Alternanza scuola-lavoro, non basta una buona legge per cambiare

scuola-lavorodi Emmanuele Massagli*

 

La legge “La Buona Scuola” in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, condivide con il capitolo “apprendistato di primo livello” del Jobs Act finalità e tecnica, pur senza un vero e proprio coordinamento tra i testi. Di conseguenza, entrambi gli interventi scontano gli stessi limiti di visione.

La Buona Scuola ha tra i suoi snodi principali e più pubblicizzati il rilancio dell’alternanza scuola-lavoro (articolo 1, commi 33-44 dell’A.C. 2994-B) e il potenziamento degli Istituti Tecnici Superiori (commi 45-55). Le parti dedicate al contratto di «apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore» (il nome è nuovo) inizialmente contenute in questo disegno di legge, durante l’iter di approvazione sono state spostate nei decreti delegati del Jobs Act che già affrontavano lo stesso argomento, in particolare in quello dedicato al riordino delle tipologie contrattuali (si vedano quindi gli articoli 41-43 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 per quanto concerne la parte normativa; all’articolo 32 dello Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive – Atto Senato n. 177 – sono invece contenute le misure di incentivazione economica).

Le finalità di entrambi gli interventi sono quelle di «incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti» (comma 33 de La Buona Scuola) e «coniugare la formazione effettuata in azienda con l’istruzione e la formazione professionale svolta dalle istituzioni formative» (articolo 43 del d.lgs. n. 81/2015). Il Governo ha molto enfatizzato il confronto con l’esperienza tedesca della formazione duale, alla quale esplicitamente il Legislatore si è richiamato per trovare soluzioni (relativamente) nuove al crescente problema della disoccupazione e inattività giovanile. È però evidente che nessuna imitazione di norme legislative può avere successo se calata in un ambiente sociale incapace di interpretare e sfruttare correttamente gli spazi creati dalla legge. Se non si scardina la dimensione culturale, coerentemente la dimensione legislativa cristallizzerà in norma gli stessi pregiudizi presenti in istituzioni, giovani e imprese.

L’opposizione all’apprendistato già regolato dall’articolo 3 del Testo Unico del 2011, infatti, non scaturisce innanzi tutto da ragioni tecnico/normative, connesse al mezzo (l’apprendistato a scuola), bensì origina da un vero e proprio rigetto concettuale del metodo, ossia l’educazione facendo l’integrazione scuola lavoro: più in generale, l’alternanza formativa. Si tratta della stessa radice culturale degli stage curriculari previsti ne La Buona Scuola, che quindi dovranno superare i medesimi pregiudizi intellettualistici che da anni frenano l’apprendistato, causando il “paradosso pratico” che gli addetti ai lavori osservano da tempo: nonostante l’ampia condivisione di principi generali e la straordinaria dimensione del problema giovanile, l’ordinamento scolastico, professionale e universitario non solo non opera alcun passo verso la costruzione di percorsi moderni ed europei di apprendistato, ma addirittura sembra procedere al contrario. Per questo l’affermazione del metodo dell’alternanza formativa non può che nascere da una legittimazione “dal basso”, da una rinnovata coscienza dell’utilità educativa, formativa ed occupazionale delle esperienze di tirocinio e di apprendistato. Una consapevolezza invero presente tra i giovani, crescente tra le imprese, ma ancora molto scarsa negli ambienti scolastici e universitari.

Il Legislatore pare convinto di poter forgiare questa nuova coscienza con l’intervento diretto, evidente tanto nel Jobs Act quanto ne La Buona Scuola. Entrambi i testi, infatti, confermano la tendenza a ricentralizzare la regolazione del mercato del lavoro e della formazione. Ecco quindi che nella riforma della Scuola le esperienze di alternanza (finalmente non più concepite come piccole “gite”, considerato l’elevato numero minimo di ore indicato al comma 33) diventano obbligatorie e sono controllate dalla «Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza scuola-lavoro» e dal «registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro». Nel d.lgs. n. 81/2015, invece, si rimanda a futuro decreto la creazione di un «protocollo» per la stipulazione delle convenzioni tra impresa e scuola, nonché per la fissazione dei «criteri generali per la realizzazione dei percorsi di apprendistato», dei «requisiti delle imprese nelle quali si svolge e il monte orario massimo del percorso scolastico che può essere svolto in apprendistato» e del «numero di ore da effettuare in azienda».

Si prova, quindi, ancora una volta, a forzare per via legislativa ciò che in oltre dodici anni di storia (il riferimento è alla legge 28 marzo 2003, n. 53 e decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276) non è riuscito ad affermarsi nel nostro ordinamento, nonostante la continua approvazione di norme indubbiamente favorevoli. I rischi sono i medesimi delle esperienze precedenti: l’aggiramento sostanziale dei buoni propositi della legge. Potremmo quindi scoprire tra qualche anno che le ore obbligatorie di alternanza sono svolte durante la sospensione delle attività didattiche, come furbescamente è previsto nel comma 35 della stessa La Buona Scuola, a protezione del numero di cattedre che non può essere diminuito (è anzi aumentato grazie alle assunzioni previste dalla stessa legge) e della tradizionale organizzazione dei programmi dei corsi di studio; che, mancando reali incentivazioni economiche e normative, le aziende disponibili ad ospitare giovani per tirocini curriculari sono molte meno dell’ingente numero di cui ci sarebbe bisogno per adempiere all’obbligo di legge e che quindi le scuole devono virare verso imprese formative simulate e tirocini nella pubblica amministrazione; che poche imprese superano la diffidenza verso la stipulazione di protocolli formali per l’apprendistato con le scuole e che le Regioni continuano a non regolare l’apprendistato di primo livello.

Il cambio di paradigma di cui ha bisogno la formazione in Italia per contrastare l’emergenza educativa può essere facilitato, ma non certo generato da alcuna norma. Se non si innescherà nei prossimi anni – in primis grazie al coinvolgimento e alla convinzione di dirigenti scolastici, docenti, studenti, imprese e parti sociali – un rinnovato interesse verso la formazione in assetto lavorativo, nessuna legge, anche se “buona”, riuscirà a cambiare una scuola sempre più vecchia e ferma.

*Presidente di ADAPT

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