A proposito della “guerra” tra sagre e ristoranti

L'estate che ha chiuso i battenti, insieme ai ricordi delle vacanze, delle cene senza pudore, di paesaggi da portare negli occhi, di qualche storia conclusa e di qualche amore nato di fresco, ci lascia anche spunti di riflessione nel fantasmagorico mondo dell’enogastronomia che, se non ci fosse, converrete con me, sarebbe davvero un problema di quelli grossi.
Coldiretti, e siamo al primo punto, stima che un italiano su tre abbia partecipato con frequenza alle sagre alimentari con migliaia di appuntamenti estivi distribuiti su e giù per lo Stivale, in una marea di diversità regionali: dalla nostra polenta taragna alla bortellina bettolese, dalla triglia al cinghiale, dallo spiedino allo squacquerone, dagli arrosticini alle puntarelle, dal torrone al Moscato di Scanzo, dalle patate alle mele, dalle pettole al baccalà fritto.
Sempre secondo Coldiretti, il fenomeno si è ulteriormente accentuato in questo periodo di crisi perché la gente è in bolletta e portare la famiglia alla Sagra del Pursèl risulta decisamente più abbordabile che trascinarla in una media trattoria. Inoltre questo fenomeno, sempre più di massa, favorirebbe il contatto con le tradizioni territoriali e con il cibo agreste e si potrebbe così facilitare una maggiore qualificazione nella vendita diretta dei prodotti agricoli.
Sulla faccenda della crisi sentiamo un disco già trasmesso da anni. Se non c’era ancora questa situazione preoccupante, c’era comunque il capofamiglia che voleva risparmiare. Scriviamo per esperienza diretta e possiamo testimoniare di aver diviso tavolate a qualche sagra paesana (ma di quelle serie, però) con gente che ci siamo poi ritrovati al ristorante un po’ su di tono.
Se ne facciamo una questione esclusivamente economica, non c’è partita. Se discutiamo su quello che ci ritroviamo nel piatto (poco importa se di porcellana o di plastica), il ragionamento va approfondito. A maggior ragione se si vuole avvicinare il produttore al consumatore, saltando magari un paio di fermate alla filiera. È capitato a tutti, credo, di trovare una porchetta o un salame strepitosi ad una festa di paese su in cima al mondo e poi, magari, di mangiare malissimo sotto un tendone che ti avevano raccomandato tutti i vicini di casa. La conclusione è semplice: difficile etichettare il fenomeno solo come una scorciatoia per risparmiare. È giusto riconoscere il valore aggiunto di un buon rapporto qualità/prezzo che, ovviamente, è la formula azzeccata anche per la paninoteca, per la trattoria, per il ristorante stellato.
E restando in tema di crisi e di prezzi, segnaliamo una splendida quanto coraggiosa iniziativa di Pino Faggiano, ristoratore brindisino che, sotto la sua insegna “A pranzo da Pino”, propone piatti cucinati “in famiglia” da comprare e portarsi a casa. L’asporto ai tempi della crisi. Pino, che viene da una precedente esperienza milanese con un laboratorio di pasta fresca portato avanti con mamma e zia, apre questa attività nel profondo Sud, dove cucinare è una religione, roba da rifletterci. Eppure fa la felicità di single e donne che non hanno più tempo (o voglia) di mettersi ai fornelli. Certo, la sua carta vincente è preparare ricette buonissime (pare che la sua Parmigiana di melanzane sia da urlo) a costi contenuti, operazione che alle nostre latitudini risulta complicata, forse non più di tanto. Se varchiamo l’uscio di una qualsiasi gastronomia nostrana, ne usciamo soddisfatti, ma terribilmente alleggeriti: è mai possibile che, per la soddisfazione di entrambi, non ci possa essere una percorribile via di mezzo?
E chiudiamo con note liete: quest’estate, ben 6 italiani su 10 hanno scelto, come souvenir del posto visitato, un prodotto agroalimentare tipico del territorio. Vino, formaggi, salumi, conserve e olio d’oliva sono i più gettonati, e anche per queste scelte c’è un tentativo di ricondurre tutto al momentaccio attuale. Invece della gondola con le luci multicolori, si portano a casa il Prosecco e quattro vasetti di “Sarde in saor”, che si possono poi consumare rinverdendo il ricordo del Canal Grande. Al pensiero di questa crescita qualitativa dei prodotti locali, non finiremo mai di ringraziare la nostra Camera di Commercio quando decise di valorizzare le tipicità alimentari bergamasche: la scelta si è via via allargata e, almeno in questo settore, siamo molto più avanti dell’anno zero.
Ricordiamocene, perché la materia prima non ci manca e l’imprenditorialità nemmeno: e questo è un lato del nostro turismo che dobbiamo, in buona parte, ancora scoprire.
Un’occasione imperdibile per una spallata alla crisi.