Aeroporti e alleanze, perché Sacbo non può più perdere tempo

Orio Aeroporto  terminalSacbo, la società che gestisce l’aeroporto di Orio al Serio, da anni oscilla alla ricerca di un partner guardando un po’ ad Est (il polo veneto più Brescia) e un po’ ad Ovest (con la milanese Sea, che è anche suo azionista con il 30% circa) e nel frattempo è cresciuta fino a diventare il terzo aeroporto italiano, con i suoi oltre 10 milioni di passeggeri. Un’eventuale unione è chiaramente un’operazione importante e probabilmente senza ritorno e per questo va ben ponderata. Ma è bene anche ragionare con i tempi dell’economia, più che con quelli della politica, perché a volte, quando le occasioni si perdono, possono anche non ripresentarsi, soprattutto se il tentennamento dovesse nascere dal solo obiettivo di massimizzare l’incasso. Anche le rendite di posizione date dalla geografia, che in materia di infrastrutture contano più che altrove, in fondo non sempre sono per sempre. La tecnologia, le evoluzioni commerciali, i mutamenti di mercato, le nuove legislazioni, la comparsa di nuovi concorrenti possono sempre sconvolgere i piani. Orio al Serio è cresciuto l’anno scorso del 18,6% e ha realizzato un altro incremento del 6,7% nei primi otto mesi del 2016: potrebbe forse anche rischiare di restare da solo, prendendo atto del limite fisico dello sviluppo dato dall’avere una sola pista, per quanto gestita con ottimizzazione o efficienza. Ma se la Sacbo intende crescere grazie alle sinergie che si possono creare grazie alla rete con altri scali, una decisione (che sia la fusione con Sea che al momento sembra l’opzione più probabile, o quella con altri) la deve prendere senza perdere troppo tempo, fino a quando può ancora scegliere e in una posizione di relativa forza data dalla salute societaria, anche se questa potrebbe non bastare per pareggiare nella governance il confronto con aziende di dimensioni più grandi.

Che lo scenario del settore sia in movimento lo dimostra il blitz di Atlantia, il gruppo che ha la famiglia Benetton come azionista di riferimento, e al quale fanno capo oltre a buona parte delle autostrade italiane (tra le quali l’A4 “vicina” di Orio), anche il 95% di Adr-Aeroporti di Roma, il più grande operatore italiano con gli scali di Fiumicino e Ciampino, e il quinto in Europa per numero di viaggiatori (quasi 32 milioni nel 2015). Atlantia nei giorni scorsi ha sottoscritto un accordo con il fondo Amber per l’acquisto del 21,3% del capitale di Save, gestore del terzo polo aeroportuale italiano (il secondo è quello milanese di Sea tra Malpensa e Linate, con 28 milioni di passeggeri), con gli aeroporti di Venezia e di Treviso e, attraverso il 40,3% della Catullo Spa, degli scali di Verona e Brescia-Montichiari (circa 13,5 milioni di passeggeri nel 2015). L’accordo, a 14,75 euro per azione, per un investimento di circa 174 milioni, prevede un meccanismo d’integrazione parziale del prezzo qualora, entro 3 anni, venisse promossa un’offerta pubblica di acquisto o scambio sul titolo Save ad un prezzo superiore, «eventualità della quale Atlantia non è a conoscenza», precisa una nota. Ma che evidentemente è un’ipotesi da tenere in considerazione, se viene inserita nel contratto. Perché infatti Adr, che pure ha una quota di minoranza anche nel gestore dell’aeroporto di Lamezia (Sacal) e di quello di Genova, dovrebbe immobilizzare dei soldi in una partecipazione che non fa parte di alcun patto di sindacato e non permette di partecipare alla gestione della società? La maggioranza è infatti dal 2011 nelle mani di Finint, che dopo avere rilevato, a fine 2015, l’8% in mano alla Popolare di Vicenza, si trova ora, tra partecipazioni dirette e indirette, a controllare il 60% del capitale di Save, una quota blindata che al momento esclude ogni velleità di scalata.

Potrebbe quindi anche essere solo un investimento finanziario: il prezzo di acquisto è stato buono, inferiore di oltre il 10% alle quotazioni del giorno e la società dà dividendi intorno al 4% che in tempi di tassi zero non sono da disprezzare. Ma il fatto che nella definizione del prezzo si sia parlato di Opa lascia pensare che Adr possa pensare anche a qualcos’altro. Sembra infatti destinato a finire il granitico sodalizio societario che da 36 anni unisce i due soci di Finint, Enrico Marchi (che è anche presidente e ad di Save) e Andrea De Vido. Quest’ultimo ha infatti bisogno di liquidità per rientrare dall’esposizione bancaria creata da una serie di investimenti finanziari non riusciti e sarebbe ben disposto a cedere la sua quota in Finint, società valutata intorno ai 250 milioni. Inoltre Finint controlla il 60% di Save attraverso Agorà, partecipata per il 43,1% da Morgan Stanley, in base a un’intesa che scade a ottobre 2019, ma con opzione di vendita esercitabile tra il 15 e il 19 gennaio 2018, sulla quale Finint ha un diritto di prelazione, anche per conto terzi. Insomma nel giro di un anno e mezzo c’è la possibilità che buona parte delle azioni che ora controllano Save possano cambiare di proprietà, senza escludere  anche vendite da parte degli enti locali (la Provincia di Venezia, terzo azionista, ad esempio ha il 4,9% delle azioni) o magari rastrellamento di azioni sul mercato. Ma tutto questo cosa c’entra con Sacbo? C’entra, perché se continuerà il tentennamento, potrebbe perdere le possibilità di scegliere il partner. Un conto è se il quarto gestore aeroportuale italiano (Sacbo) tratta con il secondo (Sea) o con il terzo (Save), di dimensioni rispettivamente doppie e più grandi di un terzo. Un conto è se nel caso di rottura definitiva con Sea (come alcuni vorrebbero non accettando una guida milanese, nonostante la legge dei numeri), guardando a Est l’unica alternativa fosse un colosso (Sea+Adr)  quattro volte più grande, con il quale è più facile essere mangiati che venire a patti. Poi, certo, si può anche restare da soli: ma è meglio farlo per scelta e non perché costretti.