha dato origini a questa bella storia di imprenditoria bergamasca. La novità è in vasetto: cubetti di quartirolo dop in olio di semi di girasole con una durata di 23 mesi, ideali per l’aperitivo e disponibili in nove versioni: al naturale, con erbette, pepe, zenzero, curcuma, curry, peperoncino, tartufo e peperoncini ripieni di quartirolo. «La shelf life lunga – spiega Marco Arrigoni, presidente e amministratore delegato dell’azienda – di un prodotto che non richiede refrigerazione abbassa i costi di trasporto». Uno speciale packaging è in fase di studio per il mercato nazionale. L’azienda è leader nel settore lattiero caseario italiano ed estero. Il fatturato, nel 2023, è stato di 50 milioni di euro con una crescita costante (era di 25 milioni dieci anni fa). Il 30% deriva dall’export (concentrato sul taleggio) in 36 Paesi: tutta Europa, Stati Uniti, Canada, Giappone, Corea e Australia. I dipendenti dello stabilimento sono 114. La produzione è di seimila tonnellate: il primo prodotto è il gorgonzola, seguito da taleggio e quartirolo lombardo. Il 40% della produzione è per private label, ovvero i marchi di eccellenza della grande distribuzione. L’impresa è da sempre a conduzione familiare (Marco Arrigoni rappresenta la quarta generazione). Le radici della famiglia affondano nella Val Taleggio, attorno all’anno mille.  «Secondo alcuni studi – ripercorre Gian Battista Arrigoni, vice presidente di Arrigoni spa – la nostra famiglia è dedita all’arte casearia dal 1200. Nel 1890 mio nonno Battista emigrò in Texas, dove già uno dei suoi fratelli faceva l’allevatore, mentre l’altro si era stabilito nel Wisconsin. Nel 1913 tornò in Italia per essere arruolato; si fermò a Pagazzano e qui conobbe mia nonna, dando vita nel 1914 all’attività lattiero casearia. Uno dei suoi quattro figli era mio padre». Il caseificio allora era in paese, accanto alle stalle. La produzione, nel 1941, lavorava dai 50 ai 100 litri

l’ora; nel 1950, oltre al taleggio e ai formaggi duri da grattugia, si arricchì di grana padano e gorgonzola. Nel 1987 avvenne la svolta con la creazione della spa. Nel 2003 è nata la nuova struttura produttiva, nella zona industriale di Pagazzano, con impianti di moderna concezione, che si sviluppano su un’area di 60 mila metri quadri, di cui 15 mila coperti. «Abbiamo voluto – precisa Marco Arrigoni  – che alcuni procedimenti rimanessero manuali, dunque artigianali, come la salatura del taleggio, per avere controlli mirati sulle singole forme. Il latte è esclusivamente italiano (non standardizzato) e fornito da stalle che si trovano in un raggio di trenta chilometri dall’azienda e che monitoriamo riguardo al benessere animale. Il 20% del latte è della nostra filiera familiare». Tante le idee. «Quindici anni fa – continua Marco Arrigoni – abbiamo recuperato la tradizione lombarda degli anni ‘50 del gorgonzola al cucchiaio: siamo passati da cinque a mille forme a settimana. Vent’anni fa, siamo stati tra i primi a  realizzare una linea  produttiva (oggi pari a circa il 5% della produzione) di formaggi bio». Un altro traguardo riguarda la difesa dell’ambiente. Sono costanti gli investimenti verso la sostenibilità. Arrigoni Battista ha iniziato a introdurre imballaggi riciclabili e realizzati con materiale riciclato, monitora attentamente il benessere dei 7.000 capi di bestiame delle stalle conferenti latte mediante visite periodiche condotte da veterinari specializzati. Dal 2023 è attivo un cogeneratore e, entro l’anno, sarà in funzione l’impianto fotovoltaico: in questo modo l’85% dell’energia sarà autoprodotta. Un’altra iniziativa è la rassegna gastronomica «A cena con Arrigoni Battista», occasione per gustare, nei locali che aderiscono, i formaggi da podio che hanno collezionato 91 medaglie nelle competizioni più prestiogiose al mondo, tra cui le tre dop: taleggio, quartirolo lombardo e gorgonzola (dolce, piccante e al cucchiaio). Ci sono anche  erborinati particolari, ricette uniche di Arrigoni, come il BerghemBlu,  dal gusto intenso non piccante, il Rossini, affinato per un mese e mezzo in vinacce di uva passita, il Lucifero, con aggiunta di peperoncino; e lo stracchino (medaglia d’oro ai World Cheese Awards 2022).

 

Credit Photo: tutti gli scatti sono di Tiziano Manzoni 


La cucina de La Marianna protagonista a “O anche no” su Rai 3

Domenica 14 gennaio, ore 10.20, va in onda il servizio curato da Edoardo Raspelli, che ha fatto tappa- a sorpresa- in Città Alta

Edoardo Raspelli racconta la cucina del ristorante La Marianna di Città Alta nel programma di inclusione sociale, disabilità e diritti fondamentali, «O anche no», in onda domenica 14 gennaio alle 10.20 su Rai Tre e in  replica all’1.15 della notte tra lunedì 15 e martedì 16. La trasmissione, per la regia di Gabriele Mammarella, è realizzata con la collaborazione di Rai per la Sostenibilità e Rai Pubblica Utilità. «Si tratta di un programma – afferma il cronista della gastronomia – meravigliosamente interessante e vivo, un fiore all’occhiello del servizio pubblico che racconta storie incredibili, dalle donne operate di tumore al seno che grazie a un gruppo di volontari fanno canoa ai ragazzi autistici che lavorano in pizzeria. La conduttrice Paola Severini Melograni, che è autrice con Eugenio Giannetta e Valeria Zanatta, mi ha chiesto di collaborare e sono felice di poter contribuire con la mia rubrica».

Nel suo spazio Raspelli entra nei ristoranti, ordina i piatti, li fotografa, gira un breve filmato e, soprattutto, ne valuta l’accessibilità. E’ un ospite inatteso. I titolari (pur riconoscendolo) non sanno, infatti, delle sue intenzioni. «Il locale non viene nominato, per la scelta di non fare pubblicità, buona o cattiva che sia – spiega il critico -. La Marianna è però facilmente riconoscibile: non solo è in Città Alta, ma ricordo che fu al centro di un caso di cronaca (il rapimento di Mirko Panattoni nel 1973, il primo bambino a essere sequestrato a scopo estorsivo in Italia, ndr). Qui scoprirò un’ottima cucina, prezzi buoni, calore umano e anche un’attenzione speciale verso i nostri amici a quattro zampe». Raspelli ha consumato il pasto in compagnia, gustando, tra i vari piatti, crudo di pesce, molluschi e crostacei, tuorlo fondente con salsa al pecorino e tartufo, insalata di puntarelle, polpo al vapore con crema di ceci, battuta di manzo, casoncelli, ricciola con i broccoli, baccalà in salsa tonnata, fiorentina al manzo irlandese e strudel di pere.

Nella puntata di domenica Paola Severini Melograni e il campione paralimpico Daniele Cassioli saranno nella sede milanese de Il Bullone insieme al suo fondatore, Bill Niada. La redazione del giornale ogni mese riporta riflessioni e inchieste nate da incontri, interviste, esperienze condivise, storie, esempi ispiratori per i giovani e per un mondo migliore.

Mario Acampa sarà in provincia di Roma, a Grottaferrata, alla cooperativa sociale Agriturismo Capodarco, dove le persone con disabilità abbandonate dalla società ricevono cure, assistenza, lavorano e riacquisiscono la loro dignità. Dopo un periodo difficile durante il quale la struttura generale ha avuto una serie di problemi economici e di gestione, si è tornati da dove Capodarco era partito grazie alle scelte coraggiose di un ultranovantenne, don Franco Monterubbianesi.

Ylenia Buonviso sarà a Lido di Ostia per mostrare che cosa accade quando le famiglie che si ritrovano a vivere la disabilità si uniscono. Si parlerà dell’associazione Comitato di Disabilità del X Municipio di Roma, dove i ragazzi e le loro famiglie si frequentano e condividono esperienze attraverso l’arte, il teatro e la musica. Inoltre, ci saranno le rubriche di Ivan Cottini, Guido Marangoni e Roberto Vitali. Immancabili la musica dei Ladri di Carrozzelle e i disegni di Stefano Disegni.

 

 

 

 


RistorantiBergamo omaggia la mostra alla Carrara dedicata al Romanticismo con ricette a tema

Fino al 14 gennaio in 28 ristoranti di città e provincia ricette ispirate, dal bacio di Hayez all’opera buffa di Donizetti

Il gruppo RistorantiBergamo festeggia la conclusione dell’anno della Capitale della Cultura, celebrando l’Accademia Carrara e la mostra «Tutti in voi la luce mia», dedicata ai capolavori del Romanticismo, dove il melodramma incontra l’arte. Il titolo è uno dei versi dell’Anna Bolena di Gaetano Donizetti, un modo per omaggiare il mondo dell’opera, in particolare del compositore bergamasco. Per tutta la durata dell’esposizione, dunque fino al 14 gennaio, 28 ristoranti di città e provincia associati al gruppo proporranno altrettanti piatti, variazioni e interpretazioni dell’arte del Romanticismo e della musica di quell’epoca. «Da diversi anni il gruppo collabora con la Carrara – afferma Paolo Chiari, chef e titolare del ristorante Lalimentari in piazza Vecchia, che fa parte del direttivo di RistorantiBergamo -, ci promuoviamo a vicenda, facendo rete, nella convinzione che la cultura è a 360 gradi, anche in un piatto buono e bello da vedere». Lalimentari, per l’occasione, propone gli «Gnocchi di pane della Betly», che omaggiano l’opera buffa di Donizetti. E sono anche un monito a non sprecare, riutilizzando il pane vecchio, proprio come accadeva all’epoca del celebre musicista. In città, il ristorante Al Cavatappi sforna «Nemorino e la lacrima di Andina», medaglione di manzo in crosta di pistacchio su fonduta di Fortiva lagrima, formaggio del caseificio Defendi realizzato in onore di Donizetti. Il «Risotto Garibaldi» che si può gustare Da Mimmo, in Città Alta, riso Carnaroli con passata di pomodoro fresco, fiocchi di burrata, basilico e polvere di pane croccante, è il più patriottico: per il rosso del pomodoro, il verde del basilico e il bianco della burrata. Hayez è celebrato dallo chef del ristorante La corte del noce con «Il bacio», spaghettone ai tre pomodori e basilico; e da quello di Polisena L’altro agriturismo di Pontida con «L’ultimo bacio», torta di farro, uvetta e noci, confettura di uva e zucca, gelato alla Grappa Tosca invecchiata. Omaggio al compositore bergamasco alla storica Trattoria Visconti di Ambivere con un antipasto speciale: lo «Zuccotto di zucca Gaetano Donizetti», tortino di verdure autunnali e zucca. Il compositore ispira anche i gnocchetti di patate con funghi, noci e pancetta al Cavallino di Scanzorosciate. A Presezzo, il ristorante Settecento propone i «Fichi in cheese cake La Carrara». Immancabili i casoncelli, simbolo della storia racchiusa in un piatto: si trovano nel menù della Trattoria Taiocchi di Curno e da oltre 70 anni sono preparati secondo un’antica ricetta sviluppata da nonna Alda e custodita gelosamente nel ricettario chiuso in cassaforte. Dopo aver pranzato o cenato in uno dei locali è suggerita la visita al museo: ai commensali è, infatti, offerta una riduzione di 2 euro sul biglietto di ingresso.

Nemorino e la lacrima di Andina


Letture gustose: quando i romanzi parlano di cibo

Ci sono romanzi curiosi il cui il cibo, la cucina e i cuochi sono protagonisti e soddisfano non solo il palato ma anche i bisogni dell’anima. Andiamo a scoprirli.

Le pietanze raccontate conquistano i lettori. I protagonisti dei romanzi da gustare sono spesso cuochi o aspiranti tali, pasticceri o critici gastronomici. E gli eventi narrati si svolgono in buona parte tra forni e fornelli delle loro cucine. Piace il ristorante e piace la visione del cuoco come di un mago dei sensi capace di soddisfare i bisogni dell’anima. E non importa se sia uomo o donna, professionista o autodidatta, famoso o no. Il suo fascino è indiscutibile.

Ecco quali sono i libri da mettere nella vostra dispensa.

“Il ristorante dell’amore ritrovato” di Ito Ogawa

Il cibo può essere la medicina del cuore. Lo dimostra la storia raccontata dalla scrittrice giapponese nel suo romanzo d’esordio. La protagonista è Ringo, una ragazza che lavora nelle cucine di un ristorante turco di Tokyo; una sera rientra a casa e scopre che il fidanzato se ne è andato. Sconvolta, torna al villaggio natio, dove apre un ristorante per non più di una coppia al giorno con un menu ritagliato sulla fisionomia e i possibili desideri dei clienti. Con l’aiuto di Kuma-san, l’ex factotum della scuola elementare, Ringo inaugura il Lumachino. La prima cliente è la Concubina, triste amante di un influente politico locale, passato a miglior vita anni prima. Sulla tavola, in un tripudio di colori, odori e bontà senza pari, si alterneranno piatti gustosissimi che attingono alle cucine giapponese, italiana, cinese e francese su tutte. La vedova ritroverà la gioia; poi una ragazza conquisterà il cuore dell’amato, una coppia gay in fuga vivrà una luna di miele, un uomo scontroso si trasformerà in un gentiluomo. Tutto merito del ristorante dell’amore ritrovato.

“L’inconfondibile tristezza della torta al limone” di Aimée Bender

Cucinare per gli altri è una manifestazione d’affetto. Non basta la tecnica, c’è bisogno di cura e attenzione. Rose Edelstein, la protagonista del romanzo della scrittrice americana Aimée Bender, possiede un dono speciale: attraverso ogni boccone di cibo, coglie le emozioni provate da chi lo ha preparato. Lo scopre il giorno del suo nono compleanno: mentre assapora una fetta della squisita torta al limone, la sua preferita, preparata dalla mamma, sente una sorta di vuoto e inquietudine. Da quel momento, Rose entrerà in contatto con la molteplicità delle emozioni umane. Ricco di descrizioni e dettagli, il romanzo si muove con agilità su un terreno scivoloso, quello delle apparenze, dei rapporti umani e degli universi che ognuno di noi si trascina dentro, quasi sempre sconosciuti a chi ci sta accanto. E’ così che Rose scoprirà che i dolci della pasticceria vicino casa sanno di rabbia e il cibo della mensa di frustrazione e noia; l’unica soluzione è l’asettico cibo industriale.

“Ricette immorali” di Manuel Vásquez Montalbán

Un delizioso ricettario che riunisce 62 piatti, alcuni elaborati, piccanti e dalla lunga preparazione, altri semplici. Si va dagli spaghetti alla checca arrabbiata di Ugo Tognazzi, ricchi di peperoncino che devono la loro origine a una ricetta preparata per l’amante al quale si voleva far conoscere il fuoco dell’inferno nascosto nella pasta. Un omaggio a Roma sono le frittelle ai fiori di zucca. Il purè di tartufi, invece, pare sia stato utilizzato da Elisabetta II per far convogliare a nozze i suoi eredi più difficili, tra i quali Carlo con Diana. E poi ci sono le animelle di vitello Trianon (dal nome del parco di Versailles), piatto aristocratico che veniva servito nei banchetti dell’Eliseo fino a quando non ha preso piede la nouvelle cuisine. I più potenti politici lo utilizzavano per deliziare le mogli dei diplomatici al fine di ottenerne vantaggi. Ma c’è anche un gustoso e sano pane e pomodoro. Il cibo abbraccia gli aspetti sensuali della vita, spingendoci alla ricerca di un partner perfetto con cui condividere i piaceri, anche della tavola.

“Estasi culinarie” di Muriel Barbery

Monsieur Arthens, il più potente e temuto critico gastronomico del mondo, è sul letto di morte. E’ un uomo duro nei suoi giudizi, una persona arida e spietata con gli altri, di un cinismo che sfiora livelli indicibili, tanto che persino i suoi figli lo evitano. Vive con la moglie in un lussuoso appartamento parigino in rue de Grenelle. Nelle ultime ore della sua esistenza inizia un viaggio nella memoria dei sapori, tra ricordi lontani eppure così presenti, perché l’unica cosa che realmente desidera è ritrovare il sapore per eccellenza, quel sapore primitivo che vorrebbe sentire in bocca nel momento estremo. Il suo ultimo desiderio è, infatti, legato a un sapore. Esteta del gusto, Arthens ripercorre la sua vita, seguendo una mappa geografica olfattiva, tattile, gustosa, visiva e così riconquista i colori e i profumi dell’orto di sua zia, il piacere di addentare un pomodoro ancora tiepido per il sole del mattino, i sontuosi banchetti.

“Chocolat” di Joanne Harris

Ispiratore dell’omonimo film con Juliette Binoche e Johnny Depp, il romanzo racconta la storia di Vianne Rocher che, accompagnata dalla figlia Anouk, arriva a scombussolare la vita nel tranquillo villaggio nel centro della Francia di Lansquenet; in breve tempo, Vianne, simpatica e sexy, rileva una vecchia pasticceria, che ribattezza ”La celeste praline”, ma presto attirerà le attenzioni degli abitanti del paesino. I clienti che la frequentano sono i più disparati e per ognuno Vianne sa trovare il dolce preferito. L’apertura del negozio, però, suscita su Vianne anche le antipatie del sacerdote Francis Reynaud che fa di tutto per ostacolarla nella gestione del suo negozio. La donna non frequenta la chiesa ma, a modo suo, aiuta chi ha bisogno. Inevitabile lo scontro tra benpensanti e golosi, tra carnevale e Quaresima, tra le delizie terrestri offerte da Vianne e quelle celesti promesse da padre Reynaud.

“La maga delle spezie” di Chitra Banerjee Divakarun

Il romanzo è una sorta di favola ambientata a Oakland, in California. Un’anziana indiana, Tilo, è la maga delle spezie che vende nella sua bottega. Alla ricerca del sapore più squisito o del sortilegio più sottile, sfiora polveri, semi, foglie, bacche e la magia le permette di aiutare chi si è lasciato l’India alle spalle. La sua storia inizia in uno sperduto villaggio dove, quando era una bambina, i pirati la rapirono, attratti dai suoi arcani e misteriosi poteri, per portarla su un’isola stregata. Lì Tilo ha imparato la magia delle spezie che in America le permetterà di aiutare chi, come lei, ha lasciato il suo Paese. Le spezie ubbidiranno sempre alla maga, ma in cambio lei dovrà usarle solo per aiutare il prossimo e mai sé stessa, inoltre dovrà dedicare la sua vita al negozio che le è stato assegnato, senza poterlo lasciare, e senza potersi legare a nessuno. Tilo arriverà in California e trascorrerà la sua vita in tranquillità. Finché inizierà a essere affascinata da un uomo, allontanandosi dalla sua missione e le spezie inizieranno a rivoltarsi contro lei, ma soprattutto contro i suoi clienti.

“Kitchen confidential” di Anthony Bourdain

Famoso per aver incarnato genio e sregolatezza, Bourdain è stato uno dei cuochi più famosi di New York. Il suo libro, che ha ispirato una serie tv con Bradley Cooper, è il racconto di un’avventura culinaria, uno sguardo dietro le quinte che rivela gli orrori della ristorazione, gli ideali traditi e quelli realizzati. L’autore offre al lettore agghiaccianti informazioni su quanto accade all’interno di una cucina (anche quella dei ristoranti più famosi): episodi accaduti realmente, conditi da uso di droghe e soprusi, intervallati da consigli culinari, come la scelta dei coltelli da acquistare o come presentare le pietanze. Sullo sfondo, tanto cibo: dall’antipasto al primo piatto fino ai dessert, senza dimenticare caffè e sigaretta. Ma nonostante il dietro le quinte spietato, Bourdain ci ricorda che il nostro corpo non è un tempio, ma un parco divertimenti e non dobbiamo condannarlo a una vita di rigore e castità alimentare.

“Manuale di cucina sentimentale” di Martina Liverani

Leggero e ironico questo romanzo parla di amore e amicizia ai tempi dei food addicted tra scatti ai piatti con il telefonino condivisi sui social. Le trentenni protagoniste sono diversissime a tavola: Cecilia, una foodblogger imprigionata nel corpo di un avvocato, è una millefoglie di tofu marinata con crema di radice di prezzemolo e pâte di pomodori biologici che coltiva sul suo terrazzo, Agata, una giornalista di moda sovrappeso con l’ossessione della dieta, è un hamburger di fassona piemontese, con maionese light e patatine fritte (in fondo sempre verdura è) e Tessa, integralista del biologico e del chilometro zero, è una carbonara incerta sulla pancetta al posto del guanciale, sul pepe sì e il pepe no e su uovo intero o solo tuorlo. In comune, hanno un rapporto di amicizia che trova nella cena del venerdì sera, condivisa e preparata insieme, la sua forza.

“Le ricette della signora Tokue” di Durian Sukegawa

Esiste una ricetta della felicità: è una questione di spezie e calore, di ascolto e confessione, di zucchero, briciole di sogni e un pizzico di sale. «Si tratta di osservare bene l’aspetto degli azuki. Di aprirsi a ciò che hanno da dirci. Significa immaginare i giorni di pioggia e i giorni di sole che hanno vissuto. Ascoltare la storia del loro viaggio, dei venti che li hanno portati fino a noi». Questo è il segreto culinario un po’ bizzarro che custodisce l’anziana signora Tokue. Ascoltando la voce dei fagioli rossi si può imparare a fare il ripieno perfetto per i dorayaki, tipici dolcetti giapponesi che ricordano i pancakes, si sciolgono in bocca e fanno dimenticare il peso delle preoccupazioni. Tokue rivela il proprio segreto a Sentaro, un pasticciere in crisi, che accetta di assumerla nel suo laboratorio dopo aver assaggiato la sua sublime confettura di fagioli azuki che fa da ripieno per i dorayaki. E vede gli affari raddoppiare. I dolcetti giapponesi diventano il pretesto per un viaggio interiore. E Tokue rivela al pasticcere anche un altro segreto, quello del suo passato. Impartendo cosí una lezione ben piú preziosa.


Il gomasio, l’alternativa al sale

È un condimento molto usato nella cucina macrobiotica e nella medicina ayurvedica sin dall’antichità. Molto diffuso nelle cucine orientali, sta prendendo piede anche in Occidente per insaporire insalate, carne, pesce, minestre, verdure cotte.

Tutti ne parlano, ma pochi sanno cosa sia. A rendere “famoso” il gomasio è Franco Berrino, ex direttore del Dipartimento di Medicina preventiva e predittiva dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, che lo consiglia come valido e salutare sostituto del sale per eliminarlo (quasi) completamente. Si tratta di condimento usato nella tradizione asiatica e in quella macrobiotica, a base di semi di sesamo (goma) e sale marino integrale (shio) tostati e pestati, a volte arricchito con alghe. A svelarci preparazione e segreti del gomasio è Simonetta Barcella, originaria di Trescore Balneario, titolare del negozio NaturalBio a Bolgare e cuoca dell’associazione La grande via, fondata da Berrino ed Enrica Bortolazzi per favorire iniziative che promuovono il benessere e la longevità.

Utilizzo e bontà

Scordatevi di buttarlo nell’acqua che bolle della pasta. Il gomasio si utilizza a freddo. «Il mondo occidentale – afferma Simonetta Barcella – è abituato a condire e insaporire, talvolta per abitudine ancora prima di assaggiare e anche se non è contemplato nella ricetta originale. Infatti, il sale è sempre presente nelle nostre tavole. Il gomasio permette di diminuire la quantità di sale sugli alimenti di un ventesimo». La proporzione è, infatti, di un cucchiaino di sale su 20 di semi di sesamo. Questo significa che quando ne butti un pizzico, metti poco sale (marino integrale) e molto sesamo, saporito poiché tostato, fonte di proteine, calcio, fosforo, ferro, vitamina A, niacina e grassi buoni. Il gomasio è, inoltre, un ottimo modo per l’organismo di assorbire il sale, poiché quando viene rivestito dall’olio del sesamo viene assorbito con maggiore facilità. Viene utilizzato anche a scopi terapeutici, in particolare per migliorare la digestione, la qualità del sangue e l’assorbimento intestinale. Può inoltre alleviare la fatica e alcuni dolori come il mal di testa e di denti.

Sapore naturale ai piatti

Il gomasio ha un caratteristico sapore nocciolato dato dalla tostatura: è perfetto per condire l’insalata, il pesce alla griglia e in padella, la carne, le minestre, le verdure cotte, zuppe e vellutate e piatti a base di riso, ma anche di qualsiasi altro cereale. «Durante i corsi base di cucina – prosegue Barcella – il piatto che porto come esempio è il riso integrale con gomasio, uno dei miei preferiti per il gusto eccellente che viene esaltato, non coperto. Il gomasio è straordinario sulle foglie amare, come cicoria, catalogna, tarassaco, radicchio rosso. Una spolverata modula la percezione amara».

Facile da preparare in casa

Le regole base sono: usare una padella non antiaderente, ma di acciaio; e mescolare con cura per evitare che bruci alle alte temperature. Si lavano i semi (20 cucchiaini) e si scolano in un colino a maglie fitte, mentre la padella si scalda. Si versa il sesamo bagnato nella padella. E si inizia a mescolare con un cucchiaio di legno. «Non c’è un tempo definito – spiega la cuoca – dipende dalla grandezza della padella. Per capire se è tostato ci si affida (se si è esperti) al controllo visivo: i semi si gonfiano leggermente e appaiono imbruniti. Oppure si prende il sesamo tra indice e pollice e, se sfregando è friabile, è pronto. Si trasferisce in un mortaio zigrinato, il suribachi. Nella padella appena usata si tosta un cucchiaino raso di sale marino integrale per due minuti che poi si butta nel mortaio. Con il pestello o surikogi si compiono movimenti circolari per premere il sesamo contro le pareti, spezzando la buccia finché l’80% dei semi è sfarinata, lasciando gli altri integri». La magia più importante si compie ora: l’olio presente nel seme di sesamo esce e ingloba i granelli di sale: il cuore yang maschile è stretto abbraccio yin dell’olio femminile.

La variante con le alghe

Questa variante prevede l’aggiunta di alga nori, nota per essere utilizzata nel sushi, ricca di vitamine e minerali preziosi, che dà ancora più gusto. L’alga secca si trova in commercio e si può aggiungere nella preparazione casalinga del gomasio: una volta tostata leggermente, si riesce infatti a sminuzzare. «Le alghe sono un tesoro che proviene dal mare e che abbiamo dimenticato – afferma Simonetta Barcella -. Sono un ottimo alimento che integra nutrienti che nelle verdure di terra non troviamo. Cautela solo per chi soffre di patologie alla tiroide per il contenuto di iodio».

Dove si trova, costo e come si conserva

Il gomasio si trova in vendita nei grandi supermercati nel reparto degli aromatizzanti o del sale o in quello degli alimenti naturali o biologici. Nei negozi bio e nelle erboristerie è un prodotto presente con facilità. Il costo è sui 3 euro per 150 grammi, 5,25 per 300 grammi. Si vende in barattoli di vetro, ma sono in commercio anche le ricariche. Si conserva ben chiuso a temperatura ambiente. «Ma il mio consiglio è di provare a prepararlo – suggerisce la cuoca -. Meglio non farne in eccesso: 10 cucchiaini di semi di sesamo e mezzo di sale bastano per 4 persone per una settimana. L’operazione favorisce la meditazione e il rilassamento, si appoggia il suribachi sul grembo e si gode il momento, come le nonne quando facevano il pane. Ed è un modo per prenderci cura di noi stessi e di chi amiamo».


Street Food, tre insegne bergamasche nella Guida del Gambero Rosso

In città Bugan Farina, in provincia Le delizie di Osio Sopra e Casabase di Treviglio 

Riconoscimento prestigioso per tre attività bergamasche che sono stati recensite nella Guida Street food 2024 del Gambero Rosso, una mappa che orienta i lettori tra le antiche tradizioni gastronomiche italiane e i progetti più innovativi del settore. Tante sono, infatti, le sfaccettature del cibo di strada, dai chioschi ai mercati rionali, dalle friggitorie ambulanti alle osterie vecchie e nuove, passando per le sempre più eccellenti declinazioni dello street food dal mondo. In città entra nella Guida del Gambero Rosso Bugan Farina, una bottega piccola dagli aromi che invadono tutta via Sant’Alessandro che somiglia alle bakery delle capitali europee e dei Paesi nordici. Il merito del riconoscimento è della pizza alla pala (da provare la Margherita, fiore all’occhiello del locale), delle focacce pugliesi, dei maritozzi alla panna e dei cinnamon rolls consigliati dalla guida. Qui il pane è prodotto rigorosamente con lievito madre e farine di prima qualità 100% biologiche e macinate a pietra, il pan brioche (dolce o salato) è soffice come una nuvola, il pane all’uvetta, dolci e biscotti conquistano anche i palati più esigenti dei golosi.

Nella guida entra anche la gastronomia Le delizie di Osio Sopra, in via Mazzini. A gestirla è Omar Mottini, inventore del KebaBg, il kebab a base di prodotti bergamaschi, marchio registrato all’Accademia del panino italiano. Ed è proprio per questa invenzione, a base di pasta di salame cotta sulla piastra oppure roastbeef, pancetta croccante, verdure fresche e salse, che ha conquistato la menzione nella prestigiosa guida. Un’altra sua invenzione è, invece, un dessert: il Cioccopaesalam, il panino (con farine a chilometro zero) imbottito con abbondanti fette di salame di cioccolato e guarnito con crema al mascarpone.

A Treviglio meta dello street food è Casabase, negozio di alimentari aperto in via Zanda nell’aprile del 2022 da Paolo Belloli con Giulia Santinelli. Piccolo e colorato, ricco di profumi, bottiglie e vasetti: è un negozio dove trovare prodotti d’eccellenza da portare a casa come la pasta di Gragnano Afeltra, dopo aver degustato un calice di buon vino, accompagnato da taglieri e deliziosi panini imbottiti. Alla base una filosofia legata alla ricerca di piccoli produttori e vitigni autoctoni dove la gestione della vigna è la più naturale possibile ovvero nel rispetto del territorio e senza trattamenti. I salumi sono pregiati, i formaggi delle vere rarità come la Tuma persa, un formaggio palermitano dalla ricetta che, come dice il nome, andava persa, realizzato con latte vaccino, di pecora e capra.


Sorbetto alle more di gelso, omaggio alla storia di Treviglio e della Bassa

Il nuovo gusto creato da Paolo Riva esalta i frutti succosi e dal sapore unico degli alberi delle filande

Paolo Riva, titolare dell’omonima pasticceria trevigliese, omaggia il territorio con un sorbetto preparato con un frutto dimenticato, le more di gelso, fresco di produzione nel suo laboratorio artigianale. La storia di Treviglio è, infatti, intrecciata a quella dei gelsi: due esemplari di morus alba (gelso bianco), nell’aia di Cascina Battaglie, sono gli alberi più antichi del territorio: piantati tra il 1620 e il 1670, secondo una perizia botanica fatta da Legambiente, hanno dunque vissuto l’epoca della peste; hanno una circonferenza di 3,5 metri e sono cresciuti in media 2 millimetri e mezzo all’anno.
«Conoscevo i gelsi per le gite da bambino con le maestre che ci spiegavano la storia dei filatoi – racconta Riva -. Le foglie di gelso erano, infatti, utilizzate per nutrire i bachi da seta, indispensabili per le filande della Bassa Bergamasca. Un giorno, facendo jogging al Cerreto, ho scoperto i loro frutti, succosi, particolarmente buoni e zuccherini, meno aspri rispetto alle more di bosco».
Proprio i frutti dei gelsi di Castel Cerreto, simili a delle more allungate e dal sapore delicato e zuccherino, sono l’ingrediente principale per il nuovo sorbetto della Pasticceria Paolo Riva. Il prodotto, a base di frutta e zucchero, è creato, come per gli altri gusti, in piccole quantità ogni giorno per garantirne la freschezza. «Ho scelto le more di gelso – commenta Riva – come ingrediente perché sono dei frutti che affondano letteralmente le loro radici nella storia di Treviglio. Cerco sempre nuovi modi per riportare questo territorio che tanto mi ha dato all’interno delle mie
creazioni. Il richiamo ai gelsi, testimoni secolari della nostra storia locale, mi sembrava un buon modo per farlo. Inoltre, le more di gelso sono buonissime, genuine e molto fresche, quindi perfette per l’estate».


Un mondo di pomodori 

Emblema della cucina italiana, hanno una storia centenaria. In Italia si contano almeno 116 varietà. A Caravaggio un gruppo di pensionati coltiva 30 tipi di pomodori provenienti da sementi antiche 

Il pomodoro ha percorso un lunghissimo cammino dalle antiche civiltà azteche fino a diventare onnipresente nelle nostre tavole. Originario delle regioni andine, veniva coltivato in Messico: gli aztechi usarono il nome tomatl per indicare vari frutti di solanacee simili tra loro, mentre il pomodoro era chiamato xitomatl, che significa “frutto polposo”. Il pomodoro, insieme al mais, la patata, il peperone, il peperoncino e la patata dolce è arrivato in Spagna all’inizio del 1500 grazie a Cristoforo Colombo. Da Siviglia è approdato in Italia. Ma solo due secoli dopo, una volta superate diffidenze e paure, è stato utilizzato come ingrediente in cucina. La ricetta napoletana più antica di cui si è a conoscenza è la salsa di pomodoro alla spagnola e risale al 1692.

Dal Liberty bell al San Marzano: la classificazione

Classificare i pomodori non è proprio facilissimo. Se ne contano almeno 116 varietà in Italia, mentre nel mondo ne esistono migliaia. Si differenziano per il colore: ne esistono di gialli, verdi e addirittura neri. Il licopene, il carotenoide, che gioca un ruolo importante nella prevenzione dei tumori e che dà il nome scientifico alla pianta (Solanum lycopersicum), è presente in concentrazione maggiore proprio nel classico pomodoro rosso. E variano per la morfologia: tonda, allungata, a pera, a corno, ciliegino, costoluto, pizzutello, datterino. A volte il nome della cultivar, pur designando una provenienza, sottintende una forma. È il caso del San Marzano, dal nome del paese campano dove è dop, che costituisce categoria a sé con numerose sottospecie. «Un esempio di conformazione particolare è il Liberty bell, un pomodoro vuoto, dalla forma a campana, che si consuma ripieno di riso, cotto nel forno, come fosse un peperone – afferma Graziano Rossi, professore ordinario di Botanica ambientale e applicata nel Dipartimento di Scienze della Terra e dell’Ambiente all’Università di Pavia  -. In Italia è arrivato dagli Stati Uniti a inizio ‘900. Lo si trova citato nel 1900 sul catalogo della ditta sementiera “Livingston’s Seed Annual”». E poi c’è la destinazione finale. «Una pubblicazione del 1958 classifica i pomodori in tre categorie: da mensa o insalata, ovvero da gustare crudi, da conserva, dunque destinati all’industria – prosegue l’esperto – e da serbo, legati alla cultura alimentare del Sud Italia che, conservati, potevano essere consumati nel periodo autunnale e invernale per arrivare fino alla primavera, grazie alla buccia più dura e a una speciale genetica che non li fa marcire».

Blush, Lidi, Coyote: ecco il “Pomo d’Oro”

Uno dei migliori è l’Aunt gertie, grosso, dorato, che deriva da un’antica varietà proveniente dallo Stato della Virginia, negli Stati Uniti. Il Blush è giallo con strisce rosse e si distingue per il sapore fruttato; somiglia al Lidi, ciliegino a grappolo, dolce e succoso. Il Coyote, selezionato in Messico, è quasi bianco. Il Dottore Carolyn è di color avorio e, maturo, diventa paglierino: è dolce e delizioso. «Il termine italiano “pomodoro” si deve al medico naturalista senese Pier Andrea Mattioli, al quale, verso la metà del ‘500, capitò di esaminare alcuni esemplari appena arrivati dall’America, che erano gialli, dunque in origine il frutto era di quel colore – spiega l’esperto -. Quelle varietà, scomparse dalla grande distribuzione, stanno tornando in commercio». Tra queste spiccano l’Azoichka, antica varietà russa dal colore limone brillante e gusto agrumato. E il Brandywine giallo platfoot con frutti grandi, dorati e leggermente a coste.

Zebra verde e cherokee nocivi? No, una delizia se fritti

I pomodori, con le melanzane, i peperoni e le patate, appartengono alla famiglia delle solanacee. Come dice il nome, foglie, radici e frutti contengono un alcaloide, la solanina, che è un glicosidico tossico perché rappresenta una difesa naturale per la piantina e il suo frutto da insetti e funghi. La sostanza, che tende a scomparire con la cottura, è contenuta in quantità più elevate nei frutti verdi come il Verde tedesco, la Zebra verde, il Cherokee.  La solanina può causare un’intossicazione solo se assunta in quantità superiore a 20 milligrammi per 100 grammi di prodotto fresco. «In Europa arrivarono varietà già selezionate da Inca e Aztechi che le mangiavano, ma, nonostante ciò, per due secoli, il pomodoro fu utilizzato esclusivamente come pianta ornamentale e veniva studiato dai botanici poiché lo si riteneva velenoso – racconta il professor Rossi -. Mia moglie, quando rimase incinta, 21 anni fa, chiese al ginecologo il permesso di mangiare le patate. Oggi, come ci ha insegnato il film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, i pomodori verdi sono buonissimi. Anche in Romagna è tradizione gustare infarinati e fritti quei frutti che, arrivati a fine stagione, non maturano. Senza dimenticare la marmellata di pomodori verdi». Sempre all’origine dell’introduzione del pomodoro in Europa, non mancarono credenze bizzarre: al pomodoro venivano attribuiti poteri afrodisiaci e veniva utilizzato per le pozioni magiche. Questo spiega i nomi dati a questa pianta in varie lingue, ricordati da Leopoldo Tommasi nel suo testo, “Vecchie e inconsuete varietà di pomodori”: Pomme d’amour in francese, Love apple in inglese, Libesapfel in tedesco, pumu d’amuri in Sicilia.

Gli antiossidanti nel Nero di Crimea e di Kiss the Sky

Anche in Italia si comincia sempre più spesso a vedere in tavola il pomodoro nero. La varietà più nota è il Nero di Crimea, che ha origine nell’isola di Krim, in Ucraina. I semi sono arrivati in Italia proprio grazie ai soldati di ritorno dalla guerra di Crimea nella prima metà dell’800. Esiste anche il Ciliegino nero, dal sapore intenso, che esplode in bocca, il Nero cinghiale con strisce verdi, dal sapore ricco, Kiss the sky, dolce come il ciliegino, ma più grande e rarissimo. Oltre a essere buono, il pomodoro nero possiede proprietà interessanti dal punto di vista nutritivo: è, infatti, ricco di antociani, sostanze dal forte potere antiossidante, che gli fanno assumere un colore nero bluastro intenso. Nel 2009, da un incrocio di specie, è nato il Sun Black. In quell’anno, un consorzio di atenei, costituito dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, la Tuscia di Viterbo e le università di Modena, Reggio Emilia e Pisa, misero in piedi il progetto di ricerca ed è attualmente sul mercato. Particolare il Nero del Canada, inizialmente chiamato P20 o Osu Blue, è un ibrido tra un pomodoro e una solanacea selvatica peruviana, ottenuto dall’Oregon State University dal professor Jim Myers, che da anni porta avanti interessanti lavori di ibridazione.

A Caravaggio si coltivano Mirtillo e Cornu del Tempestì

Il Pisanello, il Principe borghese, l’Ottombrino, il Canestrello di Lucca, il Cherokee purple, il Cornu del Tempestì sono nomi che non sentirete in un supermercato. Sono alcuni dei 30 tipi di pomodori, coltivati dal gruppo di pensionati, che hanno dato vita agli Orti Biodiversi Caravaggini, guidati dal presidente Adalberto Sironi. L’associazione si è formalizzata nel 2010 e si dedica con passione alla coltivazione di verdura e frutta, riscoprendo sementi antiche che altrimenti andrebbero perse. Gli orti sono affiliati dell’associazione nazionale Civiltà Contadina. Sironi prepara le sementi e le conserva in un barattolo a chiusura ermetica in armadio: la banca dei semi. «Tra le più particolari il Mirtillo, il cui diametro varia dai 4 agli 8 millimetri, e il Cornu del Tempestì o Corno delle Ande, che si pela e gusta come una banana – racconta Sironi -. Il Tempestì era il soprannome di Luigi Legramandi, che non c’è più, coltivava questa varietà a forma di corno portata decenni prima dal Sud della Francia, dove aveva lavorato». La sua filosofia si ispira al motto «senza cultura non si semina più». «La caratteristica comune non è la provenienza, ma che siano semi non ibridati, questo vuol dire antichi – spiega -. La biodiversità è curare varietà che magari non sono autoctone ma si sono mostrate adatte a un microclima, nel nostro caso quello della Bassa, e vi si sono stabilizzate. La prova del nove non è solo che diano un buon raccolto, ma che siano buone in tavola».


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Più di 200 ricette, 16 menù settimanali e utili consigli sull’organizzazione della 

dispensa: la cucina vegetale non è una rinuncia, bensì un meraviglioso viaggio alla portata e a beneficio di tutti, pianeta compreso. Protagonisti sono i piatti vegetariani preparati con ingredienti stagionali, secondo ricette della tradizione italiana, ma anche di respiro più ampio e lontano. Zuppe, polpette e burger vegetali, insalate di frutta e verdura proposte con condimenti insoliti, ma anche grandi classici della cucina it

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di Myriam Sabolla

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