Dal Made in Italy al Sense of Italy (SofI), che vale 123 miliardi di euro

Un super brand, come il turismo, che agisce positivamente e a lungo termine sull’economia Il 15 aprile  il nostro Paese ha festeggiato la prima giornata del “Made in Italy”,promuovendo il valore e la qualità delle opere dell’ingegno e dei prodotti italiani. Il  Forum Internazionale di Confcommercio, organizzato a Roma in collaborazione con Ambrosetti a Villa Miani, invita ad andare oltre il concetto di “Made in Italy” e ad ampliarlo al “Sense of Italy” SofI, che vale nel complesso 123 miliardi di euro, considerando il saldo tra esportazioni e importazioni. Il “fatto in Italia” è troppo riduttivo per semplificare la portata dei prodotti italiani. Attorno ad ogni singolo prodotto ruotano servizi e alla combinazione tra prodotti e servizi, lo stile di vita e il gusto italiano, quell’”italian sound” che rappresenta una vera e propria molla per i consumi. Si consumano prodotti perché si apprezza la bellezza dell’Italia. E ciò vale soprattutto per i consumatori stranieri. I numeri  lo confermano: nel 2022 a fronte di 713 miliardi di valore di esportazioni complessivi, la differenza con le importazioni ha creato un disavanzo della bilancia commerciale di -29,5 miliardi.

Eppure le quattro A dei settori del “Made in Italy”- Agroalimentare, Abbigliamento, Arredamento e Apparecchiature consumer-  hanno realizzato, con il turismo consumer esportazioni per 213,6 miliardi e un saldo positivo di 123  miliardi. Perdiamo su tutto quanto non richiama il Sense of Italy- Sofl: un saldo negativo di 152,5 miliardi con un disavanzo pauroso sull’energia (-120,5 miliardi).  Ciò vuol dire che il “Sense of Italy” Sofl è il motore trainante del nostro Paese. In questo macro- settore, dopo la moda, il turismo – come servizio esportato agli stranieri-  è la seconda voce con 44,3 miliardi di esportazioni e un saldo di 25,3 miliardi.

Il SofI  è un super- brand o meta-brand e ribadisce come la scelta dei consumatori sia guidata anche, se non soprattutto, dall’origine e provenienza, dal cosiddetto “Country of origin effect”. Esprime scelte che vanno ben oltre quella razionale del rapporto qualità-prezzo, ma che si lasciano guidare da fattori emozionali ed esperienziali, proprio come il desiderio indotto da un’esperienza. Vale a dire, acquisto dall’Italia perché ho visitato l’Italia e amo il suo cibo, il suo modo di vivere, vestire, abitare, et cetera.

In altri termini, il Sense of Italy, può rappresentare per svariate ragioni un’opportunità. Consente politiche di prezzo molto soddisfacenti, risente meno dell’andamento del ciclo economico e finanziario, oltre a  pagare abbondantemente la bolletta energica (importata) e ad incorporare ridotte importazioni da altri Paesi.

Secondo l’Ufficio Studi di Confcommercio il SofI non solo è una voce concreta dell’economia, ma un indicatore che raccoglie la “parte più desiderata e pregiata della nostra economia”, peraltro caratterizzata da “parametri che la rendono resistente al ciclo economico e non troppo soggetta a insidie di prezzo”. È infatti una voce molto elastica al ciclo positivo, cioè quando l’economia mondiale rappresentato dal PIL pro capite cresce maggiormente, 3,1 contro il 1,5 del non Sofl, meno elastico al ciclo negativo (2,4).

Infine esiste una contaminazione positiva tra export di beni e presenze turistiche. Secondo una ricerca di Confcommercio che riguarda le presenze turistiche straniere in Italia dal 2013 al 2019 e le esportazioni verso 45 Paesi europei ed extraeuropei, al crescere dell’1% delle presenze in Italia degli stranieri di un Paese, a parità di altri condizioni, le importazioni dall’Italia di quel Paese crescono tra lo 0,5% e lo 0,9%.

L’effetto positivo del turismo non agisce quindi solo a breve sulla bilancia commerciale ma con un effetto di lungo termine.  Non male per un settore ancora da molti – e a torto- considerato di seconda serie,  che dovrebbe essere invece centrale nei piani industriali del nostro Paese.

 


Il lavoro nel turismo: troppi pregiudizi, tante opportunità

L’osservatorio affidato ad Adapt sfata alcuni falsi miti sull’occupazione in pubblici esercizi e hotel

Il primo report “Presente e futuro del comparto turistico-ricettivo e dei pubblici esercizi a Bergamo: strumenti e metodi per favorire l’incontro tra domanda e offerta” realizzato da Fondazione Adapt e commissionato dall’Ente Bilaterale del Turismo di Bergamo scrive una parola nuova sul tema del lavoro nel settore turistico della nostra provincia, accusato da anni di registrare una fuga degli addetti.  Con la disoccupazione prossima allo zero esistono forti difficoltà nel reclutare nuovo personale in tutti i settori e in tutte le imprese. Il problema è quantitativo o di competenze e sta proprio andando così per le imprese della ricettività e dei pubblici esercizi? Lo studio di Adapt contribuisce a fornire una fotografia dello stato di salute del settore che consente anche di contraddire molti pregiudizi sul lavoro nel turismo nella nostra provincia.

La crisi demografica e il suo impatto

I giovani sono la spina dorsale dell’occupazione nelle attività dei servizi di alloggio e ristorazione. Non è solo un fatto evidente entrando nei locali.  Se dal 2013 al 2022 si è assistito a Bergamo ad un decremento della natalità – 2,6% e alla crescita dell’indice di invecchiamento della popolazione, dal 2019 al 2023 a fronte della diminuzione del numero di residenti – 3.391 sono aumentati i giovani dai 15 ai 29 anni +4.600, aumento registrato anche in Lombardia e nel Nordovest contro il calo della categoria a livello italiano. Questa fascia costituisce circa il 16% della popolazione. L’incidenza degli stranieri è più alta nella fascia giovanile 13,20% contro il 13% del totale residenti. Quindi il problema demografico non sta impattando nell’attualità ma lo farà solo nel medio termine. Il settore dovrà sempre di più arricchirsi di lavoratori stranieri che presentano una dinamica migliore degli italiani.  Sfatiamo un primo falso mito: il turismo impiega molti i giovani ma non è vero che i lavoratori non ci sono per la crisi demografica in atto.

Il numero degli addetti del settore in bergamasca

Il numero degli addetti delle attività dei servizi di alloggio e ristorazione ha messo a segno una crescita formidabile tra il 2012 e il 2019 passando da 20.691 addetti a 25.377 (+ 4.686 addetti + 22,6%). Secondo l’Osservatori del lavoro di Federalberghi su dati Istat relativi all’anno 2022 proprio nel 2022 c’è stato il recupero totale dei dipendenti con una media nell’anno di 25.640. In questi sette anni in cui c’è stata una forte recupero di manodopera la crescita complessiva è stata del 3,5% (da 385.387 a 398.757 + 13.370) quindi il settore di alloggio e ristorazione ha contribuito per il 35% dell’aumento. Nello stesso periodo il settore ha contribuito a lenire il calo degli altri settori: (non tanto del settore manifatturiero che con il prodigioso recupero messo a segno dal 2017 si assestato a – 262 – 0,1% quanto al settore delle costruzioni (-8.556 -17,6%) e del commercio (-1.191 – 1,9%). In crescita di poco solo i servizi alle persone e di molto i servizi sanitari e sociali.    Poi il crollo per il Covid ha visto scendere gli addetti tra il 2019 al 2020 di 1.843 (-7,2% in un solo anno). Tra il 2021 e il 2022 gli occupati a livello regionale nelle attività di ristorazione sono cresciuti del 13,8% e nelle prime dieci professioni per numero di occupati si è collocato al 2° posto con un peso del 4,1% del livello di occupati. Dopo la fuoriuscita dei dipendenti dal marzo 2020 e proseguita nell’autunno del 2021 fino alla primavera 2021 per effetto delle misure restrittive il settore ha con grande fatica riassorbito manodopera tornando e superando i livelli pre pandemia.  Il dato del tasso mancata partecipazione al lavoro giovanile registra in provincia di Bergamo una flessione di 8,1 punti percentuali nel periodo 2018-2022, decremento più consistente di quello verificatosi a livello regionale nel medesimo periodo. Il tasso nel 2022 era del 10,7% contro il 16,9% del dato Lombardo. Il settore ha contribuito vistosamente al richiamo all’occupazione soprattutto dei più giovani. Non è casuale che il recupero dei giovani al lavoro è stato prodigioso tra il 2018 e il 2019 (-4,6%) e il 2021 e il 2022 (-2,7%) mentre l’indice che è negativo è addirittura aumentato tra il 2020 e il 2021 (+0,3%), quando il settore ha sofferto per i lockdown.  Sfatiamo il secondo grande mito: il settore non ha scacciato occupati , anzi li ha attirati e più di altri ha saputo attirare lavoro giovanile, femminile e di stranieri.

Imprese e lavoro

Entrando nel dettaglio delle specializzazioni produttive locali, nel 2021 le imprese del settore dei servizi di alloggio e ristorazione (4.874) costituivano il 6% del totale di quelle attive a livello provinciale, con una netta prevalenza delle aziende dei pubblici servizi (4.472) di piccole dimensioni. Considerando l’insieme dei comparti riconducibili al turismo, questo dato sale al 10,2%. Il numero delle imprese registrate nelle attività di servizi di alloggio e ristorazione dal 2010 al 2023 mostra una crescita significativa dal 2010 al 2018 con una crescita maggiore tra il 2017 e il 2018 e poi l’inversione verso una riduzione dal 2018 al 2023 con due accelerazioni in diminuzione, nel 2020 e nel 2022. Infatti la dinamica a breve termine mostra un calo tra il I trimestre 2022 e il I° trimestre 2023 da 6.799 a 6.653 (-146 imprese -2,1%) ma con una dinamica opposta tra la crescita delle imprese di alloggio +41 e il calo di quelle della ristorazione -183). Quello che invece registra l’Osservatorio del lavoro di Federalberghi è che nel 2022 i dipendenti medi dei pubblici esercizi bergamaschi sono stati 8,8 contro i 7,7 della media regionale. Quindi dimensioni medie più grandi si oltre un addetto in media.  Sfatiamo quindi il terzo mito: non è vero i lavoratori non ci sono perché aprono sempre maggiori nuove imprese che diventano sempre più piccole.

L’autoimprenditorialità

Inoltre, è utile prendere in esame anche il numero degli occupati nel 2022. Sul totale di 489.000 occupati in provincia di Bergamo i servizi ne cubano 256.000 (pari al 52,35%) mentre gli addetti ai servizi di alberghi e ristoranti 69.000 (14,11%).  L’osservatorio di Federalberghi per il 2022 registra la punta massima di 26.908 dipendenti nel settore. Senza quantificarlo perché statisticamente è difficile confrontare due fonti diverse è facile intuire quanto sia in questo settore il peso degli indipendenti (soci, amministratori, coadiuvanti rispetto ai lavoratori dipendenti: tre a due. Questo è lavoro in proprio! Sfatiamo il quarto che è il peggiore dei miti: non è vero che le persone scappano da questo settore perché non ci sono prospettive di crescita professionale. Le imprese crescono per dimensione e il lavoro in proprio è un meritocratico ascensore sociale. Certamente non ci sono sentieri o scorciatoie facili per crescere, come in nessun altro settore.

Istruzione, formazione e distanza tra domanda e offerta

Uno dei problemi che esistono nel settore è il disallineamento tra domanda e offerta legata alla variabile grado di istruzione e conseguenti aspettative di crescita professionale. Come detto la categoria “Esercenti ed addetti nelle attività di ristorazione” costituisce la seconda professione in Lombardia (dopo l’impiegato alla segreteria e agli affari generali) tra il 2021 e il 2022 (+22.000 addetti + 13,8%). Come si concilia la crescita di questa professione con gli iscritti nelle scuole superiori di II grado in provincia di Bergamo nello stesso periodo con gli iscritti ai licei 22.505 (46,6% del totale), degli Istituti tecnici 17.838 (pari al 37,0%) con gli iscritti agli Istituti professionali 7.924 (pari al 16,4%) di cui solo 1.414 per servizi (pari al 2,9%). Questa è la realtà che non vogliamo affrontare ma che costituisce il problema: il disallineamento tra istruzione, formazione e aspettative di crescita.
Dobbiamo spiegare bene alle famiglie dove potranno lavorare i figli e evitare di demonizzare lavori che sono onorabili ed anche soddisfacenti. Perché lavorare nel turismo a contatto con la gente sarà certamente migliore che lavorare davanti ad un PC o nel commercio elettronico dove contano robot e Intelligenza artificiale. Dobbiamo far cambiare la percezione. Il terziario della nostra provincia ne avrà bisogno. Qualcosa potrà essere ancora recuperato tra i NEET e i ragazzi che non finiscono le scuole ma in prospettiva occorrerà dare qualità e valore ai lavori del settore per richiamare giovani intraprendenti nel settore. In questo modo oltre alla crescita quantitativa metteremo a frutto anche una crescita qualitativa della nostra offerta turistica.


Lavoro, Università e associazioni insieme per uscire dall’emergenza occupazionale

L’Ateneo tende la mano alle associazioni di categoria per il rilancio dell’economia del territorio. Qui si gioca la vera sfida del futuro

La profonda fase di transizione demografica, tecnologica e sociale che attraversa la nostra società impatta come non mai sul mondo del lavoro con due evidenze generalizzate: la difficoltà nel trattenere personale e la penuria di profili qualificati. Tutto ciò in un contesto generale che si affida più alle percezioni che alle certezze, nel ritenere un lavoro più interessante e proficuo di un altro, ma che ancora si basa anche su visioni e sistemi di lavoro anacronistici.

L’Università di Bergamo è scesa in campo con un progetto dedicato al rapporto tra giovani e lavoro, presentato nel convegno internazionale dal titolo “Giovani, lavoro e lavori” . Il convegno, promosso dal CESC Centro sulle dinamiche economiche, sociali e della Cooperazione dell’Ateneo di Bergamo, vede l’Università di Bergamo fare da ponte tra la comunità scientifica e il mondo imprenditoriale del territorio rispetto ad un problema, come quello occupazionale, grave e complesso. Con questa sua nuova proposta l’Università prosegue nella strada di collaborazione con enti e istituzioni, che rientra nella sua cosiddetta terza missione e che vede l’accelerazione portata dal nuovo rettore, Sergio Cavalieri, che ha segnato un cambio di passo. Non è casuale che l’Università abbia chiamato al tavolo del convegno gli altri attori della formazione, da Regione Lombardia alla Provincia e Comune di Bergamo.

Orientamento, attrattività e fidelizzazione del lavoro sono i temi che si aggiungono al ruolo chiave di scuola e lavoro nella crescita delle competenze e che si devono coniugare con qualità del lavoro, innovazione, meritocrazia e benessere del lavoratore, che oggi sono fattori chiave di competizione di settori produttivi, territori e singole imprese.

Di fronte ad un problema comune si è finora lavorato tanto, ma ciascuno per conto proprio. Per onestà devo riconoscere che nel nostro settore del terziario le associazioni datoriali sono un po’ in ritardo, forse perché a fronte del mismatch di competenze si è pensato di poter far fronte con formazione ad hoc e training on the job, che poi è per dirla bene “in bottega”. Oggi però non si avverte solo un’ulteriore apertura tra competenze richieste e possedute ma anche una penuria di profili. Il problema non è diventato grande solo quantitativamente, ma investe un cambio di valori dei giovani verso il lavoro che ne determina scelte completamente diverse dalle precedenti generazioni.

Il tema dei giovani con il grande problema demografico non può essere disgiunto dal quadro complessivo del mercato del lavoro, nè dall’invecchiamento della popolazione e dal cambio del sistema di welfare.

Tornado sulla proposta dell’Università, noi crediamo fermamente nell’impegno delle organizzazioni di categoria al suo fianco. A patto però che le Associazioni sappiano anche reinterpretare il loro ruolo, che non potrà essere solo sindacale, di rappresentanza o di erogazione di servizi alle imprese. Diventa infatti indispensabile attivarsi anche nell’educazione e orientamento dei lavoratori, che fino ad oggi li ha visti lontani in una logica “sovra categoriale”. Ora più che mai urge superare il concetto di competizione intersettoriale per promuovere il lavoro e quindi il sistema economico del territorio. C’è in atto un grande confronto, una sfida globale dei territori e per i territori. Le capitali europee attirano i nostri cervelli, Milano drena talenti a Bergamo, il nord attira giovani lavoratori dal sud. Inoltre le organizzazioni devono continuare a educare gli imprenditori all’accoglienza e alla crescita dei lavoratori, oltre che nella ricerca del benessere del personale, che oggi è la vera leva occupazionale. Concetti quali quelli del employer branding e del recruiting marketing  sono entrati da anni nelle grandi imprese, ma restano ancora lontani per i piccoli e medi imprenditori. Un ruolo chiave continuerà ancora ad essere il supporto alle imprese, soprattutto quelle dei settori del terziario, per accrescere la loro produttività,  senza il cui aumento non riusciremo ad uscire dalla pericolosa e attuale spirale negativa, tra perdita del potere di acquisto dei lavoratori e riduzione di marginalità e profitto delle imprese.


La straordinaria stagione della “Cicala” post pandemia è agli sgoccioli

La spinta post pandemia sta per finire e il caro prezzi inizierà a farsi sentire per davvero. Senza essere catastrofisti sarà un autunno di serie riflessioni

Le avvisaglie sono chiare: agosto è tempo di novità e l’autunno sarà il momento di profonde riflessioni. Il calo registrato nel secondo trimestre di quest’anno della produzione dell’industria orobica (-2,5%) è l’esito di un lungo processo di rallentamento che ha visto la progressiva riduzione delle variazioni già nello scorso anno. I cicli della manifattura si sono sempre propagati su quelli del terziario con un ritardo temporale più o meno lungo e un riverbero più o meno forte.

La crisi dell’economia reale del 2008, dopo la tempesta finanziaria dell’anno precedente, per esempio arrivò molto tardi sul terziario ma colpì durissimo. Meno produzione significa meno reddito e minore spesa. Del resto sappiamo che i bergamaschi amano spendere ‘gli straordinari’ per togliersi qualche sfizio. Senza premi e bonus non solo occorrerà tornare alla vita normale, ma anche ingegnarsi su come sostenere il caro mutuo e il caro spesa.

I saldi iniziati un mese fa sono già la cartina tornasole dell’andamento del commercio. Nella prima fase di luglio hanno registrato un – 15%, per poi andare ancora peggio nelle successive settimane. Agosto è periodo di ferie e anche di pensieri. Il turismo viaggia forte ma le prime crepe sono già chiare.

Gli italiani che hanno meno soldi da spendere rallentano le prenotazioni delle vacanze. Tengono le richieste degli stranieri, degli americani che godono del cambio favorevole tra dollaro e euro e degli europei dei paesi del Nord che hanno un costo della vita più alta. Il loro moltiplicatore di spesa, che è sempre stato generoso non solo per le imprese della ricettività e della ristorazione ma anche per il commercio, ora sta contraendo quest’ultima voce: in altri termini spendono di più per arrivare, di più per dormire, mangiare ma stanno frenando ogni altro acquisto. E’ il commercio in senso stretto delle botteghe e dei negozi italiani il termometro della crescita del Paese.

I turisti invece dei Paesi dell’Est arrivano per visitare con spesa ridotta all’osso. Anche spagnoli e francesi sono più morigerati nella spesa. Insomma: tanti più turisti oggi compensano la minore capacità di spesa di ciascuno.

Cosa succederà quando questa spinta post Covid a viaggiare subirà il suo necessario ridimensionamento? Quando questa diminuzione sarà evidente per tutti e come sarà avvertito? Come un rallentamento naturale e graduale o come un effetto di sgonfiamento della bolla? Il caro prezzo e soprattutto le difficoltà crescenti non tarderanno a farsi sentire.

Sperando che questa straordinaria stagione da ‘cicala’ non si interrompa bruscamente, torneremo ad essere più realisticamente e con i piedi in terra, da brave formiche che sanno fare i loro conti. Senza essere catastrofisti sarà un autunno di serie riflessioni. Per tutti.


Agenti di commercio, un futuro della professione tutto da costruire

Il ricambio generazionale è il problema di un lavoro scelto solo dal 15% di under 30 e abbandonato da quasi il 60% degli over 50 e 60

Le difficoltà del mondo del lavoro nel reperire manodopera, che accomunano trasversalmente tutti i settori produttivi,  stanno investendo anche il mondo dell’impresa e la categoria degli agenti di commercio. La figura dell’ausiliario – che nelle sue macro categorie della classificazione ATECO vede in provincia di Bergamo 2.086 imprese attive con codice esclusivo di agente di commercio-  sta riflettendo molto questa difficoltà. La figura dell’intermediario del commercio, divenuta fondamentale come motore dello sviluppo delle vendite delle imprese di ogni dimensione con l’affermazione dei canali distributivi corti dall’inizio della concentrazione della distribuzione delle merci degli anni ’70,  sta perdendo diverse posizioni anche nel nostro territorio. Le ricerche presentate da FNAARC e da Confcommercio Bergamo nel convegno “Agenti di commercio: pianificare l’evoluzione. Analisi del presente e vision sul futuro” hanno visto snocciolare numeri non positivi sia a livello nazionale che locale. In Italia a fronte di un numero di imprese preponenti  in calo del -3% (da 58.520 del 2021 a 56.600 del 2022) il  calo di 1.423 agenti di commercio – 0,7% è stato più contenuto, anche se non consente di rovesciare un trend che ha visto perdere oltre 60mila agenti di commercio in 10 anni.

Il problema nella provincia di Bergamo è ancora peggiore:  il saldo degli agenti di commercio per l’anno 2022 è negativo con – 124 imprese iscritte alla Camera di Commercio. E’ il dato peggiore dal 2019, addirittura più nero di quello del 2020, quando si toccò il minimo storico di nuove aperture (67) e il record di chiusure (191). Nel periodo dei quattro anni il saldo, ahimè sempre negativo, è di – 364 imprese,  con un turnover del 35%. In quattro anni sono cambiati quasi 4 agenti di commercio su 10 nella nostra provincia. Questi sono numeri che inducono ad un riflessione. Indubbiamente i numeri risentono della riduzione del numero dei giovani che sta influenzando il tasso di natalità delle imprese di tutti i settori e della riduzione drastica del tasso di disoccupazione che porta molti ausiliari a lasciare l’attività in proprio per intraprendere quella più sicura di lavoratore dipendente. Ma a fianco di queste motivazioni di ordine generale, la riduzione di fatturati e provvigioni sta scoraggiando l’avvio e la prosecuzione dell’attività.

Il modello al quale eravamo abituati nel secolo scorso dell’agente di commercio come diplomato brillante che intraprende la professione entro i 30 anni dopo un’esperienza come lavoratore dipendente e che continua per oltre 40 anni fino alla pensione non esiste più.

Gli agenti di commercio bergamaschi evidenziano maggiore individualità nell’esercizio, meno presenza femminile un’età anagrafica maggiore rispetto a quella nazionale.

Sembrerebbe essere più accentuato il turnover nella professione rispetto alla media nazionale, tipico delle aree del nord Italia, più avanti nell’affermarsi dei fenomeni sociali e con minore disoccupazione che crea sbocchi alternativi.

Il dato della migliore longevità delle imprese femminili è positivo perché potrebbe essere il segnale che la professione sta iniziando ad attirare maggiormente le donne perché meglio si concilia con l’organizzazione familiare.  Di contro, ciò potrebbe essere legato alla riduzione del reddito medio dell’agente.

Sull’età anagrafica delle aperture e cessazioni si addensano le principali complessità del sistema sociale ed economico della professione.

Solamente il 15% circa delle nuove attività è aperta da un giovane sotto i 30 anni. Uno su due avvia l’attività tra i 30 ei 49 anni, quindi dopo aver già svolto un altro lavoro, mentre ben il 37% sceglie la professione dai 50 ai 69 anni, ormai nell’ultima fase della sua vita lavorativa.

La discontinuità nelle cessazioni  vede il 2,3% dei giovani che desistono subito, il 22,2% che lascia dai 30 ai 49 anni per andare a fare altro, con la probabile dispersione delle competenze acquisite. Dentro nella frazione del 59,7% che lascia dai 50 ai 69 anni, accanto alla porzione di coloro che hanno raggiunto l’età pensionabile, si annida la principale criticità di chi viene espulso dalla professione in età avanzata con minori prospettive di riassorbimento.

Gli anni della pandemia evidenziano i fenomeni già emersi nei decenni precedenti. Una curva demografica e una di longevità aziendale pericolose per la categoria e per le imprese mandanti.

Il problema è noto alle medie e grandi imprese consapevoli che non si potranno sostenere le vendite con l’e- commerce ma servirà attirare presto molti giovani brillanti, anche se non sarà per niente facile.

La professione per continuare ad essere attrattiva deve essere sostenibile, sia economicamente sia per quanto riguarda la conciliazione lavoro-tempo libero, prioritaria nella scelta del lavoro soprattutto da parte dei più giovani.

Questo è l’input per le aziende mandanti che più degli stessi agenti sono convinti che Internet non potrà sostituire la figura del rappresentante, ma che ne cambierà in parte il ruolo. Questo ruolo però  va riconosciuto non solo a parole ma nei fatti.

Di contro, devono essere i giovani a credere in questa professione in proprio, che resta moderna, ben retribuita a regime, e che prevede un buon mix tra tecnologia, social, smart working, elementi tra i più apprezzati nella scelta lavorativa.

Perché non ci sarà comunque posto per tutti i giovani laureati brillanti nelle funzioni del marketing e comunicazione delle grandi imprese, soprattutto se non riusciranno a sostenere le loro vendite con adeguate e qualificate forze,  sia nella forma di dipendenti diretti sia di agenti di commercio, nel giusto equilibrio.  Senza dimenticare che negli anni la professione dell’agente di commercio ha proposto un modello virtuoso perché basato sul lavoro in proprio per enfatizzare la relazione con il cliente e massimizzare le vendite.

 


Passaggio generazionale: serve un processo su misura delle micro e piccole imprese

Le relazioni familiari fanno sempre la differenza. Oltre la governance e gli aspetti manageriali e gestionali, resta l’unicità di ogni famiglia, che rispecchia anche quella d’impresa

Il tema della governance delle società familiari e le dinamiche del passaggio generazionale sono argomenti trattati già da molti anni dalla letteratura e dal mondo accademico eppure sono ancora aspetti poco conosciuti dagli imprenditori, almeno dalla stragrande maggioranza di essi. Il ricambio generazionale è un processo lungo e laborioso che tutte le imprese longeve  sono chiamate ad affrontare, anche se spesso in modo dilettantesco o meglio con un forte supporto tecnico legale e fiscale da parte dei consulenti ma uno scarso supporto di processo.  Perché avviene questo?

Perché le numerose ricerche sul tema, considerato ormai molto esaminato dal mondo accademico, hanno portato molta teoria ma poca pratica. La colpa certamente non è del mondo accademico ma dal mondo delle imprese che forse l’ha trascurato un po’,  rispetto all’importanza di tutti i processi che portano all’efficienza negli adempimenti obbligatori o a quelli immediati di sviluppo e ritorno degli investimenti.

Inoltre i vari aspetti sono stati poco declinati verso la micro e la piccola impresa. Eppure è proprio in queste imprese, che non si caratterizzano per una quota societaria e per un dividendo come remunerazione ma per un asset familiare da salvaguardare e soprattutto in un lavoro da passare da una generazione ad un’altra dove il problema del ricambio generazionale si acuisce.

Infine forse si ritiene che questo processo possa essere affrontato solo con forti competenze legali, economiche e finanziarie trascurando invece gli aspetti più psicologici del sistema delle relazioni dei familiari e del rapporto familiari e management che spesso invece fanno la differenza nel buon fine del processo. Certo i “Patti sociali e parasociali”, “Trust”, “Holding” e “Patto di famiglia” costituiscono la “cassetta degli attrezzi” per affrontare il processo, ma restano strumenti che vengono dopo due aspetti che sono fondamentali: cultura e sensibilità verso la continuità aziendale (e familiare).

Partiamo dall’assunto che la micro e la piccola impresa sono la spina dorsale del nostro sistema economico. Sono i numeri a confermarlo. Se le imprese micro e piccole in provincia di Bergamo (da 1 a 9 addetti) costituiscono il 93% delle imprese attive, per i settori del terziario, servizi esclusi, possono addirittura arrivare al 95% del commercio e al 97% del turismo. Non conta solo la dimensione ma il management. Ci sono imprese che per fatturato e numero di addetti sono grandi in cui però la gestione mantiene una dimensione familiare.  Estendendo quindi l’esigenza alle imprese più grandi dei 9 addetti e nelle quali la gestione è comunque, almeno nelle sue funzioni-chiave diretta dall’imprenditore e dai suoi familiari allora il bisogno potrebbe rasentare addirittura il 98/99% delle imprese longeve, cioè di qualsiasi impresa che voglia darsi una proiezione oltre la prima generazione.

Il Registro delle Imprese che tanto è utile per valutare l’andamento del sistema economico non risolve l’esigenza di isolare nell’immediatezza le imprese e le società familiari. Rileva le nuove imprese e le cessate, di ogni settore, le imprese di stranieri, di giovani e a prevalenza femminile, le tipologie di società ma non le imprese gestite in famiglia. Eppure queste imprese sono un elemento distintivo del nostro tessuto economico e dovremmo cercare di definirne il peso prima ancora che porre delle tutele per le stesse. Ad esempio da anni rileviamo un calo sensibile delle società di persone a dispetto di quelle di capitale ma non sappiamo se questo fenomeno depauperi o meno il sistema e la forza delle imprese familiari. Eppure il futuro del nostro sistema economico passerà dalla comprensione di questo fenomeno.

Esistono due approcci di analisi del tema e di supporto alle imprese. Uno è quello degli Istituti previsti dalla legge e gli strumenti giuridici e fiscali a disposizione. Queste competenze non possono che venire dall’alto, dal mondo accademico e dai professionisti avvocati, notai e commercialisti. Peraltro sono stati i contenuti di due importanti seminari organizzati pochi giorni fa dalla Camera Arbitrale di Bergamo e dal titolo: “Le società familiari e le PMI tra organizzazione della Governance e raccolta dei finanziamenti”. Gli strumenti ci sono sebbene debbano essere maneggiati con cura.

L’altro approccio non meno importante viene invece dal basso. Ogni società familiare è diversa da un’altra perché ogni famiglia è unica. Le relazioni tra familiari prevalgono spesso su quelle economiche e le esperienze sono sempre l’una diversa dall’altra. Nei fattori ESG (Environmental, Social and Governance Criteria) non è casuale che la governance sia il primo fattore,  più importante ancora degli altri, per l’ottenimento del credito. Noi vorremmo essere di aiuto agli imprenditori studiando in profondità casi nei quali si è o si sta consumando il ricambio generazionale per isolarne punti di forza, criticità e buone prassi. Da qui nasce il coinvolgimento del Centro Cyfe (Center for Young and Family Enterprise) dell’’Università degli Studi di Bergamo  per analizzare in profondità tre temi significativi che sono al centro della questione: la delega con i ruoli e le responsabilità, l’affiancamento e il passaggio delle competenze ed infine le aspettative e le aspirazioni delle persone, perché è vero che si parla di continuità delle imprese ma soprattutto di passato presente e futuro delle persone. Quindi della loro buona vita. Grazie al suo Gruppo Giovani  la nostra associazione ha realizzato un docu-film sul tema del ricambio dal titolo “L’impresa familiare tra passato presente e futuro” : abbiamo intervistato dieci senior e junior di imprese che stanno affrontando gli elementi positivi e negativi del passaggio. Pensiamo che su un tema che rende ogni esperienza diversa da un’altra sia fondamentale avere metodo anche per la selezione delle buone pratiche e dei consigli giusti per affrontarlo. Insomma cercando di non improvvisare.

 


La sfida vera non saranno le commissioni del POS ma i clienti in negozio

Inarrestabile la crescita dei pagamenti digitali: c’è spazio per strumenti innovativi con tecnologie di prossimità

In attesa dei dati sui pagamenti in Italia dello scorso anno, che saranno rilasciati dalla contabilità nazionale nei prossimi mesi, i diversi Osservatori stanno già anticipando le tendenze e i cambiamenti nelle abitudini di pagamento degli italiani. Alcuni proseguono nella transizione in atto a partire dalla pandemia. In primis, con lo spostamento dei pagamenti dal contante agli strumenti digitali che ha subito una accelerazione durante la pandemia e che costituisce oramai un “nuovo normale” per i clienti italiani abituati più di altro alle banconote. Un fattore da considerare è che i pagamenti sono la conseguenza del canale di acquisto scelto dal consumatore. Perché se compri on line è pacifico che non puoi pagare né in contanti e nemmeno con un assegno. Poi dovremo capire quanto e quando il pagamento digitale che oggi è ancora impostato su carte di credito, debito e prepagate su un POS all’interno di punti vendita potrà avvenire attraverso canali più innovativi.
La scommessa più importante infatti non sarà l’evoluzione delle commissioni del canale di pagamento, che comunque tenderanno a scendere sempre di più ma quanto i pagamenti rimarranno nella prossimità e quindi nei punti vendita tradizionali e vicino a una cassa, quindi con un costo di commissione a carico degli esercenti ma non intermediati da un soggetto terzo centralizzato.

E’ questo l’interrogativo che emerge leggendo i report dell’osservatorio più autorevole sui pagamenti digitali che è quello del Politecnico di Milano che da anni monitora il mercato dei pagamenti consumer in Italia e che nei mesi scorsi ha pubblicato i cambiamenti intervenuti nel triennio 2019-2021 (Osservatorio innovative Payments “il mercato dei pagamenti consumer in Italia nel 2021” Report 2022).

Dopo la caduta dei consumi per via della pandemia nel 2020, che ha registrato in buona sostanza solo una piccola flessione dei pagamenti con carte di pagamento e degli altri strumenti, massimo del -0,7% contro il – 24% dei pagamenti in contanti, la ripresa nel 2021 è stata del 2% sempre delle carte e praticamente esistente + 0,5% per i contanti.

Non è solo il valore complessivo ma il numero dei pagamenti che evidenzia, secondo quanto ben spiegato dall’Osservatorio, come la pandemia abbia realmente cambiato nel nostro Paese la velocità del passaggio ai pagamenti digitali, gettando le basi per un recupero che potrebbe essere bruciante rispetto al ritardo che contraddistingue l’Italia dalle nazioni più avanzate.

Non è una caso che dopo aver cantato il de profundis della cambiale, strumento di pagamento sul quale si è costruito il boom economico dell’Italia, avvertiamo il declino sempre più marcato anche dell’assegno, una volta lo strumento “principe” dei pagamenti, oggi travolto dalla crescita delle transazioni con carte, bonifici e addebiti diretti, tanto che sono molte le persone che non possiedono più il carnet e probabilmente non saprebbero nemmeno più compilare un assegno.

Inoltre lo scontrino medio per i pagamenti in contanti ha perso ancora mezzo euro passando da 18 a 17,5, segnale che i pagamenti più importanti sono sempre meno in denaro e più digitali. Anche il valore del pagamento medio con carte continua la sua discesa da 53 nel 2019 a 47 nel 2021.

Ora la tendenza da analizzare e che più ci sta a cuore non sarà tanto la velocità con cui le carte e gli strumenti innovativi soppianteranno assegni e contanti, per i quali il ridimensionamento è solo questione di anni quanto l’affermazione dei pagamenti on line cioè effettuati attraverso Internet da remoto rispetto ad uno spazio fisico.

Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano il loro peso, al netto dei pagamenti ricorrenti, resta ancora contenuto al 13% nel 2021 e speriamo che resti il più possibile sempre lì e non aumenti.

Perché la sfida per i commercianti nei prossimi anni non sarà quella di “retroguardia” ossia di mantenere i contanti per non pagare le commissioni d’incasso, quanto quella di mantenere le vendite attraverso il loro canale del punto vendita tradizionale, quindi magari con un pagamento innovativo fatto con cellulare o con altre tecnologie di prossimità. Sia chiaro però: nel negozio e non alla scrivania di casa per il commercio elettronico.

 


Corsa alle dimissioni, la grande crisi per le imprese del turismo e della ristorazione

Non c’entrano solo orari e stipendi, ma pesa sempre di più il benessere percepito sul lavoro, oltre al rapporto con il titolare (che vale il 50% delle rinunce lavorative)

Il fenomeno delle grandi dimissioni, Great resignation o big quit come lo chiamano gli americani, dopo il boom degli Stati Uniti nel 2021 (47,7 milioni di dimissioni volontarie contro i 68,8 milioni di cessazione di rapporti di lavoro) ha raggiunto anche l’Europa e sta scuotendo dall’anno scorso anche il nostro Paese e in via trasversale tutti i settori economici che lo compongono. Questo nuovo modo di intendere e concepire la vita per i lavoratori che cercano prima di tutto benessere e conciliabilità dei propri interessi sta trovando la “vittima sacrificale” nei settori del terziario: il commercio, ma soprattutto il turismo e la ristorazione, stanno pagato il dazio più alto.

Accanto infatti ai tanti fattori che spiegano il fenomeno delle grandi dimissioni in senso generale, ce ne sono alcuni particolari che riguardano esclusivamente i settori del terziario. In primo luogo il settore è costituito quasi esclusivamente da micro e piccole imprese per lo più a conduzione familiare dove la possibilità di proporre una carriera è molto bassa. Una volta, chi lavorava in questo settore lo faceva per imparare un mestiere e aprire la propria attività, ma oggi quella proiezione di lungo termine sembra essere fantascienza per la maggioranza dei giovani.

Le imprese del settore turistico pressate dalle difficoltà finanziarie della pandemia e da quelle economiche della riduzione dei margini per la concorrenza dei grandi player (dalle prenotazioni con le OTA nella ricettività, del delivery con le piattaforme nella ristorazione) e da una concorrenza esasperata non hanno margini per accrescere le condizioni economiche dei lavoratori.

Inoltre, da almeno vent’anni è cambiata la percezione dello status, ossia quel modo di pensare collettivo che faceva preferire il lavoro in negozio, al bar e al ristorante alla fabbrica (così come nei cinquant’anni precedenti il lavoro in fabbrica era lo sbocco moderno per chi scappava dalla alla campagna). Il pensiero di dover lavorare il sabato e la domenica e nei giorni in cui gli altri si divertono è il deterrente peggiore per cercare un posto di lavoro nel terziario. La stessa professione di chef, fino a dieci anni fa di grande impatto mediatico, non sembra più rientrare tra i fenomeni alla moda.

E’ proprio il settore dei pubblici esercizi e dei ristoranti, dove l’età media dei lavoratori è mediamente tra la più bassa, a fare le spese di questa disaffezione per professioni un tempo decisamente più ambite. Complice anche il crollo demografico, nella provincia di Bergamo stimiamo la carenza di circa 6.000 addetti, pari al 22% rispetto a gli occupati (5.200 titolari, familiari e soci e circa 22.000 dipendenti – fonte FIPE). Molte imprese quindi decidono di ridurre i turni, aumentare i giorni di chiusura e limitare le sale per mancanza di personale. Ciò accade nonostante il settore impieghi molto frequentemente, con  il lavoro a chiamata, gli studenti universitari, che in questo modo cercano di sostenere le loro piccole spese e allo stesso tempo formarsi e crescere, oltre a rapportarsi con gli altri, testando e migliorando le proprie qualità relazionali.

Tutti questi fattori negativi e convergenti, dal calo demografico alla ricerca di tempo libero e svago, stanno creando una seria difficoltà al commercio e al turismo e rischiano di inchiodare uno dei settori in crescita nel nostro Paese. Ma cosa fare? Quale compito abbiamo?

Difficile individuare soluzioni valide a priori se non la ricerca a ogni livello di una maggiore capacità di attrazione del personale, di ingaggio, ossia di costruzione della relazione, la cura del benessere del lavoratore e la gratificazione.

Le direzioni delle risorse umane delle grandi imprese sono già da tempo al lavoro per migliorare la relazione con i dipendenti: welfare, premi aziendali, smart working, formazione e possibilità (teorica) di fare carriera. Tutto quanto sembrerebbe, se non alieno, almeno lontano nella stragrande maggioranza delle piccole aziende del commercio e del turismo. Eppure nelle realtà più piccole il punto di partenza cruciale per il cambiamento è proprio la consapevolezza del datore di lavoro. Se lo stile direttivo e la contrapposizione tra titolari e collaboratori non esistono più da anni, nella stragrande maggioranza delle imprese serve comunque un perfezionamento dello stile collaborativo e un grande cambio di passo nella comprensione del cambiamento e nell’accettazione delle esigenze nuove, non certo dei capricci, dei collaboratori.

Se il cambiamento è abbracciato dal datore di lavoro, allora la capacità di reazione della piccola imprese è certamente superiore a quella delle medie e grandi imprese perché nelle prime il titolare è a contatto diretto e lavora- spesso gomito a gomito- con i suoi dipendenti.

Non è però solo una questione di velocità, ma anche di possibilità concrete di accontentare i lavoratori. Nelle grandi aziende, le direzioni del personale sono lontane dai dipendenti e le eccezioni nel trattamento dei collaboratori sono spesso impossibili da stabilire quando i dipendenti sono molti da gestire, mentre il piccolo imprenditore può attuarle con più flessibilità, gestendo ad esempio un turno migliore per la mamma che ha figli più piccoli o per la ragazza che è iscritta a un corso in palestra in palestra. In questo si può tradurre la maggiore attenzione alle esigenze e il contrasto al malessere dei collaboratori, che resta la principale ragioni delle dimissioni.

Tutti noi, a ogni livello, preferiremmo che il mondo del lavoro fosse quello di trent’anni fa, ma così non è e non potrebbe nemmeno esserlo. Serve quindi la flessibilità delle regole, che non significa non lavorare, ma che siano adeguate al cambiamento dei tempi e non rigide come le leggi scritte sulla sacre tavole. Infine servirebbe una gestione oculata dei turni di lavoro che eviti carichi massacranti per gli addetti, perché di persone disponibili a sacrificarsi in tutto per il lavoro ce ne saranno sempre meno.

Le ricerche su questi argomenti convergono nel sostenere che una lettera di dimissione su due non dipenda da fattori economici. Se su questi ultimi ciascun imprenditore deve poter fare i conti con le proprie tasche, sulle altre voci dipende solo da lui e senza spendere di più per trattenere il personale.


Legge di bilancio, una manovra che non brilla per coraggio

Cambiamenti ma senza rottura con il passato in un provvedimento che appare ai più come la solita legge con un articolo e mille commi

La legge di bilancio 2023 stata un’occasione mancata. Per il nuovo Governo per dare un messaggio di novità in linea con il programma elettorale e di creare una discontinuità rispetto alla politica dei precedenti Esecutivi. Mentre Draghi aveva costruito l’obiettivo del suo Governo sulla disponibilità dei fondi del PNRR e quindi sulla necessità di accelerare nelle riforme, il premier Meloni si è dibattuta nell’incombenza di tenere unita la nuova maggioranza e di rendere sostenibile l’azione politica desiderata, problema costante nel passaggio dall’opposizione alla maggioranza di Governo. Il risultato è che l’ultima legge di Bilancio è apparsa ai più come un minestrone già riscaldato molte volte.

Il nuovo Esecutivo ha due grandi attenuanti di non poco conto: l’insediamento nei mesi autunnali che l’ha costretto ad un “tour de force” per evitare l’esercizio provvisorio e la confermata “coperta corta” in un clima di gelida emergenza.

Non solo. Come già avvenuto per i precedenti Governi insediati dopo un rovescio elettorale, in particolare quello giallo verde di cinque anni fa, è mancato tempo per creare nel gruppo di maggioranza quel sistema di competenze necessarie a tradurre in riforme perseguibili i programmi elettorali.

L’ultima clamorosa questione dell’accusa ai benzinai di speculazione sui prezzi della benzina dimostra la cattiva conoscenza del Governo sulle modalità di formazione dei prezzi dei carburanti.

La questione della sanzione per i mancati incassi con pagamento elettronico, annunciata per settimane che sembrava alla rappresentanza un modo nuovo e meno ideologico di affrontare la questione dei pagamenti, è presto rientrata nel nulla di fatto e sparita dai “radar” del Governo.

Alla fine si è in parte osato su certi temi comunque delicati ma senza esagerare: come per la questione del reddito di cittadinanza che per mesi è stato attaccato come elemento nocivo per il lavoro e poi è stato oggetto di un semplice “maquillage” che non ne cambia la natura e nemmeno la sostanza.

Oppure ancora per i voucher del lavoro occasionale, tanto richiesti da imprenditori e familiari che devono gestire punte di lavoro o lavoro occasionale; la legge  ha ampliato la platea dei fruitori e raddoppiato l’importo per beneficiari ma senza spingersi fino al ribaltamento del decreto Gentiloni che nel 2017 ne sancì l’abrogazione.

Infine la quota “103” per la pensione, che sembra la striscia della quota “102” di un anno fa, sempre nella speranza che non prosegua troppo per i malcapitati lavoratori precoci e che risulta ai più troppo poco coraggiosa rispetto alla famosa quota 100 del decreto di quattro anni, che costituì il reale elemento di “rottura” della Legge “Fornero” e dei rapporti con il direttore generale INPS da parte della Lega.

In mezzo poi tante cose, molte di buon senso e apprezzabili ma nessuna in grado di offrire una soluzione diversa ad un problema già noto. Insomma se formalmente è la solita Legge di Bilancio, con un solo articolo ma quasi mille commi, ci è sembrato che non sia emersa una visione del futuro e soprattutto che sia mancato il coraggio.

Da un Governo che ha i numeri per governare ci aspettiamo di più.

 


Addio al professor Pietro Nava. “Per me sei stato la scuola”

Te ne sei andato all’improvviso. Un tragico incidente ti ha strappato dall’affetto dei tuoi cari. Di colpo è calato “il grande freddo” per molti dei migliaia di studenti che hai incrociato e che ti hanno apprezzato.

Come direttore dell’Ascom Confcommercio Bergamo ti ringrazio per quanto, tanto, hai fatto per il nostro territorio. Cinquant’anni, forse più, di insegnamento. Un grande contributo alle imprese, al commercio, turismo e servizi, i settori che rappresento. Perché come ti dicevo e tu annuivi la matematica finanziaria è nata prima con i commercianti e poi con i ragionieri.

Il mio apprezzamento è soprattutto personale. Perché, con un po’ di sano egoismo, sei stato un mio professore. Per me sei la scuola. Ci sono fatti che vanno oltre l’aspetto simbolico e spezzano una catena affettiva. Chiudono unesperienza vissuta ed iniziano a scolorire in un ricordo. La tua scomparsa è uno di questi. Finisce il mio lungo tempo sospeso nel quale ero ancora attaccato alla scuola e mi apre a cercare nuovi appigli.  

Hai fatto la storia della scuola bergamasca e dell’Istituto Vittorio Emanuele II. Esprimevi l’orgoglio e la passione dell’insegnare. Ci credevi per primo e trascinavi gli altri, professori, studenti e genitori. Eri certo della tua missione, del contributo che offrivi alla comunità e al nostro Paese.

Hai formato delle persone. Così è stato, almeno per me, caro professore. Mi hai fatto diventare un uomo e capace di affrontare la vita, nelle mie debolezze e nei miei limiti. Sono stato rimandato da te caro professore, anzi solo da te. Eppure è un grande orgoglio. Peraltro lo meritavo e mi ha fatto anche bene.        

All’apparenza sembravi voler sempre imporre le tue idee. Scherzavamo sul tuo colore politico. Con ironia lo sottolineavi quando nelle combinazioni delle prime 4 lettere prese due alla volta arrivavi all’ultima: “ahimè DC”. Poi gli anni mi hanno fatto capire che il rosso sbiadiva e i tuoi colori erano due, bianco e nero, perché nel tuo agire non c’era spazio per il grigio, che sa troppo di compromesso. Passavi dal 4 all’8, dal 9 al 2 senza preconcetti e pregiudizi. Premiavi solo il merito senza differenze. Questo per rispetto delle persone. Catturavi gli occhi e l’attenzione, bandendo l’orologio (sul davanzale) e lo sbadiglio. In ritardo ho capito che catturavi anche il cuore.  

Eri attento a ciò che ti circondava e credevi nella politica, nelle istituzioni e nella scuola. Ricordo che poco più di cinque anni fa ospitammo in Ascom l’assemblea dell’anniversario dell’Associazione dei matematici di Bergamo, nata decenni fa in Borsa Merci, dove c’era la prima sede dell’Ascom. C’eri tu e un altro mito: il professor Gambarelli dell’Università di Bergamo. La tua riconoscenza per l’ospitalità è stata un grande regalo. Più recentemente ricordo la tua telefonata, a maggio del 2020, quando leggendo dei fatti tragici che vivevano (anche) i commercianti mi chiamasti per chiedermi se stavo bene. Un ottantenne che si preoccupava di una persona molto più giovane. Come un padre per uno dei suoi figli. Perché la catena affettiva con i tuoi studenti tu forse non l’hai mai spezzata.    

Fai buon viaggio caro professor Nava. Con la profonda ammirazione e l’eterna gratitudine di un tuo studente. 

 

Oscar Fusini