Quel pasticciaccio brutto della riforma delle Popolari

ubi45.jpgPoniamo il caso di una partita di calcio dove a un certo punto una squadra pretenda un calcio di rigore come bonus dopo avere ottenuto dieci calci d’angolo. Oppure che un arbitro a metà del primo tempo decida di fischiare come fallo tutti i colpi di testa e poi invece nel secondo tempo li ritenga regolari. O, per cambiare attività, che un giocatore di briscola in una partita voglia prendersi tutte le carte sul tavolo perché ha calato il quattro di picche e poi nella successiva giochi sostenendo che il due batta l’asso. Si può anche fare: basta saperlo prima. Sono le famose regole del gioco che finché non sono definite, continuava a ripetere diversi mesi fa l’amministratore delegato di Ubi Victor Massiah, rendevano impossibile parlare di acquisizioni tra banche. Chi compra qualcosa vuole avere certezze, in ogni cosa, e questo è più legittimo. Possiamo immaginare cosa possa pensare Massiah dopo che il Consiglio di Stato è di nuovo intervenuto, a distanza di quasi due anni dalla riforma delle Popolari, per dire in sostanza che si è scherzato e si torna alla situazione precedente. Qui il cambiamento delle regole del gioco vale centinaia di milioni di euro. Si ha un buon esempio d’incertezza del diritto con il verdetto della Sesta Sezione del Consiglio di Stato, il massimo tribunale amministrativo, che ha rilevato la “non manifesta infondatezza” dei dubbi sulla legittimità costituzionale di parte della riforma delle banche popolari ed ha quindi chiesto di esprimersi alla Corte Costituzionale. E, nell’attesa, ha sospeso l’efficacia della circolare della Banca d’Italia sulla possibilità di limitare il rimborso delle azioni su cui è stato esercitato il diritto di recesso in relazione alla trasformazione in Spa.

Stiamo parlando dell’articolo 1 del decreto legge del 24 gennaio 2015, appunto quasi due anni fa, che imponeva alle banche popolari di maggiori dimensioni di trasformarsi in società per azioni entro un termine ora di imminente scadenza, pena, di fatto, il ritiro della licenza bancaria, o in alternativa il ridimensionamento sotto una certa soglia patrimoniale, operazione praticamente impossibile senza impoverire l’istituto. Dato che la trasformazione in Spa è una delle operazioni straordinarie nelle quali al socio dissenziente è concessa la possibilità di vedersi liquidate le azioni, veniva prevista la possibilità di limitare questo diritto, in particolare per evitare che l’esborso indebolisse patrimonialmente le banche, tanto più in una fase nella quale ne veniva invece richiesto, se non imposto, l’irrobustimento. Alcuni dubbi sulla riforma erano stati sollevati immediatamente, ma non c’era stata una risposta chiara e convincente. Anzi, in alcuni giudizi si era detto che andava bene così. Così quasi tutti gli istituti sono andati avanti secondo quella che pareva la normativa in vigore. Quasi due anni dopo però si scopre che «appaiono sussistenti la legittimazione e l’interesse al ricorso rispetto ai soci (rispettivamente della Banca Popolare, della Banca Popolare di Sondrio, della Banca Popolare di Milano e dell’Ubi – Unione Banche Italiane), in quanto i provvedimenti impugnati (e la disciplina legislativa sulla cui base sono stati adottati) incidono direttamente su prerogative relative allo status di socio della banca popolare, così presentando profili di immediata lesività», come si legge nella decisione del Consiglio di Stato.

Se dovesse cadere la riforma, in sostanza, le banche che hanno deciso la trasformazione in Spa e credevano di doverlo fare in virtù di un obbligo, anche pesante, di legge, scopriranno che in realtà non erano obbligate a farlo. Ma adesso che sono diventate Spa a seguito di una “libera” decisione dei soci in assemblea non possono ridiventare automaticamente una cooperativa solo perché la legge che li obbligava a farlo non è più valida: dovrebbero infatti votare nuovamente in un’assemblea che però adesso ha altre maggioranze e che difficilmente, per non dire mai, accetterà una nuova trasformazione che ne limita i diritti. Ma c’è di più. Ubi Banca ha potuto concedere il diritto di recesso solo per 13,17 milioni di euro, rispetto alla richiesta per 258 milioni da parte degli azionisti che ne hanno chiesto l’esercizio (ovvero il 5,26% dei titoli oggetto di recesso, pari allo 0,2% del capitale), perché era prevista una limitazione in modo che il patrimonio non scendesse sotto il coefficiente di capitale primario richiesto dall’Europa.

Se adesso dovrà concedere il rimborso anche a quanti non sono stati soddisfatti, dovrà pagare altri 245 milioni circa con corrispondente indebolimento del patrimonio che dovrà reintegrare, probabilmente con un aumento di capitale. Ma dato che in Ubi ci si era illusi che le regole del gioco fossero state finalmente definite e fissate, nel frattempo si era entrati nel concreto del discorso delle acquisizioni. In particolare Ubi sta facendo i conti per acquistare tre delle quattro good bank nate dalla risoluzione ((Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti). L’operazione dovrebbe comportare, insieme ad altre condizioni, anche un aumento di capitale per rafforzare in ogni caso il patrimonio e c’è discussione sull’importo che potrebbe essere necessario: e, a quanto si apprende, un centinaio di milioni in più o meno sono sentiti come una differenza sensibile. Possiamo immaginare quindi cosa possa avvenire se tra capo e collo arriva una mazzata da altri 245 milioni, per una vicenda tra l’altro ritenuta chiusa da tempo: sono botte che rischiano di bloccare tutto.

Situazioni simili a quella di Ubi sul recesso si trovano in tutti gli altri istituti che hanno già effettuato la trasformazione ed hanno conseguenze particolarmente pesanti nel caso della fusione tra Bpm e Banco Popolare, con costi supplementari imprevisti che rischiano di dovere ricalcolare l’operazione. Dato che a complicazioni si sommano le complicazioni, nei prossimi giorni sono in programma le assemblee degli ultimi tre istituti che ancora devono diventare Spa: la Popolare di Bari, quella di Sondrio e Volksbank. Che a questo punto non sanno bene cosa fare: la trasformazione rischia di diventare troppo onerosa, ma non trasformarsi rischia di fare violare una legge, che però non si sa bene se continuerà ad essere tale. Già si pensa ad un decreto che tamponi almeno la sospensione decisa dal Consiglio di Stato, in attesa che la Corte Costituzionale magari dica che la riforma non è anticostituzionale e tutto si risolva, anche se non si sa quando. Perché il problema non sono le regole, ma la loro incertezza e i tempi con i quali si prendono le decisioni. Nella triste rassegnazione che nel frattempo ci saranno ancora altre modifiche, non si sa come, non si sa in quale direzione.