Pasta corta e alta ristorazione: il cucchiaio torna di moda

Tubetti, sedanini, conchiglie eliche, maccheroncini tornano a farsi spazio tra i formati più utilizzati e conosciuti. Perché prendere la cucchiaiata di pasta ben condita è assolutamente più goloso.

Frequentando ristoranti e cucine professionali è stato facile osservare come la scelta del formato di pasta da proporre e da utilizzare per i propri piatti sia assolutamente limitata. Nonostante i formati di pasta lunga e corta siano davvero numerosi, la ristorazione di ricerca e non solo propone in prevalenza formati di pasta secca come spaghetti o linguine per quel che riguarda la pasta lunga, mentre per quanto riguarda la pasta corta, prevalgono paccheri, mezzi paccheri, calamarata e fusilli. Tutta pasta liscia, in genere artigianale e bella ruvida, che tiene bene la cottura e anche il condimento. Non è un segreto che in Italia il formato di pasta più apprezzato siano gli spaghetti e, di conseguenza, sia anche il formato più proposto. Ma il mondo della pasta secca merita di più; e cioè che anche altri formati siano valorizzati per bene. Le difficoltà da superare sono tra le più diverse, per lo più legati all’immaginario, come ad esempio il percepire erroneamente alcuni formati come industriali e di bassa qualità. Ma non è così, perché il mondo della pasta secca artigianale propone ormai prodotti di qualità eccelsa, perfetti per la preparazione di piatti tutti da godere.

Ecco che alcuni formati di pasta secca corta che stanno tornando alla ribalta, come i fusilli e i fusilloni, ormai presenti in tantissimi menu.

Si iniziano a vedere nelle carte di alcuni ristoranti anche formati inusuali, perfetti per la preparazione di primi piatti asciutti o brodosi, entrambi da mangiare con il cucchiaio, con la possibilità di gustarli nella loro interezza. Spesso lo spaghetto o il pacchero, seppur ben condito e mantecato, non permette di gustare il piatto con tutti i suoi elementi in maniera facile e immediata; mentre o permettono formati come mezze maniche, tubetti o conchiglie. Pioniere in questo, è lo chef Riccardo Camanini, con il suo ormai celebre piatto di rigatoni cacio e pepe in vescica, ove gli ingredienti vengono fatti cuocere nella vescica di maiale, regalando una cremosità e una mantecatura senza uguali. Sono comunque molti gli chef che stanno re-introducendo i formati di pasta secca corta tra i più diversi, eccezion fatta per le penne che, probabilmente piacciono ancora poco.

I maccheroncini con ragù di quaglia di Filippo Moriggi

I maccheroni sono una pasta che tutti conosciamo; uno dei simboli della cultura gastronomica italiana. La sua forma a tubo lascia penetrare il condimento al suo interno rendendo così il formato perfetto per accompagnare sughi belli cremosi e succulenti, come quello scelto da Filippo Moriggi, chef del ristorante Locanda Viola di Pagazzano (Bg). «Io da sempre scelgo la pasta secca del pastificio Regina dei Sibillini, un pastificio piccolo e artigianale marchigiano, che a me piace molto, li ho conosciuti durante la mia esperienza lavorativa al ristorante Vespasia di Norcia: una pasta che tiene la cottura in modo perfetto, buona, dalla consistenza unica» racconta lo chef. Le quagliette sono quelle selezionate dalla macelleria Cazzaniga di Canonica d’Adda (Bg). Una volta arrivate in cucina vengono pulite, disossate per bene, tagliate a tocchetti e condite con olio extravergine di oliva, sale e pepe. A parte, viene preparato un soffritto a cui viene unito del concentrato di pomodoro, del vino bianco, del Marsala e del fondo di vitello. In ultimo le carni di quaglia, che vengono poi fatte cuocere per circa un paio di ore. Il risultato? Un ragù saporito, in cui ben si percepisce la quaglia, che manteca alla perfezione i maccheroni cotti in acqua bollente. Alla base del piatto una crema di peperone giallo e, per finire, una fonduta di Castelmagno DOP.

Le conchiglie di Filippo Cammarata, metafora di casa

Le conchiglie sono un formato che “sa di casa”, perfetto per accompagnare qualsiasi condimento. Filippo Cammarata, chef dell’Osteria Tre Gobbi di Bergamo, con questo piatto racconta le sue origini, utilizzando condimenti che rappresentano la Sicilia, regione da cui proviene la sua famiglia. Un primo piatto rotondo, goloso, che ricorda, ma solo per il formato, quel piatto di pasta per il pranzo al ritorno da scuola. Le conchiglie sono cotte in acqua bollente e servite tiepide. Accolgono la golosa crema a base di pistacchio e fico d’India. E poi le vongole, mollusco tra i simboli della cucina di mare, appena scottate fino alla loro completa apertura, che si mantengono morbide e gustose. Ecco le conchiglie tiepide, con vongole, pistacchio e fico d’India: da mangiare con il cucchiaio!

Angelo Bonfitto con le eliche celebra la primavera

Angelo Bonfitto è uno dei giovani chef di cui si sente tanto parlare in questi mesi e che adora nel profondo le paste corte. «Non capisco il motivo per cui le paste corte non vengono quasi mai utilizzate nell’alta ristorazione: sono pratiche, comode da mangiare e anche molto golose» racconta lo chef che, da poche settimane, ha rilevato e riaperto lo storico ristorante Zù a Riva di Solto (Bg), sulla sponda bergamasca del Sebino. Le eliche scelte provengono da Gragnano, sono infatti grosse, dalla superficie bella ruvida e dal morso percepibile. Questo piatto ben rappresenta la mano e la sensibilità di Angelo, che all’interno di una vasta proposta a base di pesce, ha scelto di cucinare anche qualche piatto di terra, tra cui questa pasta servita tiepida e condita con una crema di piselli freschi, dei fagiolini croccanti sott’aceto tagliati a rondelle, limone, erbe e fiori. La primavera è servita, in un piatto caratterizzato dal sapore dolce, con un bel vegetale e una decisa freschezza che ne allunga il piacere.

Marco Stagi e i tubetti al ristretto di vongole e schiuma di champagne

Un piatto all’apparenza molto semplice, ma che ad ogni cucchiaiata riserva delle belle sorprese. La pasta è prodotta artigianalmente e proviene dal pastificio dei Campi di Gragnano: una pasta corta secca bella ruvida, che cuoce lentamente e si mantiene croccante anche alla masticazione. Quando affondiamo il cucchiaio nel piatto le sorprese hanno inizio. «Un piatto in cui la cremosità prevale, un modo per rendere elegante un condimento che se abbinato a uno spaghetto si scomporrebbe, creando difficoltà nel gustarlo. Poi è facile da risottare e si manteca per bene» racconta Marco Stagi, chef di Bolle Restaurant di Lallio (Bg). I tubetti, cotti alcuni minuti in acqua, vengono poi mantecati in acqua di vongole, succo di limone e olio al limone. Si uniscono quindi alle vongole cotte appena, che rimangono belle morbide e succose, e a una brunoise di gambi di costa bianca, che regala un poco di croccantezza e l’aroma vegetale. La pasta viene quindi adagiata sopra una crema al latte con orzo. La composizione del piatto termina con una schiuma di Champagne; il vino viene leggermente ridotto al fine di eliminare la parte alcolica, poi in modo molto creativo viene ossigenato e adagiato sopra la pasta, a coprirne tutta la superficie. La marinità si percepisce per bene e si sposa al meglio con il vegetale della costa. La spinta acida del limone rende il piatto fresco, la dolcezza della crema di latte e orzo lo rende ancora più piacevole al palato; per una pasta cremosa e succulenta.

 

I Tubettoni di Sandro Pittelli e il “suo” Sud

Quando Sandro Pittelli racconta delle materie prime del sud Italia, i suoi occhi si illuminano. Questo perché è letteralmente innamorato delle sue origini e dei prodotti che ne derivano. Li utilizza spesso nella creazione dei piatti nel suo Tentazioni Ristorante a Costa Volpino (Bg), che gestisce con il fratello Giacomo. Sandro non è incline all’inseguire le mode: lui cucina per i suoi ospiti, per regalare una profonda soddisfazione gastronomica. E lo fa anche con questi tubettoni lisci di Gragnano, più piccoli sia in diametro che in lunghezza dei paccheri, da mangiare con il cucchiaio. Alla base del piatto viene messa una crema di fagioli del Pollino, piccoli fagioli bianchi tutelati dal Presidio Slow Food. La pasta, dopo la cottura, viene mantecata in una bisque preparata con gli scarti della triglia di scoglio, i cui filetti vengono aggiunti al piatto sotto forma di bocconcini croccanti: le triglie fresche intere vengono sfilettate, poi tagliate a tocchi, impanate e fritte. Il tocco finale, perfetto a livello gustativo e che aggiunge infinita piacevolezza, è dato dall’aggiunta del finocchietto selvatico in polvere: una sterzata che diverte.


A spizzichi e bocconi: il menù che fa tendenza

Accanto alla gestione del servizio a portate classico, stanno nascendo nuove formule per il pasto al ristorante. Proposte innovative e curiose che attirano l’attenzione dei clienti più esigenti 

Il menù degustazione: c’è chi lo ama e chi lo odia. Questo tra i clienti e i commensali, ma anche tra brigate di cucina e ristoratori. Questo tipo di formula possiede indiscutibilmente dei vantaggi, ma anche degli svantaggi. Ma laddove è proposto come valida alternativa e come percorso tematico tutti gli ospiti vengono sicuramente accontentati. Il menù degustazione può essere un’opportunità per l’ospite più curioso, che avrà così la possibilità di assaggiare buona parte della proposta e avere un quadro di quello che il ristorante serve ai propri clienti. Ma forse la ristorazione si sta spingendo un poco più in là? Non sono infatti ormai così rari i locali in cui viene fatta una proposta composta da un numero di portate a scelta. Ovvio che è necessaria una buona dose di coraggio, perché sicuramente le persone meno curiose non apprezzeranno facilmente la scelta. Sono comunque possibilità da tenere in considerazione, che possono aprire le porte a diverse tipologie di clientela, anche per quei ristoranti che propongono una cucina più classica, ma che vogliono differenziarsi e accogliere anche l’appassionato curioso, che potrebbe aver la voglia di assaggiare più piatti, ma senza l’onere di dover mangiare porzioni normali. In questo senso, sono altrettante le strutture che propongono i propri piatti in mezza porzione. Infine, forse la soluzione più innovativa e contemporanea è quella di proporre tanti piccoli assaggi golosi, senza abbandonare tecnica e lavorazioni complesse, da poter gustare a scelta oppure organizzati in cucina in menù degustazione da più portate. L’approccio alla ristorazione, soprattutto a quella di alta qualità e ricerca, sta cambiando. Si avvicinano sempre più persone molto giovani, che non vanno alla ricerca dell’abbondanza, ma dell’esperienza. Disposti a spendere anche cifre consistenti. Se le generazioni con un’età più alta apprezzano meno questa direzione, non è altrettanto vero per le persone più giovani. Forse questa potrebbe essere un’opportunità per ripensare alcune parti della propria proposta anche per la ristorazione più classica e tradizionale? C’è chi l’ha già fatto, e con soddisfazione!

Bites, a Milano un menu a piccoli morsi

Un piccolo locale, una piccola cucina e tanta soddisfazione. Bites si trova nel cuore di Milano, a pochi passi da Porta Venezia. Un luogo contemporaneo sia per l’ambiente che per la proposta. Andrea Baita e Pietro Zamuner hanno osato, senza fare sconto alcuno, optando per una scelta coraggiosa: quella di stravolgere la consuetudine, soprattutto nella formula. In cucina i due giovani si divertono tra marinature, lavorazioni e cotture alla brace. La carta si compone di tanti piccoli assaggi, che poi così piccoli non sono, almeno nella complessità concettuale con cui ogni piccola portata è pensata e preparata. Tecniche differenti, materie prime tra le più disparate, usi e culture che provengono da ogni parte del mondo. I piatti sono composti al momento e, se la scelta ricade su un menu da sei o dieci portate, vengono serviti con un ritmo ben preciso, anch’esso parte del gioco. Tra le proposte ostriche al burro acido, nori arrosto e olio d’oliva; anguilla alla brace; pollo ripieno con zabaione di miso, fegato grasso; sgombro in saòr. Al Bites puoi assaggiare tutto, in poco tempo, senza appesantirti. Piccoli morsi dalla grande cultura. 

“Fa mia ol fighet”, la tradizione in degustazione

Proporre un menù degustazione della tradizione non è cosa affatto semplice, ma Claudio Rubis alla Staletta di Zogno ci ha provato con “Fa mia ol fighet”: una proposta per chi non sa mai cosa scegliere. Vengono infatti serviti assaggi di alcuni degli antipasti, a seguire alcuni primi, poi i secondi e infine i dolci. Salumi locali (con il salame intero da tagliare a fette: ne mangi quanto ne vuoi!), polpettine, formaggi, le paste fresche e ripiene, e lunghe cotture. Per i più curiosi e goduriosi: un menu da non lasciarsi sfuggire, per assaporare la cucina locale bergamasca a tutto tondo. 

Momento Clu e i suoi cluetti

Lo chef Edo Codalli non è nuovo nel panorama della ristorazione bergamasca, ma con Momento Clu si è messo personalmente in gioco (insieme a due soci, tra cui in sala Marco Cavadini) e ha aperto un ristorantino in un luogo meraviglioso, il Castello di Clanezzo, con una proposta particolare. Il menù si compone di tanti “Cluetti”, tanti assaggi che possono essere gustati nel menu degustazione “Cluettata” dove si può scegliere, per esempio,  tra Kebab di pecora gigante bergamasca, fungo porcino, ravioli di melanzana, cervo marinato, insalata di baccalà. Una cucina essenziale, che in parte pone le basi su una selezione di materie prime agricole locali e non,  interpretate magistralmente dallo chef. Non c’è un menu a portate: ti siedi e assaggi un piatto dopo l’altro. Un’esperienza di gusto e cultura. 

 


Latte di alta qualità, l’oro bianco da riscoprire

Consumato fin da epoche remote, il latte è il liquido alla base dell’alimentazione dei cuccioli dei mammiferi. Un prodotto molto nutriente, che siamo abituati a consumare fin da bambini, intolleranze ed allergie permettendo. Il latte è in grado di fornire al nostro organismo molte sostanze nutrienti di cui abbiamo comunemente bisogno. E’ molto utilizzato tal quale, come bevanda fresca per una merenda genuina, ma anche per la colazione. E’ inoltre elemento base per la preparazione di numerose ricette di cucina, ma anche per la gelateria di alta qualità, contribuendo alla buona riuscita dello stesso E poi, è la materia prima alla base per la produzione del formaggio, grazie alla trasformazione della principale proteina che contiene: la caseina. Essa, in particolari condizioni (di temperatura, di pH e in presenza di un enzima), coagula e passa allo stato gel producendo quello che comunemente chiamiamo cagliata, da cui poi avrà origine il formaggio.

Negli ultimi anni però, complice anche la diffusione della diagnosi legata all’intolleranza al principale zucchero del latte, il lattosio, si è assistito a una parziale demonizzazione dell’alimento, eliminandolo dalla propria dieta o sostituendolo con  bevande, talvolta, industriali.

Ma il latte di qualità esiste e, se consumato in quantità non eccessive, può essere un vero alleato nel mantenere il nostro benessere.

Parlare di latte non è sbagliato. Infatti la legge ci dice che quando non viene segnalato l’animale da cui origina, si fa riferimento al latte vaccino. Ne esistono molti altri, ma meno diffusi e reperibili (anche se oggi l’industria alimentare propone qualsiasi tipologia di latte soprattutto nelle catene della GDO), come il latte di capra, il latte di bufala o quello di asina.

Ebbene, seppur la maggior parte di noi ha come abitudine l’acquisto di latte a lunga conservazione (intero, scremato, parzialmente scremato) che si trova comunemente sullo scaffale del supermercato, esistono filiere di qualità da valorizzare e a cui poter attingere quando si vuole consumare un prodotto diverso.

Attenzione: non bisogna confondere il latte fresco con il latte crudo. Il latte fresco subisce un trattamento termico di pastorizzazione che ha lo scopo di eliminare la flora batterica (anche quella positiva, non solo quella eventualmente patogena) dal liquido. Il latte crudo non subisce invece alcun trattamento termico preventivo, ma una filtrazione prima di essere messo in commercio.

Latte crudo: i distributori e l’utilizzo professionale

Una decina di anni fa circa la filiera del latte ha tirato un sospiro di sollievo. Sono infatti state installate numerose “casette del latte” ove è possibile acquistare il latte crudo, munto da poche ore seguendo rigide regole in fatto di igiene. Come è ovvio che sia, il latte crudo possiede un grande numero di microrganismi che fanno bene alla nostra salute, ma ne può avere anche di patogeni, seppur molto controllato. Ne è sconsigliato il consumo infatti alle persone immunodepresse e fragili, se non previa bollitura. Ma a questo prodotto è stata fatta una vera e propria guerra, tanto da mettere in guardia le persone verso il suo consumo. Ovvio che la vendita di latte crudo diretta al consumatore ad un prezzo equo per l’allevatore, ma non eccessivo per il consumatore, si è rivelata un vero successo nell’immediato, ma ha creato mal contenti nell’industria agroalimentare. La potente campagna diffamatoria verso l’utilizzo di latte crudo (“fa male”) ha sfiduciato i consumatori e in circa 10 anni la presenza dei distributori ha subito una forte flessione in negativo. Certo è che, secondo le indicazioni anche del Ministero della Salute, il latte crudo va consumato previa bollitura. Altrettanto sicuro è anche che il rischio zero, consumando latte crudo, non esiste, soprattutto per bambini, anziani e persone fragili. L’utilizzo del latte crudo in pasticceria o gelateria potrebbe essere potenzialmente interessante, anche se si potrebbe incorrere in diverse problematiche. La prima riguarda l’obbligatorietà della pastorizzazione previo utilizzo e l’effettiva autorizzazione da parte degli organi preposti al controllo. La seconda riguarda le sue caratteristiche, in termini di omogeneizzazione dei grassi e quantità di proteine: non sono stabili nel tempo, ma variano in funzione della stagione e dell’alimentazione degli animali. Infine, l’aroma. Non siamo più abituati a quei sentori di erbaceo tipici del latte crudo talvolta anche spinti; il gelato cambia letteralmente aroma, andandosi a caratterizzare in maniera importante. Utilizzare latte crudo in un laboratorio professionale è quindi una scelta importante, che richiede attenzioni particolari per la sua lavorazione.

Latte nobile, Salvaderi e latte fieno: filiere di qualità

Sono molte e diverse le aziende produttrici di latte che hanno deciso di investire risorse per proporre un latte riconoscibile e di alta qualità, al di fuori delle logiche legate alla vendita alle grandi industrie alimentari. Si tratta di aziende che hanno deciso di valorizzare il proprio prodotto, il latte, per il suo consumo tal quale. Un percorso che ha richiesto il ripensamento di intere filiere, dalla scelta della razza bovina, fino al suo allevamento, alla sua alimentazione. E’ il caso dell’azienda agricola Salvaderi, ubicata in provincia di Lodi, che ha scelto di valorizzare il proprio latte, prodotto da vacche che vivono libere al pascolo di razza Guernsey, che ha la caratteristica di possedere la proteina caseina A2A2 che non causa gonfiori e pesantezza durante il suo consumo. Il latte viene pastorizzato il minimo indispensabile per essere poi consumato senza trattamento termico alcuno. Latte nobile è invece un marchio di alta qualità che nasce dalla volontà di dare una risposta alla produzione industriale, orientata al produrre latte al minor costo possibile. E’ un progetto firmato da ANFoSC, l’Associazione nazionale formaggi sotto il cielo. Il marchio Latte Nobile identifica quindi un modello produttivo con relativo disciplinare; punta a garantire agli animali un ambiente confortevole, un’alimentazione a base di erbe e fieno con l’utilizzo di pochi mangimi naturalmente privi di OGM e insilati. E poi, dall’Alto Adige, arriva un altro marchio di qualità. E’ latte fieno, registrato anche come STG (Specialità Tradizionale Garantita) dal 2016. Un latte prodotto da animali allevati secondo alti standard di benessere e che si nutrono solo con fieno, cereali ed erba, senza integratori e mangimi fermentati. La sua produzione è disciplinata da un regolamento specifico. La produzione coinvolge oltre 4500 aziende con una presenza media di circa 15 capi ognuna.


Il sentiero dei caprini: un gustoso itinerario tra le valli orobiche

Alla scoperta delle produzioni di formaggio di capra e non solo di quattro giovani allevatori della bassa Valle Brembana e Val Brembilla 

L’allevamento della capra ha avuto un forte successo negli ultimi decenni. Il motivo è da ricercare nel fatto che il consumatore ha imparato ad apprezzare sempre più il formaggio di capra per le sue caratteristiche aromatiche e gustative, ma anche per questioni dietetiche, a cui sempre più persone sono molto attente. Ma attenzione, per prima cosa è importante sfatare alcuni miti. Il latte di capra ha il lattosio. Come per i formaggi vaccini, la lunga stagionatura porta a una riduzione dello stesso, fino alla sua sparizione, ma come tutto il latte, anche quello di capra contiene lo zucchero. E contiene grassi. Anzi, ha spesso un contenuto di grassi maggiore rispetto al vaccino, ma semplificando al massimo possiamo affermare che hanno una struttura meno complessa e quindi il nostro organismo li assimila più facilmente.
Infine, il caprino che si trova comunemente sui banchi dei supermercati è un formaggio fresco prodotto a partire da latte vaccino con una coagulazione acida (e non presamica, quindi non viene utilizzato in prevalenza caglio animale). È  proprio questa lavorazione che regala al famoso caprino le sue caratteristiche. Se di capra, per la legge, deve essere specificato in etichetta. Sono tanti i giovani e le donne che si sono avvicinate all’allevamento di capre. Sono animali più piccoli, che necessitano di spazi più contenuti, e sono più gestibili, in termini sempre di dimensione dell’animale. E poi, c’è stato un notevole balzo in avanti per quanto riguarda la qualità dei formaggi prodotti. Sono sempre più le tecniche di caseificazione utilizzate per valorizzare questo latte, ma non solo.
La provincia di Bergamo conta moltissimi allevatori di capra che trasformano il loro latte in proprio. In particolare, abbiamo pensato a un piccolo itinerario tra la bassa Valle Brembana e la Val Brembilla. Quattro allevatori che con dedizione lavorano ogni giorno per produrre autentici gioielli caseari.

 

A Ponteranica, i caprini creativi

Una piccola azienda agricola nata a Ponteranica dalla grande passione di Federica che, durante gli studi universitari, ha deciso di avviare da zero un piccolo allevamento di capre di razza Saanen. Era il 2012 e oggi, dopo circa 9 anni, l’azienda agricola Val del Fich conta ben 60 capre in lattazione. L’azienda è tutta al femminile e l’attività viene svolta da Federica coadiuvata dalla mamma. Il latte prodotto dalle capre viene tutto lavorato a crudo in azienda, con la produzione di formaggi di vario tipo, poi le ricotte, lo yogurt e golosi budini, ma anche gustose conserve, come i caprini sott’olio, proposti in diverse versioni.
«Mia mamma ha passione per le confetture – racconta Federica – ne produciamo di particolari da abbinare ai nostri formaggi». Nel periodo primaverile la proposta spazia anche verso le confetture di fiori. Curiosa è, ad esempio, la confettura di primule, prodotta sempre in azienda. E poi, le creme spalmabili, dalla classica bianca, fino a quella alle erbe e al peperoncino. Tra le novità, la crema spiritosa, a base di peperoncino, peperone, pomodoro, erba cipollina e prezzemolo, perfetta per un aperitivo. E ancora, lo sciroppo di fiori di sambuco, da diluire, per una bevanda dissetante. Insomma, la creatività non ha confini. I formaggi e le confetture sono acquistabili da lunedì al sabato dalle 16 alle 18 allo spaccio in azienda. Poi il sabato mattina al mercato agricolo del Parco dei Colli. Inoltre, da sempre, in azienda si effettuano le consegne a domicilio a Bergamo e paesi limitrofi gratuitamente.

 

A Zogno, un giovane ambizioso

Prima di risalire la valle, merita una tappa l’azienda agricola Cristian Locatelli. Siamo a Zogno e Cristian non è un giovane qualsiasi. Classe 1998, ha deciso con coraggio di assecondare i suoi sogni e dar vita all’omonima azienda agricola. Sono ormai alcuni anni che in Valle Brembana alleva i suoi animali, con l’aiuto del papà. Una scelta autonoma la sua: Cristian, infatti, non è nato in una famiglia di agricoltori e non aveva esperienze di questo tipo alle spalle. Il suo piccolo caseificio si trova sulle rive del fiume Brembo, in una bellissima oasi naturale che in zona viene chiamata proprio Bremp. Per raggiungere lo spaccio bisogna fare una piccola passeggiata a piedi, parcheggiando l’auto prima di un piccolo ponte pedonale.
Attualmente alleva 40 capre e 20 vacche per la produzione del latte che trasforma a crudo nel piccolo caseificio aziendale. Qui produce diverse tipologie di formaggio: dal misto capra, a base di latte vaccino e caprino. È un formaggio a pasta semi-dura, dalla grande pezzatura e adatto alla stagionatura. E poi i caprini freschi, le croste fiorite, gli stracchini e le formaggelle sempre di capra. Non manca anche lo yogurt (sia vaccino che caprino), ma anche le panne cotte con frutti di bosco, caramello e cioccolato. Merita particolare menzione (anche se è un formaggio a base di latte vaccino) lo strachì del bremp: una lavorazione a doppia pasta con erborinatura naturale, dai sapori intensi e l’aroma complesso.

 

A Sottocamorone, l’evoluzione continua

Nicolò Marchetti ha una vera passione per i suoi animali. Attualmente alleva oltre 100 capre di razza Camosciata delle Alpi in val Brembilla, per la precisione nella frazione Sotto Camorone. Lui in stalla e l’amico Lorenzo Cremaschi in caseificio lavorano ogni giorno latte di capra crudo per la produzione di stracchini, formaggelle, caprini freschi, croste fiorite e ricotta. Gli animali sono alimentati a fieno e, nel periodo primaverile ed estivo, erba fresca, falciata due volte al giorno. Questo aspetto, unito alla lavorazione a latte crudo, garantisce una complessità aromatica unica. I formaggi possono essere acquistati direttamente in azienda nel piccolo spaccio annesso al caseificio.

 

In Val Brembilla, di generazione in generazione

Proseguendo in Val Brembilla, superata la frazione Sottocamorone, si arriva a una deviazione che prosegue fino all’abitato di Laxolo e poi scende verso Berbenno. Da qui, bisogna prendere la strada che prosegue verso Blello per arrivare all’Azienda Agricola Salvi. Oggi sono le giovani sorelle Giulia e Alessia che proseguono c on l’attività di famiglia, iniziata con nonno Luigi, poi passata nelle mani di papà Domenico, che oggi è aiutato dalle due figlie, rispettivamente Giulia, classe 1996, e Alessia, classe 2001.
«Avevamo solo vacche, poi nel 2014 mio papà ha deciso di iniziare ad introdurre le capre – racconta Giulia – perché all’epoca vendevamo solo il latte, senza trasformarlo». Da un paio di anni la famiglia ha deciso di dedicarsi anche alla trasformazione e al momento Alessia, neodiplomata al liceo linguistico, svolge i lavori di caseificazione. Giulia, studentessa di veterinaria, si dedica invece all’allevamento e alla commercializzazione dei prodotti. Oltre alle vacche, oggi in azienda sono allevate 80 capre di razza Camosciate delle Alpi tutte in lattazione. Vengono prodotti i classici a base di capra: dai caprini freschi, alle croste fiorite, gli stracchini di capra, le formaggelle proposte a diverse stagionature, lo yogurt e il misto vacca capra. Tutti i prodotti (compresi i formaggi a base di latte vaccino), si possono acquistare presso lo spaccio aziendale.

 


Ogni pesce ha la sua stagione: dall’aguglia al grongo ecco gli “sconosciuti” dell’estate

Andiamo alla scoperta delle specie meno note da portare in tavola o da inserire nella carta 

Esistono davvero tantissime specie ittiche nei nostri mari, ma abitualmente ne scegliamo e utilizziamo solo una piccolissima parte. Come per la frutta e per la verdura, anche il pesce ha una sua stagionalità che varia in relazione al proprio ciclo riproduttivo e alle condizioni ambientali. Sono molti i motivi che sostengono la tesi per cui è importante  tener ben presente la sua stagionalità; in primis ne va della sostenibilità stessa dell’attività di pesca, poi la salvaguardia della biodiversità. Scegliere un pesce di stagione non solo permette di portare in tavola un prodotto fresco, possibilmente pescato nei nostri mari, ma garantisce anche un rispetto maggiore per le specie ittiche e l’ecosistema.

Siamo spesso ingannati dal fatto che le specie più utilizzate in cucina siano sempre a nostra disposizione sui banchi del mercato. Se è vero che ci sono pesci disponibili tutto l’anno, è però altrettanto vero che non è così per tutti. Iniziamo con lo sfatare il primo luogo comune: la maggiore disponibilità e variabilità del pesce l’abbiamo nel periodo invernale e non, come molti pensano, nel periodo estivo. Ad esempio una falsa credenza riguarda un mollusco che tutti conosciamo: il polpo. Ebbene è una specie invernale. Questa è una prospettiva diversa per osservare e percepire il mondo ittico e che può essere una valida guida nella scelta dei piatti da portare in tavola o da inserire nella nostra carta.

Altra regola generale da seguire consiste nel preferire specie a ciclo vitale breve, in altri termini, che non abbiano bisogno di anni per il loro accrescimento. Ad esempio il merluzzo, pesce che troviamo ovunque, necessita di molti anni per il suo accrescimento ( sviluppo/crescita). La notevole richiesta del mercato lo sta predisponendo al rischio estinzione. A prescindere dalla stagionalità, sono molte le attenzioni necessarie al fine di rendere il consumo di pesce sempre più sostenibile.

In inverno il pesce abbonda…ma in estate?

La stagione invernale, come suggerito prima, è il periodo dell’anno durante la quale la disponibilità di pesce (anche di molluschi e crostacei), in termini di varietà, è maggiore. È il periodo perfetto per il polpo, per le saporite canocchie, la seppia, le vongole veraci, totani, ma anche il rombo chiodato o la triglia.
Mentre d’estate spopolano gallinelle, lampughe, orate, ricciole, sogliole o spigola. Poi, ci sono pesci disponibili tutto l’anno, o quasi, come l’acciuga, la sardina, la pescatrice, il nasello, gli sgombri, lo scorfano o il rombo. Ecco, questi solo alcuni dei pesci che comunemente troviamo sul mercato, ma ne esistono anche di meno conosciuti o, utilizzati meno, perché considerati pesci poveri di bassa qualità gustativa. Pesci spesso molto interessanti da proporre al ristorante o anche sulla tavola di casa. Pesci nostrani, dal costo minore, che potrebbero essere valorizzati meglio, al fine di ampliare la proposta ed educare anche il consumatore del piatto finale.

Alla scoperta dei meno conosciuti

Vista l’enorme biodiversità che caratterizza le specie ittiche, viene abbastanza difficile parlare dei pesci nostrani poco conosciuti e farne un elenco preciso. Sono davvero tantissimi e, per ognuno, potremmo dire di tutto e di più. Sicuramente non sono pesci facilissimi da trovare, ma per l’estate il consiglio è quello di provare ad aprirci un poco a questo mondo, utilizzando anche pesci poveri, nostrani, che spesso non valorizziamo. Tra i più facili da trovare, sicuramente c’è lo sgombro, un pesce azzurro dalle qualità nutritive eccezionali. Le sue carni sono molto saporite e il suo costo è davvero contenuto. Se ne può facilmente trovare di fresco tutto l’anno, pescato in Italia. E poi c’è l’aguglia, un pesce pescato nel Mar Mediterraneo tutto l’anno; dalla forma affusolata, è un pesce azzurro dalle carni molto saporite.

Anche la Lampuga è un pesce molto interessante e poco conosciuto di origine tropicale, ma a causa dell’innalzamento delle temperature, ormai popola le acque del mediterraneo. La particolarità di questo pesce è la sua ostilità alla cattura, tanto che alcuni pescatori siciliani mettono delle foglie di palma sulla superficie dell’acqua per favorirne la pesca (il pesce si ripara all’ombra delle foglie). E poi, ancora, il pesce sciabola, molto utilizzato nella cucina messinese: il nome deriva dalla sua forma ed è perfetto preparato gratinato, ma anche fritto o a beccafico. Tra gli anguilliformi, grongo e murena hanno carni grasse, molto buone, anche se ricche di spine. Sono molto utilizzate nei sughi, nei brodetti, ma anche fritte.

Altro pesce economico e facilissimo invece da pulire è il sugarello: è un pesce che si pesca nel periodo estivo, perfetto da utilizzare in cucina, ma come gli altri pesci nostrani, davvero poco conosciuto. In generale, anche le sardine, ma anche lo zerro, il pesce castagna e molti altri specie ittiche che vivono bene nei nostri mari e sono pescate quasi tutto l’anno. Sono specie che hanno una velocità di accrescimento molto rapida e un ciclo riproduttivo breve. Non solo, le loro carni hanno spesso caratteristiche nutritive eccezionali a fronte del loro basso costo.
La prossima volta che vi trovate davanti al banco del pesce, osate, assaggiateli. Prima di scegliere specie come salmone, pesce spada o altri pesci allevati (spesso in condizioni abbastanza estreme che conferiscono alle carni qualità nutrizionali e gustative opinabili), pensate all’immensa disponibilità di pesce povero nostrano che il Mar Mediterraneo ci mette a disposizione: pesce pescato, fresco e dalle caratteristiche organolettiche superlative. A tutela della sostenibilità ambientale della pesca, ma anche della sua economia.

Le zone di pesca

Leggere l’etichetta è importante tanto quanto saper comprendere ciò che ci viene comunicato attraverso essa. Considerando il pescato e non il pesce proveniente da allevamento, è sempre indicata la zona di pesca attraverso l’utilizzo di alcune sigle. Questo è importante per aver maggiore consapevolezza rispetto alla provenienza del pesce che metteremo sulla nostra tavola. La mappa mondiale è divisa in diverse zone di pesca contraddistinte da un numero ben preciso. Le zone più vicine all’Italia, sono il Mar Mediterraneo, caratterizzato dall’essere contraddistinto come zona FAO 37 (che comprende anche le sottozone 37.1, 37.2 e 37.3, escluso il 37.4 che corrisponde al mar Nero), e l’Atlantico Nord-Orientale, contraddistinto come zona FAO 27. Ci sono zone Fao più o meno inquinate e la buona notizia è che la 37, ovvero quella dell’area del Mar Mediterraneo, è considerata la meno inquinata. Il consiglio è inoltre di evitare di acquistare pesce che arrivi dalle zone Fao 61, 67 e 71, altamente inquinate a causa del disastro nucleare di Fukushima avvenuto l’11 marzo del 2011.


Aglio orsino, un’erba spontanea sempre più amata in cucina 

Il suo aroma particolare lo rende perfetto nella preparazione di moltissime ricette

Sarà per l’aroma che ricorda l’aglio, sarà perché cresce facilmente in molte zone della penisola italiana, sarà che è facile da riconoscere, raccogliere e lavorare, ma l’aglio orsino sta avendo un grande successo tra cuochi e appassionati. 

Cosa è e dove si raccoglie

L’aglio orsino non è nient’altro che una spontanea che cresce bene nei boschi di tutta Italia: la nostra provincia ne è piena, soprattutto in concomitanza dei torrenti e dei corsi d’acqua, dove si creano zone vallive con acqua piovana stagnante. Le zone umide sono infatti quelle perfette per la sua crescita e il suo sviluppo. Passeggiando tra i boschi, quando la si incontra, si viene subito avvolti dal suo piacevole profumo, un po’ come avviene con l’erba cipollina.
Le foglie sono larghe e lanceolate, dalla consistenza carnosa e dal colore verde scuro lucente. Si riconoscono molto facilmente perché crescono fitte sul terreno senza lasciare spazio ad altre erbe e, quando si spezzano, rilasciano il piacevole sentore. Per il primo mese le foglie sono soggette a un rapido sviluppo, poi compaiono i bulbi che danno vita a l’infiorescenza. I fiori, piccoli e bianchi, sono perfetti per decorare e guarnire i piatti. Entrambe le parti possono essere utilizzate in cucina (così come il bulbo): oltre all’aroma, le parti fogliari presentano caratteristiche gustative molto simili all’aglio, senza però avere l’inconveniente della difficile digestione. 

È una delle prime specie aromatiche a comparire e già dalla prima metà di marzo si possono osservare le prime foglie spuntare dal terreno e, pian piano, coprire il terreno circostante. La fioritura invece avviene più tardi, verso la prima metà di aprile. Ci sono anche diverse aziende agricole dedite alla coltivazione delle erbe spontanee che stanno iniziando a coltivarlo, al fine di trasformarlo in conserva e renderlo disponibile così tutto l’anno. La sua raccolta è molto semplice: basta tagliare le foglie alla base e pulirle bene prima di lavorarle. 

 

I principali utilizzi in cucina 

Sono davvero molte le ricette che è possibile valorizzare attraverso il corretto utilizzo di questa erba spontanea, sia a crudo che cotto. Le sue foglie, ma anche i suoi fiori, si possono utilizzare a crudo, ad esempio, per guarnire un’insalata primaverile, ma anche per aromatizzare il burro da utilizzare in abbinamento a carni e pesci, specialmente dopo la cottura sulla griglia. Si prepara lavorando il burro con uno sbattitore elettrico e, successivamente, bisogna sminuzzare la foglia incorporandola al composto che va trasferito su un foglio di carta da forno, dandogli la forma desiderata. Si conserva in frigorifero e lo si utilizza tagliandone un pezzettino alla volta, secondo necessità: è perfetto, ad esempio, in abbinamento a una bistecca di manzo cotta sulla brace, ma anche a una braciola di maiale oppure a un branzino appena grigliato. È possibile anche insaporire una minestra di verdure, una zuppa oppure una vellutata. Ma anche saltato in padella con fresche mazzancolle dei nostri mari. Le foglie di aglio orsino, precedentemente cotte, sono perfette anche per guarnire la frittata, ma anche una torta salata o delle polpette. 

Ma proviamo a pensarlo anche come ingrediente in un risotto, in abbinamento a un formaggio erborinato o ben stagionato, ma anche a uno stracchino stagionato a dovere, dove gli aromi dati dalla proteolisi spinta ben si amalgamano a quello dell’erba. Oltre all’abbinamento con il formaggio, è perfetto anche quello con insaccati e salumi grassi, come una buona salsiccia artigianale oppure la pancetta croccante. La foglia, essendo resistente, è ottima anche per essere utilizzata per la preparazione di gustosi involtini, utilizzando le foglie più grandi che, dopo essere state sbollentate pochi minuti in acqua, sono da disporre a coppie formando una croce, pronte per essere farcite, poi ripiegate, legate e cotte a piacere. Infine, anche l’uovo vuole la sua parte: per un piatto rustico una ricetta di gran gusto potrebbe essere la polenta abbrustolita, con un ovetto perfetto (cotto a bassa temperatura, lasciando il tuorlo liquido) e un poco di aglio orsino, in crema o tagliato a listarelle. 

Il pesto di aglio orsino e la crema 

La pratica comune per l’utilizzo di quest’erba spontanea in cucina prevede la sua riduzione in pesto o crema. La procedura è molto semplice e può variare in basi ai gusti personali. Dopo aver raccolto le foglie fresche e averle mondate per bene, sono da pestare o tritare al frullatore con la frutta secca scelta. A differenza del basilico, le foglie di aglio orsino sono meno delicate e non anneriscono, anche se le temperature si alzano durante la lavorazione. È possibile utilizzare mandorle, ma anche pinoli, nocciole oppure noci.
Prima di procedere alla lavorazione delle foglie, è bene tritare la frutta secca che grazie al rilascio degli oli renderà il processo migliore. Infine, è necessario aggiungere abbondante formaggio grattugiato, come del Grana Padano Dop oppure del pecorino, ancora più saporito e aromatico. In questo modo andremo a ridurre la leggera pungenza della crema, rendendola davvero piacevole, soprattutto se abbinata a prodotti grassi, in grado di “arrotondare” e smorzare un po’ le caratteristiche gustative dell’erba spontanea. 

In Val Brembana una linea di conserve dedicate all’aglio orsino 

Dal 2012 in Valle Brembana opera l’azienda agricola Della Fara, nata da un’idea di Italo Della Fara, imprenditore innamorato delle erbe spontanee che ha iniziato il recupero di un piccolo appezzamento a San Giovanni Bianco e si è subito dedicato alla coltivazione del paruch, una spontanea molto diffusa sulle Orobie e notoriamente utilizzata in cucina. Oggi l’azienda ha investito nella coltivazione dell’aglio orsino e nella sua lavorazione. La spontanea, dopo essere stata raccolta, viene trasformata in due conserve, la crema di aglio orsino e l’arrabbiato: un condimento a base di aglio orsino, con l’aggiunta di pomodoro e peperoncino, perfetto per condire una pasta, ma anche per crostini e bruschette. Infine, la conserva leggermente piccante è stata utilizzata anche per la produzione di golosi grissini aromatizzati. 

 

Idee, abbinamenti e ricette

Il risotto con aglio orsino, lumache e arancia

Una ricetta dello chef Edo Codalli della cascina Belvedì di Ubiale Clanezzo unisce l’aromaticità dell’aglio orsino alle lumache trifolate e all’acidità dell’arancia. Per prima cosa è necessario preparare la crema con le foglie di aglio orsino, frullandole con del ghiaccio, un pizzico di sale e poco pepe. Nel mentre, si prepara il brodo per la cottura del riso a base di cipolla e i gambi delle foglie dell’aglio orsino. Quindi è il momento della preparazione del risotto, partendo dalla sua tostatura. Successivamente è bene sfumare con del vino bianco e procedere alla consueta cottura con il brodo preparato. A metà cottura si aggiunge la crema e, alla fine, si manteca normalmente con burro e abbondante formaggio. Al piatto si aggiungono le lumache precedentemente stufate in padella, un poco di polvere di porcini essiccati, della paprika e qualche cucchiaino di marmellata di arancia. In alternativa è possibile utilizzare semplicemente le sue scorze. Una ricetta che valorizza a spontanea e la rende elemento essenziale al fine di dare ulteriore valore a un “semplice”, ma non banale, risotto alle lumache. 

Cannelloni al farro, cime di rapa, patata e crema aglio orsino

Questa è la proposta vegan dello chef Francesco Locatelli, dell’agriturismo Polisena. I cannelloni sono preparati a partire da una pasta fresca a base di farro al 100% che permette di ottenere una sfoglia rustica che ben si abbina alle caratteristiche gustative dell’aglio orsino. Una volta preparata la pasta, unendo farina, acqua e un cucchiaino di curcuma, è necessario lasciarla riposare in frigorifero, per poi tirarla e ricavarne dei rettangoli della dimensione di 16 cm x10 cm. La pasta va poi sbollentata e fatta raffreddare in acqua e ghiaccio, asciugandola bene. Il cannellone è pronto per essere farcito con un ripieno a base di cime di rapa, patata cotta a vapore e successivamente schiacciata. Le cime vanno tagliate molto fini a coltello e saltate a temperatura medio alta in una padella. Una volta freddi vanno amalgamati con l’aggiunta della buccia grattugiata di mezzo limone, olio e un pizzico di sale. Per la crema, bisogna sbollentare le foglie, poi raffreddarle e tritarle con l’aggiunta di poco olio. Quindi passare i cannelloni in forno, spolverandoli con della mandorla tostata e olio di oliva extravergine. Quindi infornare per 10 minuti a 170°C. Da servire sulla crema di aglio orsino e da guarnire con le fogliette delle cime di rapa, erbette e fiori a piacere.

E sulla pizza è un perfetto alleato per una proposta fuori dagli schemi

Anche il condimento per la pizza può avere la sua stagionalità. Al fianco dei condimenti classici, sono sempre più i locali che propongono ricette con ingredienti stagionali, giocando sugli impasti ma anche su cotture, forme e colori. Ecco che le erbe spontanee possono quindi essere alleate vincenti quando si vuole proporre qualcosa di diverso. Il formatore e tecnico del settore pizzeria Pietro Tallarini, professionista presso l’azienda Laura Catering, ha pensato ad abbinamenti particolari partendo da una base pizza preparata con farina multi cereale: una base rustica che ben si presta a sostenere l’aroma intensa dell’aglio orsino. Ad esempio, condita con mozzarella fior di latte in cottura e poi farcita con lo stracchino del monte Bronzone, il pesto di aglio orsino e fiori di pancetta arrotolata. Oppure una base di focaccia rustica farcita con ingredienti a crudo: una fettina di burrata fresca, il pesto di aglio orsino, l’acciuga del Mar Cantabrico e un pomodorino semi dry. Infine, Pietro ha pensato anche a una ricetta tutta primaverile e estiva, a base di asparagi, uova, mozzarella, crema di aglio orsino tutto messo in cottura e – per finire – una polvere di bacon croccante.

 


Dessert ma non solo: in cucina è tempo di riscoprire le ciliegie     

Frutti belli da vedere ma anche preziosi alleati in cucina. E non solo per i dessert                      

Comporre una ricetta equilibrata in fatto di sapori e aromi non è cosa banale. Esistono alcune regole di base che permettono di abbinare diverse materie prime senza che le loro caratteristiche gustative si annullino a vicenda o, peggio, regalino sensazioni spiacevoli al palato. Una delle regole per effettuare abbinamenti corretti si basa sul fatto che si possono avvicinare alimenti con caratteristiche simili, quindi dolce con dolce ad esempio, ma anche per contrasto. Inoltre, il gusto acido è importante per bilanciare l’eccessiva rotondità, che potrebbe rendere il consumo del piatto quasi stucchevole.

Ecco perché la frutta, con il suo sapore dolce, si abbina bene a prodotti ad esempio sapidi, e la sua naturale acidità è perfetta, ad esempio, con ingredienti grassi come la carne di maiale. Pensando alla frutta spiccano le ciliegie che, per loro natura dolci e acidule, possono essere ben abbinate ai salumi preparati con carne suina come il prosciutto crudo, in maniera molto simile al più classico dei matrimoni: quello con il melone (un vero retaggio della cucina galenica). Oppure, sono perfette da utilizzare per un goloso piatto con formaggio tipo grana o un Quartirolo lombardo Dop, con le noci, per dare la giusta croccantezza, o un’insalata verde come la Soncino: tutti esempi di come potrebbero essere utilizzate a crudo.
E poi, ancora, in unione alle carni specie se bianche (pollo, tacchino e coniglio) o maiale: è infatti possibile preparare una composta senza zucchero in cui cuocere le carni, ma anche per accompagnarle. Meglio se si utilizzano miste, creando un mix tra ciliegie e amarene, per enfatizzare la freschezza data dalla spiccata acidità dell’amarena.


In alternativa è perfetta anche un’altra componente acida come un vino o dell’aceto di frutta. Un’idea carina? Ad esempio perché non preparare una versione primaverile del classico coniglio arrosto, ma cotto con una composta di ciliegie e vino liquoroso? Oppure, in abbinamento alle carni di maiale, un goloso filetto o un’arista (ma va bene anche la lonza, che differisce per l’assenza delle ossa), per donare quell’acidità sempre piacevole e perfetta per accompagnare questa tipologia di carni. E ancora, una preparazione buonissima e perfetta per le grigliate è un glassa per le costine simile alle varie salse a base di frutti di bosco. Si parte sempre dalle ciliegie fresche, ben lavate e private del picciolo e del nocciolo, le si mette in una padella con un poco di acqua, zucchero di canna e aceto balsamico. Si aggiusta quindi di sale e si cuoce il tutto per almeno 10-15 minuti o fino a quando la salsa si presenta densa. Si passa al setaccio o al frullatore per eliminare i pezzi di buccia, si lascia intiepidire e la si gusta glassando un carrè di costine appena tolto dalla brace. È possibile utilizzare la salsa anche durante la cottura, spennellando la carne prima della cottura e subito dopo. 

Perfette da conservare sotto spirito 

Ci sono specie di frutta che per loro natura possono essere conservate per lungo tempo, si pensi ad esempio alle mele oppure anche ai kiwi. Ne esistono altre, invece, che una volta mature e raccolte, sono da consumare entro un brevissimo periodo, perché giungeranno in pochissimo tempo a marcire. Normalmente  questa tipologia di frutta, se disponibile in quantità elevata da non consentire il consumo fresco immediato, viene spesso trasformata in confettura. Ma per le ciliegie e le amarene si ha una golosa possibilità in più: la conservazione sotto spirito, perfetta per la creazione di un fine pasto di gusto, ma anche per guarnire dolci e dessert. Notoriamente è una conserva che si prepara in casa; questo perché se ben preparate non mettono a rischio la salute di chi le andrà a consumare vista la grande presenza di alcol etilico. È praticamente impossibile sbagliare, a patto che si scelgano frutti non eccessivamente maturi (polpa dura) e assolutamente sani. La procedura è questa: sciogliere lo zucchero nell’acqua scaldandola un poco e poi, una volta raffreddata, versare tutto nel barattolo con le ciliegie (avendo cura di tagliare la parte legnosa del picciolo) e l’alcol che può essere un distillato come la grappa o l’acquavite, ma anche gin, vodka, brandy o whiskey.

Tortelli della Possenta di Ceresara, un piatto per valorizzare la ciliegia De.Co.

Per comprendere facilmente come si possano valorizzare le ciliegie in un piatto salato, basta volgere lo sguardo laddove la produzione del frutto è intensa: l’Emilia Romagna e il confine con la Lombardia. Esiste, infatti, un piccolo paese in provincia di Mantova conosciuto per la coltivazione delle ciliegie e dove è nato un piatto molto particolare: i tortelli della Possenta. Una pasta con un ripieno a base di ciliegie e ricotta. Un piatto preparato a partire dalla ciliegia protetta da una Denominazione Comunale.
La tradizione di associare la frutta ai formaggi è uso consolidato e antico e, probabilmente, sta alla base della nascita di questo goloso raviolo dal colore rosso della pasta che, in realtà, è dato dalla rapa rossa (la ciliegia è presente solo nel ripieno). La preparazione della pasta prevede l’utilizzo di farina di grano tenero, uova e qualche goccia di succo di rapa rossa che da semplicemente il colore. Una volta impastata e stesa, il ripieno è preparato utilizzando della ricotta freschissima di vacca, una composta o confettura di ciliegia preparata a partire dalle ciliegie fresche, il pane grattugiato, il formaggio a grana, le spezie a piacere e il sale. Da condire semplicemente con burro fuso e una generosa spolverata di formaggio grattugiato.

Ogni anno nel mese di giugno i tortelli vengono preparati e serviti in occasione della ‘Festa de la Saresa’. È una De.Co relativamente giovane quella nata a tutela della Ciliegia di Ceresara, è stata infatti presentata a marzo 2019, in occasione della locale Fiera della Possenta. La De.Co, che si fregia di un proprio logo, non riguarda una varietà particolare di ciliegia, ma tutte le cultivar che sono presenti nel territorio comunale: oltre 5.000 piante di diverse varietà dolci che aumentano di anno in anno. L’idea di mettere la composta di frutta nel raviolo può essere interpretata in tantissimi modi: l’ideale potrebbe essere quello di utilizzare come condimento una salsa agrodolce, sempre a base di ciliegia, oppure una crema di formaggio dolce, rotondo, come una fonduta di formaggio tipo Branzi o un Formai de Mut Dop.


Anche l’abito fa il piatto. E non è un vezzo di cucina gourmet

Un corretto impiattamento stimola i sensi, stuzzica l’immaginazione e crea una buona aspettativa. Ecco alcuni suggerimenti per una presentazione ad effetto

Che l’occhio voglia la sua parte ormai lo sappiamo tutti. Basta osservare il mondo attorno a noi per capire quanto l’immagine stia avendo un ruolo cruciale nella quotidianità. E così in cucina. Anche se la sostanza rimane sempre ciò che troviamo nel piatto, la sua presentazione è utile alla corretta percezione della proposta e, perché no, alla comunicazione vera e propria di un qualsiasi locale che si occupa di somministrazione: dall’alta ristorazione al bar, fino alla pizzeria e ai locali che si dedicano all’asporto come le gastronomie.

Basta scorrere la bacheca di Facebook o Instagram per comprendere quanto lavoro ci sia dietro un piatto ben riuscito. Si parte dalla materia prima, fino alla sua corretta trasformazione, la scelta del piatto giusto, le corrette scelte cromatiche, e così via.  Quando ci si trova davanti a un piatto poco attraente, la voglia di metterlo sotto ai denti non sempre è alle stelle, anzi. Anche se può succedere l’esatto opposto, e cioè che una preparazione molto bella da vedere ha creato aspettative talmente grandi da deluderle appena dopo l’assaggio. Però è bene tenere in considerazione che per gli esseri umani, la vista è un senso molto importante e regala tantissime informazioni che inconsciamente guidano le nostre scelte in modo più radicato di ciò che siamo portati a pensare.

L’importante però è anche non sottovalutare gli altri sensi: come è ovvio che sia, il gusto e l’olfatto entrano in gioco nella percezione di sapori e aromi, mentre il tatto ci regala altre sensazioni, tra cui la struttura e la temperatura. L’impiattamento è quindi uno dei tanti aspetti da considerare per la buona riuscita del nostro piatto che ha l’obiettivo di stimolare i nostri sensi, la nostra immaginazione e creare una buona aspettativa. E non è assolutamente vero che è un’arte propria dell’alta ristorazione. Il consiglio è quello di abbandonare questo preconcetto e, a qualsiasi tipologia di locale si faccia riferimento, ricordiamoci sempre che anche il vestito, purtroppo, fa il monaco.

Come nasce un piatto: la creatività

Ognuno ha il proprio processo creativo e tutti coloro che lavorano in cucina o che le dedicano buona parte del proprio tempo libero lo sanno bene. Non esistono, quindi, regole precise se non quelle relative al corretto abbinamento tra aromi e sapori, ma anche tra colori. È sempre bello stimolare i propri ospiti con nuove proposte, ma non sempre è necessario osare. Basta talvolta modificare ingredienti o metodi di cottura, per trasformare e personalizzare piatti della tradizione. Poi, la creatività non ha limiti e la piccola innovazione può trasformarsi in grandi piatti ben riusciti. In linea generale si comincia sempre da un singolo ingrediente, per poi costruire un piatto. In modo identico si lavora nella re-interpretazione delle ricette classiche: non sono necessari grandi stravolgimenti per rendere una ricetta unica nel suo genere. Basta un poco di voglia di osare.

Gli strumenti necessari: forme e tecniche

In realtà non è necessario avere grandi strumenti per impiattare in maniera creativa. Piuttosto, è fondamentale allenare la manualità. Nelle cucine professionali in genere gli strumenti non mancano. La base è sempre il piatto: è il nostro foglio su cui disegnare. DI conseguenza la prima cosa da fare è scegliere il piatto giusto, sia per la sua forma, che per il suo colore e materiale. Ne esistono di tutti i tipi, innanzitutto bisogna considerare le caratteristiche dell’ingrediente principale del piatto. Forma e dimensione dipendono principalmente da questo. E poi, i colori che saranno presenti per capire se è meglio scegliere una base nera, bianca oppure colorata. In presenza di salse o creme, è possibile utilizzarle per “disegnare” sul piatto creando spirali, punti, strisce o virgole (oggi un poco fuori moda). Ecco che saranno necessari flaconi dosatori in plastica oppure sac à poche per dosarle e definire anche la dimensione di punti o righe da creare.
Un altro strumento utile potrebbe essere un pennello per alimenti, il mestolo (per impiattare gli spaghetti,  ad esempio) oppure una spatola per realizzare strisciate o altri segni. Per impiattare una tartare, un risotto, ma anche una pasta, possiamo dotarci di coppapasta di diverse dimensioni. Infine, la pinza: è davvero essenziale per posizionare gli ingredienti nella posizione corretta con precisione e senza toccarli con le mani. Ecco quindi che con pochissimi euro possiamo contare su strumenti molto semplici utili per le nostre creazioni.

Impiattamento dolce

Come impiattare in modo corretto

Ci sono regole che valgono per l’alta ristorazione ma anche e soprattutto per chi si dedica alla cucina tradizionale. Anche un semplice (ma buonissimo) piatto di spaghetti al pomodoro, se ben impiattato, può rendere l’esperienza ancora più soddisfacente.

  1. Innanzitutto scegliere dove posizionare il nostro ingrediente principale. Dobbiamo immaginare di dividere il piatto in quattro parti e decentrare leggermente la nostra preparazione. In alternativa, è bene scegliere l’esatto centro, soprattutto se si utilizzano piatti fondi o se il piatto si sviluppa verso l’alto. Quanto alle decorazioni, per un piatto quadrato è opportuno prediligere forme a parallelepipedo, mentre con piatti tondi forme sinuose, punti, virgole o spirali.
  2. Le porzioni non devono essere eccessive, ma nemmeno troppo piccole. Un equilibrio è importante per raggiungere un impatto visivo che non spaventi e che renda confortevole il consumo.
  3. La distribuzione degli ingredienti deve essere tale da non dividere eccessivamente gli elementi, anche se a molti chef piace non rispettare questa regola e dividere in modo netto gli elementi.
  4. Piatti bianchi o neri aiutano. Si abbinano bene a qualsiasi preparazione, mentre quelli eccessivamente colorati sono più impegnativi.
  5. Il piatto deve essere ben pulito, non devono esserci sbavature o impronte. Attenzione nell’utilizzo di parti grasse come l’olio extra vergine di oliva. Qualora dovessero esserci sbavature basta intervenire con della carta assorbente.
  6. Non esagerare con i fiori, insalate o altro vegetale e non aggiungere elementi non commestibili. Attenzione con le polveri e le spezie macinate: a parte in rare eccezioni, bisogna evitare di sporcare i bordi dei piatti. Bandito l’uso del prezzemolo fresco sul bordo del piatto.
  7. Per distribuire il risotto nel piatto, basta battere sotto con la mano e si distribuisce in modo omogeneo. Possiamo completare il piatto aggiungendo ingredienti, salse o polveri in superficie
  8. Gli spaghetti sono stupendi se serviti a nido: basta arrotolarli con l’aiuto di forchettone e mestolo prima di appoggiarli sul piatto. È possibile sviluppare il nido in orizzontale, come fosse sdraiato, oppure in verticale.
  9. Prevediamo infine uno sviluppo del piatto possibilmente in altezza, dandogli più volume possibile.
  10. Pizze e panini non sono esenti dal seguire queste regole. Un buon panino o una buona pizza devono prevedere una buona distribuzione degli ingredienti, in maniera tale che ad ogni morso o su ogni fetta vi siano tutti gli ingredienti scelti per la farcitura.

Queste poche e semplici regole di base per impiattare a dovere. Ovvio che le regole, in questo caso, sono anche fatte per essere infrante con creatività, partendo sempre dal presupposto che semplicità non è banalità.


Balsamico, invecchiato o tradizionale? Conosciamo l’aceto

Aceti con caratteristiche organolettiche e metodi di produzione diversi: fare chiarezza è importante per scegliere al meglio

Forse parlare di aceto, al singolare, non rende davvero l’idea di quanto questo mondo sia vasto e diversificato. In commercio ne esistono tante tipologie, essenzialmente perché alla base c’è una reazione fermentativa ad opera di microrganismi, gli acetobatteri, che lavorano molto bene in presenza di alcol etilico, trasformandolo in acido acetico. Condizione importante perché questi microrganismi prendano il sopravvento e trasformino l’alcol in acido è la presenza di ossigeno. Senza aria non si sviluppano e l’alcol etilico manterrà le sue caratteristiche.

È facile pensare, quindi, a una produzione che derivi dall’utilizzo di mosto oppure vino, ma sono altresì molto diffusi gli aceti prodotti dalla fermentazione alcolica di frutta, cereali, malto oppure miele. Non entrando nel merito di quest’ultimi, anche se sempre più diffusi e utilizzati non solo in cucina, il metodo tradizionale per la produzione di aceto parte dalla diluizione del vino, che non dovrebbe superare gli 8-10 gradi alcolici per poi essere messo in grandi barili con bocche di areazione, e la presenza della cosiddetta “madre”, in cui sono concentrati gli acetobatteri che trasformeranno l’alcol etilico presente nel vino in acido acetico. Ma esistono prodotti assolutamente unici e di alta qualità: parliamo degli aceti balsamici e i balsamici tradizionali, attorno cui spesso vi è molta confusione, anche fra gli addetti ai lavori.

Aceto balsamico: cosa è e come si produce

Purtroppo, molti degli aceti denominati “balsamici” in commercio, non sono nient’altro che normalissimi aceti di vino aromatizzati e colorati. In realtà l’aceto balsamico proviene da lavorazioni specifiche che partono dalla cottura del mosto di uva, fermentato naturalmente, che viene poi acidificato molto lentamente attraverso un processo chiamato “metodo Solera” che consiste nel mettere l’aceto in piccole botti di legni diversi, disposte a piani, e ogni anno una parte dell’aceto viene messo nella botte sottostante, creando nel tempo un perfetto blend tra i vari mosti fermentati e acidificati.

Dopo l’acidificazione, il balsamico si presenta leggermente denso e di colore scuro, con aromi complessi, terziari e persistenti. Al sapore spiccano la dolcezza e la piacevole acidità, mentre a livello tattile stupisce la piacevole sensazione vellutata, rotonda.  Tralasciando i “balsamici” a buon mercato, simili ad aceti di vino normalissimi ma semplicemente colorati e aromatizzati, esistono diverse possibilità per scegliere un aceto balsamico di qualità senza spendere necessariamente una follia. Innanzitutto i regolamenti ci vengono in aiuto: esistono, infatti, certificazioni e disciplinari di produzione a garanzia del prodotto che ci aiutano nella scelta.

Aceto balsamico di Modena IGP: un balsamico prodotto secondo il metodo

L’aceto balsamico di Modena ha una storia davvero lunga e, fin dal 2009, la sua provenienza è tutelata dal marchio europeo IGP (Indicazione Geografica Protetta). Per disciplinare, la sua zona di produzione ricade nelle province di Modena e Reggio Emilia. Viene prodotto attraverso la cottura dei mosti parzialmente fermentati (in quantità minima del 20%) di uve delle cultivar Lambrusco, Sangiovese, Trebbiano, Albana, Ancellotta, Fortana e Montuni con l’aggiunta del 10% minimo di aceto di vino, ma anche di vino e aceto balsamico invecchiato. Dopo l’acidificazione, il balsamico viene affinato per un minimo di 60 giorni e, a discrezione, invecchiato per un tempo variabile. Oltre i 3 anni potrà fregiarsi della dicitura “invecchiato”. La certificazione garantisce che tutto il processo di lavorazione e trasformazione (fermentazione, acidificazione e invecchiamento) abbia luogo nelle province di Modena o Reggio Emilia.

L’aceto Balsamico di Modena IGP è un buon prodotto, perfetto anche per aggiungere bontà a molti piatti senza avere dei costi proibitivi; questo lo rende adatto ad essere utilizzato in quasi tutte le tipologie di ristoranti, non andando a incidere eccessivamente sul food cost. È estremamente versatile e perfetto ad esempio per guarnire insalate, primi piatti come paste all’uovo o risotti, ma anche carni bianche o di maiale, senza andare ad appesantirne sapore e aroma.

Aceto balsamico tradizionale di Modena e di Reggio Emilia: il più pregiato

Da non confondere con l’altro, il “tradizionale” gode della Denominazione di Origine Protetta nelle sue due indicazioni geografiche: Modena e Reggio Emilia. È prodotto grazie alla parziale fermentazione e poi alla cottura di mosti provenienti esclusivamente da uve di Trebbiano e Lambrusco prodotte nei due territori provinciali di riferimento. Non va confuso con il normale balsamico: il tradizionale è infatti prodotto a partire esclusivamente dal mosto cotto delle due cultivar autoctone. Anche il processo di invecchiamento è molto più lungo e lento. Questo giustifica la differenza di prezzo, ma anche di sapore, consistenza e aroma. L’aceto balsamico tradizionale DOP esiste poi in due versioni: l’affinato, con almeno 12 anni di invecchiamento, e l’extravecchio, con almeno 25 anni, da non confondere con l’aceto balsamico di Modena IGP invecchiato.

Si tratta di un prodotto sostanzialmente diverso, molto più complesso e, di conseguenza, anche l’utilizzo e l’abbinamento diventa ancora più difficile. Ovvio che è perfetto con i formaggi a grana molto stagionati, come il Parmigiano Reggiano DOP nelle versioni riserva. È abbinabile alle carni crude che hanno subito un’importante frollatura, ma anche a guarnire dolci a base di fragole. Insomma, la sua aromaticità importante lo rende adatto ad abbinamenti che lo possano innanzitutto sostenere a livello gustativo, ma anche che non lo snaturino in tutta la sua complessità, frutto dei lunghi anni impiegati per la sua produzione.

 


Prosecco? Chiamatelo Glera

Il vitigno autoctono a bacca bianca è la cultivar perfetta per diversi vini frizzanti e spumanti

 

Glera è un vitigno autoctono per uno dei vini spumanti italiani più conosciuti ma la sua origine non è ancora chiara e, infatti, sono molti quelli che sostengono provenga da un piccolo paese del Carso triestino ubicato al confine con la Slovenia, Prosecco, dove il vitigno veniva chiamato appunto Glera. Da lì si sarebbe poi diffuso nella provincia di Treviso, fino poi ai Colli Euganei. Un’altra tesi vede invece il suo percorso all’esatto inverso. Di certo, questo vitigno trova la sua principale diffusione e fortuna sulle colline della provincia di Treviso, tra Conegliano e Valdobbiadene. Proprio qui vengono coltivati i circa 6500 ettari dei 7000 totali di impianto censiti in Italia.

È un vitigno molto rustico e di gran vigore, è considerato un vitigno semi-aromatico. Si coltiva bene sia in collina che in pianura, ma proprio sulle ripe scoscese delle zone limitrofe a Valdobbiadene, per la difficoltà di lavorazione dei terreni, è possibile trovare anche piante molto vecchie. Per la sua trasformazione in vino, si presta molto bene alla spumantizzazione, ma anche alla produzione di vini frizzanti e fermi. Il Veneto e la zona del Carso Triestino (Friuli-Venezia Giulia) sono dunque le zone in cui è diffusa la coltivazione di questi vitigno e viene impiegato in diverse quantità per la produzione di vini che appartengono a diverse Denominazioni d’Origine. Non di solo Prosecco si tratta. È un vitigno che regala al vino tenui aromi fruttati e floreali, con un corpo leggero e un’acidità interessante. 

I Prosecchi, non il Prosecco

Spesso si parla di Prosecco in senso generico (a volte con riferimento perfino alla categoria del vino spumante, e questo è un grave errore) senza considerare che esistono diverse tipologie di vino spumante commercializzato con un nome simile, ma non identico. Esiste il Prosecco DOC, che deve contenere una percentuale di Glera non inferiore all’85% del totale e viene prodotto in un territorio molto vasto: in tutte le provincie del Veneto, con esclusione di Rovigo e Verona, e in parte del Friuli-Venezia Giulia.

All’interno della zona ove è possibile produrre il vino DOC, sono presenti ristrette aree dove si produce l’Asolo Prosecco DOCG e il Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene Superiore DOCG. Quest’ultima denominazione comprende anche due “cru”: Rive, che si riferisce a 43 micro aree presenti in diversi comuni o frazioni della zona, e Cartizze, che comprende il vino prodotto con le uve coltivate in soli 106 ettari ubicati attorno alla località Cartizze. Questo è il “prosecco” più pregiato, con caratteristiche aromatiche più complesse rispetto al vino spumante prodotto nella restante zona. L’errore più ricorrente è la dicitura “Conegliano superiore di Cartizze”: non esiste il Cartizze di Conegliano e non solo per toponomastica, ma soprattutto per legge (il disciplinare della DOCG). Il Cartizze prende il nome da una ristrettissima zona del Comune di Valdobbiadene (circa 106 ettari, con circa 140 piccoli proprietari). 

Gli altri vini con denominazione prodotti con la Glera

La Glera è utilizzata comunemente anche per produrre altre tipologie di vino e non solo il famoso vino spumante. Sempre nella zona collinare della provincia di Treviso, tra Valdobbiadene e Conegliano, sono prodotti i vini appartenenti alla DOCG Colli di Conegliano e, nel passito bianco Torchiato di Fregona, è possibile utilizzare una percentuale di uva proveniente dalla cultivar Glera. Nelle provincie di Gorizia e Trieste, esiste la denominazione Carso DOC, che comprende anche il vino Carso Glera DOC: un vino fermo prodotto con almeno l’85% di Glera.
Infine, la zona dei Colli Euganei, che si trova in provincia di Padova, ospita l’omonima DOC, che comprende il Serprino DOC, un biotipo del vitigno Glera con cui si producono un vino spumante e uno frizzante.