Quei centri logistici che fanno commercio ma sono considerati ‘fabbrichette’

Elena Franco è un architetto che ho conosciuto diversi anni fa all’inizio dell’esperienza dei distretti commerciali in Regione Lombardia. Ha coordinato l’osservatorio regionale e da lei ho imparato molto di urbanistica e della sua disciplina.
L’ho incontrata qualche settimana fa e mi ha raccontato una storia che vorrei condividere, anche alla luce di tutte le trasformazioni urbanistiche commerciali che la bassa pianura bergamasca sta vivendo nel campo della logistica.

La storia inizia con il classico C’era una volta”.  C’era un volta un paese senza arte ne parte ma vicino a una grande città. Negli anni un piano regolatore visionario aveva indicato un’area produttiva all’ingresso del paese. Tutti ci credevano, avrebbero voluto sviluppo e posti di lavoro. Non successe nulla per una quindicina di anni. Nessun industriale venne a occupare l’area e, intanto, anche le poche ‘fabbrichette’ che c’erano, chiusero. Nel frattempo, erano successe un paio di cose: l’autostrada che passava da quelle parti tolse il pagamento del pedaggio nel tratto in cui anche il nostro paesello ricadeva e vennero realizzate – con un investimento pubblico – delle migliorie al sistema stradale per collegare meglio il paese al resto del territorio.

Un bel giorno una società depositò una richiesta in comune per costruire un capannone nell’area produttiva rimasta per così tanto tempo inattuata, un bel prato verde con vista sulla collina. Ora, con tutte le strade a fianco, era diventata interessante. I tecnici che presentarono la domanda erano corretti, chi la esaminò era corretto. Tutte le norme erano rispettate per costruire un bel capannone produttivo e così ‘la cosa’ si fece.

Naturalmente il costo dell’operazione, a livello comunale, fu commisurato a un intervento produttivo, che prevede contributi urbanistici più bassi rispetto agli insediamenti commerciali. Allo stesso modo, dal punto di vista della viabilità, le regole non prevedevano nessun tipo di approfondimento o di lavoro a carico di chi doveva realizzare l’intervento.

Se l’insediamento fosse stato commerciale, invece, si sarebbe dovuto calcolare il numero di auto che avrebbero raggiunto l’area e si sarebbero dovute realizzare delle opere – si, le famigerate rotonde – per cercare di mitigare e regolamentare l’impatto. A spese di chi proponeva l’intervento.

Nessuno sapeva che il capannone, una volta realizzato, sarebbe stato affittato a una multinazionale che consegna i pacchi sorridendo. E questo non perché qualcuno è cattivo, ma perché nessuna norma prevede che, a un certo punto, si debba comunicare a qualcuno chi occupa un magazzino produttivo.

Ormai siamo tutti d’accordo, nel caso della logistica per l’e-commerce, è commercio. Ma qui si seguono le regole della fabbrichetta’, si pagano gli oneri urbanistici come una ‘fabbrichetta’, i tributi locali come una ‘fabbrichetta’, la tassa rifiuti come una ‘fabbrichetta’. Si risparmiano un sacco di soldi e di stress (e non parlo delle tasse sul ricavato, ma dei tributi locali) e si paga, in proporzione, meno di un lattaio o di un supermercato, facendo però i volumi di vendite di un centro commerciale planetario.
In questo caso, si sarebbe dovuto monitorare il numero di corrieri in ingresso e in uscita, anziché le auto dei consumatori, per far mettere in atto delle misure di mitigazione. Invece, nel pieno rispetto della norma, è stata la comunità a doversi accollare il problema di traffico che, puntualmente, si è verificato.

Qual è la morale che possiamo attingere da questo racconto?  Innanzitutto che i capannoni di logistica per l’e-commerce fanno commercio e quindi devono pagare gli oneri urbanistici e i tributi comunali non come attività produttive ma come attività commerciali vere e proprie.

L’urbanistica – “l’insieme delle misure tecniche, amministrative, economiche finalizzate al controllo e all’organizzazione dell’habitat umano” – ha prodotto parallelepipedi prefabbricati che hanno poco a vedere con la salvaguardia del paesaggio e del vivere l’habitat in maniera armonica: il supermercato prima e il discount poi; il centro commerciale prima e il parco commerciale poi. L’outlet, il cinema multisala. Tutti uguali, tutti parallelepipedi o loro sommatorie che hanno martoriato il paesaggio urbano.

Non mi addentro in materia così complessa che non è di mia stretta competenza. Non voglio commettere errori di valutazioni e banalizzare argomenti di così grande importanza.
Una riflessione però mi sento di fare: c’è bisogno di riprogettare il territorio con occhi umani e non solo di pura convenienza economica. Amministratori cittadini e imprese devono tenere a mente che il territorio è merce rara e una volta utilizzato produce effetti sul vivere civile. L’economia green parte anche da queste semplici osservazioni.

Il racconto di Elena ha colto nel segno…è necessario fermarci, guardarci intorno, respirare. E decidere cosa fare.