InGruppo, entra Ezio Gritti. E al ristorante si va con l’autista

ingruppoDal 16 gennaio al 30 aprile 2017, gli chef dei più rinomati locali bergamaschi danno vita alla quinta edizione di Ingruppo, il progetto che mette insieme ambienti, gusto, tradizione e innovazione. Diciannove professionisti della ristorazione bergamasca, con due “escursioni” nelle province di Lecco e Milano, uniranno le forze per rimarcare la loro appartenenza ad un progetto volto alla valorizzazione del moderno ristorante. Lo faranno con prezzi accessibili. Perché il vero obiettivo di Ingruppo è portare nei propri ristoranti quella parte di clientela intimorita dalla spesa eccessiva e la clientela più giovane con l’augurio d’educarla al piacere di una sosta che generi una felicità a tutto tondo.

Le novità

La nuova edizione di Ingruppo si avvale di alcune importanti novità. A unirsi ai ristoratori che da tempo animano Ingruppo (i titolari di A’Anteprima, Al Vigneto, Antica Osteria dei Camelì, Casual Ristorante, Colleoni & Dell’Angelo, Collina, Nuova Trattoria Dac A Trà, Da Vittorio, Ristorante Enrico Bartolini al Mudec, Frosio, Il Saraceno, La Caprese, Lio Pellegrini, Loro, Osteria della Brughiera, Posta, Roof Garden Restaurant, Villa Patrizia Ristorante) quest’anno vi sarà Ezio Gritti, col suo ristorante omonimo inaugurato recentemente sul Sentierone, nel cuore di Bergamo. Una new entry attesissima, che fa già gola a tutti gli appassionati di alta cucina e che con le sue ricette, intrise di tradizione e autenticità, darà nuova energia a tutta l’iniziativa.

Ma non è tutto: per la nuova, attesissima, stagione, Ingruppo ha deciso di attivare una speciale convenzione che darà la possibilità agli avventori dei propri ristoranti di lasciare a casa l’auto. Ingruppo, infatti, ha voluto fare sistema con il territorio, contribuendo alla promozione dell’eccellenza enogastronomica locale su strade più sicure, attraverso una mobilità più efficiente e sostenibile: per questo, i clienti di Ingruppo potranno evitare corse e code per i parcheggi e affidarsi ad autisti professionisti, evitando di mettersi alla guida al termine della cena. Il tutto, ad un prezzo speciale.

La formula

Per il quinto anno consecutivo Ingruppo conferma la sua formula: dal 16 gennaio al 30 aprile 2017, con l’esclusione del 14 febbraio e del 16 aprile (giorno di Pasqua), i ristoranti aderenti all’iniziativa offriranno la possibilità di consumare menù completi (almeno un antipasto, un primo, un secondo e un dolce con, c’è da scommettere, golose sorprese degli chef) comprensivi di vino, bevande e caffè, al costo prestabilito di 55 euro a persona per 16 dei 19 ristoranti coinvolti. Mentre il costo sarà di 110 euro a persona per tre di loro (A’Anteprima, Da Vittorio, Enrico Bartolini Mudec). La formula è valida sia a pranzo che a cena compatibilmente con i giorni di apertura dei locali. La prenotazione può essere effettuata via telefono o via e-mail, direttamente al ristorante, specificando la richiesta del menù “Ingruppo”.


Olio d’oliva, ma come si fa a capire quando è buono?

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È su tutte le nostre tavole, ma siamo in grado di stabilire se un olio d’oliva è buono o scadente? E, non meno importante, lo conserviamo nel modo giusto? Perché la dicitura “olio extravergine di oliva” da sola non garantisce che siamo di fronte a un olio di qualità.

Con l’aiuto di Marco Antonucci, da molti anni impegnato a livello internazionale nella diffusione della cultura dell’extravergine e dell’analisi sensoriale attraverso seminari, corsi, incontri, guide, articoli e pubblicazioni di carattere sia divulgativo che universitario, abbiamo realizzato un vademecum fatto di piccoli trucchi che vi aiuteranno a riconoscere un olio buono da uno che non lo è. E a conservarlo in modo corretto. Tanto per iniziare, sfatiamo subito una convinzione diffusa: il colore non è importante.

Leggere con attenzione l’etichetta

Il primo consiglio è leggere bene l’etichetta. Più informazioni sono riportate, più chiare sono, e più possiamo fidarci del prodotto. L’indicazione Igp o Dop, che garantisce che l’olio è di una determinata area, e il marchio di consorzi locali possono essere buoni indici di qualità, oltre a tutte le indicazioni di legge.

È importante verificare anche la provenienza delle olive: non c’è una regione di provenienza migliore dell’altra, ma esistono tecniche virtuose di gestione dell’oliveto, raccolta, trasformazione e conservazione che permettono di avere un olio di qualità. Se le olive sono lavorate in frantoio aziendale, ad esempio, è una garanzia in più (il frantoio aziendale consente la lavorazione delle olive dopo poche ore dalla raccolta, conferendo agli oli alti valori nutrizionali). Altre informazioni importanti sono i dati del confezionatore (se non è lo stesso produttore), il numero del lotto (che facilita la rintracciabilità), il contenuto in acido oleico, di polifenoli, di vitamina A, D ed E. La trasparenza informativa tra produttore e consumatore è un elemento decisivo nel mercato di oggi. Il consiglio di Coldiretti è di guardare anche la data di scadenza e preferire l’extravergine nuovo guardando l’annata di produzione che molti indicano volontariamente in etichetta.

«Da qualche anno c’è scritto se l’olio è comunitario o non comunitario – dice Antonucci -. L’indicazione da cercare è “prodotto e confezionato da”. È questa “e” a fare la differenza. Anche la scritta “olio italiano al 100%” va benissimo ed è garanzia di qualità. Al contrario, la scritta “olio proveniente da Comunità europea” deve far pensare che l’olio può essere spagnolo o greco. Se è riportato anche l’anno di raccolta è un altro segno di qualità. Se non c’è scritto, è facile che nella bottiglia siano presenti anche oli di altri anni». «Il colore, invece, non va considerato – aggiunge – non dà né gusto né profumo».

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Il profumo deve ricordare l’oliva

Quello che leggiamo in etichetta non basta a garantire la qualità. È importante anche valutare la componente olfattiva. L’olio deve avere un profumo che ricorda l’oliva, perché alla fine non è altro che una spremuta di olive (in gergo si dice che l’olio deve avere un “fruttato maggiore di zero”). Sembra una banalità scriverlo, però è utile e da tenere sempre a mente. Se profuma di erba appena tagliata, di pomodoro, carciofo, mela o mandorla, siamo in presenza di un buon prodotto.

Deve avere un gusto amaro e piccante

«L’olio è come il vino, per capire se è buono va assaggiato – spiega Antonucci -. Se all’assaggio si nota una sensazione di amaro in bocca, leggermente tendente al piccante in gola, allora l’olio è buono». Amaro e piccante, insieme al fruttato, sono i tre pregi che un buon olio extravergine deve avere e garantiscono anche le proprietà salutistiche del prodotto: alcuni composti nobili dell’olio come l’oleuropeina e l’oleocantale (l’uno antinfiammatorio, l’altro antiossidante potentissimo) garantiscono la loro presenza nel prodotto proprio attraverso il gusto, il primo di amaro e il secondo di piccante. Per assaporare bene l’olio lo si tiene su palato e lingua almeno 20 secondi, quindi si deglutisce.

olio oliva - bottiglietta paneNon deve essere rancido né acido

Uno dei difetti più comuni dell’olio è il “rancido”, dovuto all’invecchiamento dell’olio che è causato dalla luce, dal calore o dall’ossidazione (come sapore e odore assomiglia al grasso del prosciutto crudo lasciato una giornata al caldo a contatto con l’aria). «Per bene che lo si conservi, a un certo punto muore, come il burro – spiega Antonucci -. Dipende da come è conservato, ma in generale la durata media di un olio è un paio di anni».

Un altro difetto è la fermentazione. «Le olive si raccolgono la mattina e si portano al frantoio il pomeriggio. Se si lascia passare più tempo e le olive vengono ammassate in ambienti poco aerati e umidi, fermentano. In questo caso l’olio assume un leggero odore di aceto». In generale, se si percepiscono odori che richiamano verdure o frutti passati o peggio ancora l’odore della salamoia o di rancido, è segno che il prodotto è scadente e forse non è nemmeno extravergine.

Non deve avere il fondo

«Un terzo difetto che può avere l’olio è di presentare il fondo. «Come per il vino, anche per l’olio, la bottiglia non deve avere il fondo. Se l’olio è novello va bene, ma va consumato subito. In generale però è sempre bene filtrare l’olio ed evitare di acquistare oli che presentano uno strato sul fondo della bottiglia», consiglia Antonucci.

Non può costare meno di 12 euro

«Il detto “costa poco, vale poco” nel caso dell’olio d’oliva va tenuto sempre a mente. Bisogna diffidare degli oli a prezzi bassi. Un buon olio extravergine di oliva, lavorato con metodi artigianali e di qualità, deve avere un costo minimo di 12 euro al litro. Se il prezzo è più basso, quasi di sicuro la sua qualità non è eccellente ed è composto da un mix di oli provenienti da Paesi europei ed extra-europei, non soltanto da olio extravergine di provenienza italiana. La cosa migliore è acquistare l’olio direttamente dal produttore, sia per risparmiare accorciando la filiera, sia per avere la possibilità di assaggiare il prodotto prima dell’acquisto e per verificare personalmente come avviene la produzione».

Va conservato come il vino

Una volta acquistato un buon olio extravergine, è importante conservarlo nel modo corretto. «L’olio è più delicato del vino. La prima accortezza è evitare di sottoporlo a temperature elevate e dividere la damigiana in tante bottiglie. Se lo acquisto in Puglia in damigiane e lo metto nel baule dell’auto a una temperatura di 40 gradi e poi, arrivato a casa, lo ripongo in cantina lo uccido». Anche la conservazione in casa richiede alcune attenzioni. «Molti conservano male l’olio – avverte Antonucci -. La bottiglia deve essere riposta lontano dai fornelli e al buio, a una temperatura tra gli 11 e i 16 gradi, altrimenti si guasta. Inoltre quando si apre una bottiglia bisogna richiuderla subito, cosa che non si fa di solito. A differenza del vino, infatti, l’olio non ha conservanti quindi se si lascia aperto si ossida. Infine, quando la bottiglia è finita la si deve buttare perché sulle pareti si forma dell’olio ossidato». «Se si conserva l’olio come il vino non si hanno problemi» garantisce l’esperto.


Aeroporto, nel 2016 passeggeri in crescita del 7,6%. In calo i movimenti cargo

L’aeroporto di Orio chiude il 2016 con un consuntivo di 11.159.631 passeggeri, che corrisponde a un incremento del 7,26% rispetto al dato 2015 quando si raggiunse la cifra di 10,4 milioni di passeggeri. Il risultato, a cui ha contributo in termini generali l’ulteriore crescita del load factor sui voli di linea e che si accompagna a uno dei migliori indici di puntualità su scala mondiale nella categoria aeroportuale corrispondente ai volumi di traffico, consente di consolidare la terza posizione nella classifica degli aeroporti nazionali dopo Roma Fiumicino e Milano Malpensa. Sul fronte delle merci aeree si registrano la diminuzione del 4,2% dei movimenti cargo, che riflette il progressivo efficientamento del comparto e corrisponde in media a un volo giornaliero in meno, e la sostanziale conferma dei livelli di movimentazione, attestati nel 2016 a circa 118mila tonnellate, – 2,7% rispetto al 2015, permettendo di conservare funzione e valore primari del polo logistico courier.

 

 


Agenti di commercio / «Lavorare è sempre più complicato. Obiettivo potenziare il supporto»

Il 2016 degli agenti di commercio è stato contrassegnato a livello nazionale dalle prime elezioni per scegliere i delegati chiamati a rappresentare l’Enasarco, il secondo ente erogatore di pensioni dopo l’Inps, eletto da 280mila agenti e imprenditori.

Il rinnovo dei vertici dell’Ente ha chiamato a raccolta e mobilitato anche gli agenti bergamaschi, motivati nell’intraprendere un percorso di rinnovamento realmente condiviso. «Il rinnovo delle cariche Enasarco nazionale ha portato ad una mobilitazione anche a livello provinciale, in coordinamento con gli altri sindacati per la formazione del nuovo consiglio direttivo eletto con il nuovo statuto – spiega Massimo Bottaro, presidente del Gruppo Agenti di Commercio Ascom -. Gli incontri hanno rappresentato l’occasione di confrontarsi sulle problematiche della categoria che, salvo settori ad elevatissima specializzazione, ha visto negli ultimi anni una progressiva compressione dei margini di agenzia, con volumi d’affari calati anche del 30 per cento. Con la crisi, le trattative commerciali si sono poi allungate, richiedendo più visite al cliente per la firma dei contratti e incassi più complicati, per non parlare delle “indagini” finanziarie che ci tocca condurre per verificare la solvibilità dei firmatari. Continuano ad aumentare le ore di lavoro non retribuito per gli agenti, tra maggior assistenza alla clientela, mail e verifiche».

In un contesto di crescenti difficoltà e complicazioni, le aziende faticano a trovare agenzie di riferimento: «Molti agenti si arrendono di fronte a margini ridotti di guadagno e le aziende si trovano così costrette ad assumere personale deputato alle vendite o ad affidare a risorse interne trattative commerciali» continua il rappresentante Ascom della categoria.

Crisi e globalizzazione stanno segnando il tramonto dell’agente plurimandatario: «Le aziende ormai cercano di coprire l’intera gamma commerciale del settore per non tralasciare potenziali mercati e difendersi da una concorrenza crescente – continua Bottaro -. Per l’agente diventa sempre più difficile tenere più di un mandato senza incorrere in contenziosi, in un mercato in cui si perde la diversificazione commerciale che garantiva la rappresentanza di più settori».

Nel 2017 Bottaro punta a incrementare il numero degli associati e ad intensificare l’attività sindacale: «A breve organizzeremo un convegno per illustrare le novità che il rinnovo dell’Enasarco porta con sé per la categoria e per affrontare problematiche comuni, tra cui la viabilità. È inoltre importante fare conoscere agli agenti il servizio di consulenza che settimanalmente offre Ascom e che da anni aiuta la categoria a risolvere le più svariate problematiche». Il servizio è curato dall’esperto Giuseppe Rosignoli ed è a disposizione ogni lunedì mattina nella sede di via Borgo Palazzo 137, con libero accesso (info 035 4120176).


L’inno alla “ciccia” del macellaio-poeta

In tempi in cui della carne si preferisce avere la visione più distante possibile dall’animale – in forma di fettine o arrosti, belli e pronti da mettere in padella – Dario Cecchini, il macellaio di Panzano in Chianti che ha reso il suo negozio una meta turistica internazionale, fa l’esatto contrario e trasforma in uno show (riuscitissimo!) niente meno che il sezionamento e il taglio di una mezzena di manzo.

È stato lui l’ospite della cena degli auguri dell’Associazione cuochi bergamaschi, che nell’occasione lo ha nominato socio onorario.

Gesti sicuri, parlata schietta e i versi di Dante a dire che dentro le vene di questo artigiano, erede di una tradizione nella macelleria lunga 250 anni, scorre anche il gusto per la poesia. «L’animale bisogna trattarlo il meglio possibile, dargli cibo buono, una vita lunga e una morte dignitosa, più compassionevole possibile. E per rendergli il giusto onore va usato tutto, dal naso alla coda, perché se la qualità c’è, è dappertutto». È il primo caposaldo del Cecchini-pensiero.

Il secondo, e conseguente, è l’elogio delle parti meno nobili. «La prima ricetta dell’Artusi è il brodo, che, guarda caso, si fa con le ossa, non con il filetto». E che dire della pancia del manzo? «Oggi ci si fanno gli hamburger, ma a me sembra sprecata – evidenzia -, prima ci si facevano bolliti eccezionali».

Sarà che è stato tirato su con gli “scarti” della macelleria di famiglia. «Da piccolo pensavo che la mucca avesse 5 teste, 20 zampe e 4 code – ricorda -. Le bistecche erano per i clienti e alla nonna portavano da cucinare tutto ciò che in bottega non era richiesto. La mia “prima volta” con la bistecca è stata al compimento dei 18 anni: è stato meraviglioso, ma è stato meraviglioso anche tutto quanto avevo mangiato fino ad allora, grazie alla sapienza in cucina della nonna».

Natale del cuoco 2016 -premiazione cecchiniIl giusto incentivo ai cuochi in sala a trasformare con passione e arte anche le parti più difficili. «Anche la gente, che ha sempre visto il manzo come un oggetto misterioso, sta cominciando a capire che la carne non deve essere per forza magra», rassicura Cecchini, che intanto svela un segreto: «Il taglio migliore, quello che i macellai non vendono mai ma che tengono come ricompensa per la famiglia è il “ragno”, un pezzettino brutto e un po’ grasso, con delle nervature a mo’ di ragnatela, da cui il nome». Dalla coscia, farcita di midollo e insaporita con sale e aromi, ha invece ricavato il pezzo forte di Natale della sua macelleria, il brasato al midollo.

Quanto alla bistecca, le regole sono poche ma tassative. «Deve essere alta troppo, grande troppo e bella troppo. Sotto i quattro centimetri è carpaccio – sentenzia – . Va cotta sulla brace otto minuti da un lato, otto dall’altro e otto per in piedi e mangiata nella maniera più primitiva possibile, portando in tavola solo sale e olio».

Con buona pace della fettina.


Ubi banca, presentata l’offerta vincolante per le “good banks”

Su proposta del Consiglio di gestione, ieri il consiglio di sorveglianza di Ubi Banca, ha approvato e inviato al Fondo di Risoluzione un’offerta vincolante per l’acquisto del 100% del capitale delle “good banks” nate dalla risoluzione di Banca Marche, Etruria e Carichieti. L’offerta – che ha una validità fino al prossimo 18 gennaio –  prevede il closing nel primo semestre dell’anno, “previo soddisfacimento delle condizioni sospensive dell’operazione”. Il prezzo offerto per l’acquisizione e’ di 1 euro. La proposta prevede che, prima del closing, le tre “good bank” vendano pro-soluto circa 2,2 miliardi di crediti deteriorati lordi (1,7 miliardi di sofferenze lorde e 500 milioni di inadempienze probabili lorde). Marche, Etruria e Carichieti dovranno inoltre rispettare su base aggregata alcuni parametri, con una “soglia di tolleranza del 5%”: patrimonio netto contabile di almeno 1,01 miliardi, asset ponderati per il rischio (Rwa pillar 1) non superiori a 10,6 miliardi, liquidity coverage ratio medio ponderato superiore al 100% e Cet1 medio ponderato non inferiore al 9,1%. Il Fondo di Risoluzione, infine, dovrà impegnarsi a ricapitalizzare le tre banche per 450 milioni prima del closing.


Seriate, facciate rifatte in centro con i contributi del Comune

municipio seriate

A Seriate gli incentivi del Comune per la riqualificazione centro storico rifanno il look a sei edifici. Nel 2016 sono state infatti sei le famiglie che hanno ottenuto i contributi a fondo perduto previsti dal regolamento comunale per il recupero del patrimonio edilizio di piazza Bolognini e vie adiacenti. L’ammontare è di circa 12.800 euro, a supporto di interventi di miglioria e valorizzazione estetica, ristrutturazione edilizia e riqualificazione delle facciate delle abitazioni.

«Promuovere il recupero del patrimonio edilizio del centro storico, con l’erogazione di incentivi economici, è una delle tante azioni promosse dall’Amministrazione comunale per ridurre il degrado di questa zona centrale della città – dichiara il sindaco Cristian Vezzoli -. I contributi si aggiungono ad altri interventi per il recupero del centro, come la recente pulizia e sanificazione di piazza Bolognini, il bando sul rilancio dei negozi sfitti e del commercio, le iniziative di intrattenimento, la presenza del presidio dell’Anppe e degli agenti di Polizia locale. Accanto alla soddisfazione per questi interventi resta l’amarezza per tutti quei proprietari che, nonostante gli incentivi fiscali, si disinteressando del decoro del proprio immobile e sui quali si vuole intervenire severamente quest’anno».

Nel giugno scorso, a seguito di sopralluoghi, il Comune aveva infatti inviato 85 lettere ai proprietari delle case del centro storico le cui facciate versano in stato di degrado, per sollecitarne tempestivi interventi manutentivi entro 90 giorni dalla ricezione della missiva, annunciando sanzioni in caso di inottemperanza agli obblighi normativi.

Il contributo erogato nel 2016 dal Comune ha coperto parte delle spese riguardanti la tinteggiatura degli edifici siti in via Cerioli al civico n. 40, quelli in via Decò e Canetta al civico n. 3-5 e al n. 20, l’abitazione in via Italia al n. 65, la manutenzione ordinaria per la sistemazione del dipinto murale della Madonna dell’Immacolata Concezione in via Molino Vecchio e la ristrutturazione e tinteggiatura del fabbricato in via Molino Vecchio al civico n. 20/A-22-24.


Venerdì in sciopero gli autisti Sab, previste le fasce di rispetto

“Non vogliamo parole, ma accordi. Non promesse, ma certezze”. I sindacati dei trasporti di Cgil Cisl e Uil di Bergamo partecipano allo sciopero su scala regionale indetto per venerdì 13 gennaio nei confronti del gruppo Arriva, per protestare contro le diverse aziende del gruppo (a Bergamo la SAB) che si sono rese nei fatti “indisponibili alla firma di accordi territoriali di garanzia dei livelli occupazionali e delle condizioni economiche dei lavoratori, nonostante nel verbale della prefettura il gruppo abbia dichiarato che non ci sono processi di esuberi o crisi”. La Rsu e le segreterie provinciali di Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti hanno invece dato piena disponibilità a aprire una trattativa che garantisse il passaggio dalla normativa ASSTRA a quella ANAV per tutti i lavoratori a fronte di due garanzie: il mantenimento dei posti di lavoro (in provincia gli addetti SAB sono 360) e quello delle attuali condizioni economiche. “Se la SAB si fosse resa disponibile – sostengono Marco Sala, Antonio Scaini e Giacomo Ricciardi, per Filt, Fit e Uiltrasporti – i sindacati avrebbero potuto aprire una trattativa sulle garanzie sugli inidonei, orario di lavoro, agente unico, accorpamenti depositi e trasferte, malattia, ferie, sinistri, massa vestiario. Tutti punti che, oltre a essere parte integrante dell’attuale organizzazione del lavoro determinano il risultato economico in busta paga rispetto alla prestazione svolta”. “Non esprimiamo giudizi sulla lettera di SAB in cui si offrono proposte irricevibili senza minimamente considerare che le flessibilità oltre al Ccnl vanno definite tra le parti, e non a compensazione”. “Se non vi è garanzia dei posti di lavoro e dei livelli economici – concludono i tre sindacalisti -, per i lavoratori significa che il Gruppo Arriva vuole mettere le mani nella busta paga dei dipendenti, solo con il passaggio da ASSTRA a ANAV, non lo consentiremo”. Lo sciopero di venerdì 13 gennaio, proclamato per le 24 ore, attuerà fasce di rispetto dalle 6 alle 8,30, e dalle 12,30 alle 16,00.

 

 


Il Censis: «Il consumo di carne è minacciato da falsi miti»

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«Il consumo di carne in Italia non è eccessivo». A dirlo non sono gli allevatori, i macellai o i maestri della bistecca, ma il Censis.

L’autorevole istituto di ricerca ha effettuato nel settembre-ottobre 2016 lo studio “Gli italiani a tavola: cosa sta cambiando”, utilizzando i dati sulla dieta come chiave per raccontare i cambiamenti in atto nella società.

Ne è emerso un vero e proprio allarme sul rischio che l’equilibrio nutrizionale delle famiglie italiane («quella dieta da sempre considerata nel mondo un modello a cui ispirarsi») possa essere compromesso dalla riduzione del consumo di alimenti come carne, pesce, frutta e verdura. Un fenomeno dettato in primo luogo dalla crisi, ma anche dalle «leggende metropolitane proliferanti sul web che demonizzano alcuni suoi alimenti di base (con la carne in testa)».

Tanto per cominciare, il Censis precisa che «i consumi “reali” di carne sono di gran lunga inferiori a quelli “apparenti”, che includono impropriamente anche le parti non edibili dell’animale e sui quali si basano le statistiche ufficiali. Studi scientifici hanno permesso di calcolare il valore reale di consumo stornando il peso delle parti non edibili: nel caso del bovino, tale valore corrisponde a poco più della metà (il 55%) del valore apparente, per un consumo reale pro-capite in Italia che si attesta tra i 10 e gli 11 kg ogni anno, ovvero circa due porzioni alla settimana, una quantità in linea con le raccomandazioni di medici e nutrizionisti».

L’Italia, inoltre, è nella posizione bassa della graduatoria per consumo di carne tra i principali paesi Ue, con 79,1 kg pro-capite all’anno: solo Grecia e Regno Unito, con un consumo rispettivamente di 72,6 e 76,6 kg pro-capite all’anno, si posizionano al di sotto del nostro Paese.

«Mangiare carne – prosegue la ricerca – non è contro la buona nutrizione. Un moderato consumo di carne è previsto dalla dieta mediterranea, considerata la più efficace per migliorare la qualità della vita e prevenire le principali patologie. Le proprietà nutritive della carne sono uniche nel loro genere: contiene proteine nobili, vitamine (tra cui la B12), ferro altamente disponibile. Inoltre, è un alimento ad alta efficienza nutrizionale: a parità di nutrienti, apporta meno calorie rispetto ad altri, riducendo il rischio di sovrappeso».

Mentre viene ridimensionata la pericolosità sulla salute. «Le patologie del benessere – si spiega -, aumentate negli ultimi venticinque anni (sovrappeso e obesità +26,3%, ipertensione +92,9%, diabete +180,3%), spesso sono state erroneamente associate al consumo di carne rossa, il cui consumo negli stessi anni è, invece, diminuito (-29,4%). Rispetto all’allarme lanciato nel 2015 dallo Iarc sulla cancerogenicità della carne rossa, va detto che lo studio si esprime in termini di probabilità, non di certezza, fa riferimento a quantità medie di consumo di carne molto al di sopra delle quantità effettivamente consumate in Italia e si riferisce principalmente a carne e prodotti per composizione (grasso, ingredienti, ecc.) differenti da quelli regolarmente consumati nel nostro Paese. Infine, lega il consumo eccessivo di carne rossa non alla possibilità di sviluppare il cancro, ma al possibile aumento del rischio relativo di ogni individuo di svilupparlo (rischio legato a una molteplicità di fattori individuali, comportamentali e ambientali, quindi non solo ad un unico fattore)».

MACELLAISenza dimenticare che la carne italiana è controllata. «Il modello italiano di controllo e di tracciabilità delle carni è un’eccellenza a livello mondiale – ricorda il documento – e garantisce ai livelli massimi possibili l’assenza nelle carni di residui di sostanze vietate o oltre i limiti consentiti, come testimoniano i periodici controlli ministeriali che attestano una presenza di residui nelle carni pari ad appena lo 0,2% (Piano Nazionale Residui)».

Sfatata anche l’idea che la carne sia un alimento grasso, quindi con conseguenze negative sulla salute, «poiché, grazie a tecniche di allevamento, selezione della specie e dieta degli animali, si è nel tempo modificata la sua composizione lipidica, riducendo il grasso totale fino al 50% e la percentuale di acidi grassi saturi».

E rispedite al mittente pure le obiezioni sui costi ambientali troppo alti. «La filiera della carne in Italia è estremamente efficiente e virtuosa: incarna un modello di economia circolare, con riciclo e minimizzazione di scarti e rifiuti, che sono più che dimezzati rispetto alla filiera di frutta e verdura e quasi la metà di quella dei cereali.
Evidenze scientifiche mostrano che l’impatto sull’ambiente della produzione di carne, se calcolato sulla base della frequenza di consumo secondo le raccomandazioni, è allineato con quello di altri alimenti, consumati con maggiore frequenza e in maggiori quantità. Se assunti nelle giuste quantità, le varie categorie alimentari hanno, quindi, un peso ambientale molto simile. L’Italia, oltretutto, grazie alla combinazione di allevamenti estensivi e intensivi, ha una produzione di carne bovina a più basso impatto sul consumo di acqua (11.500 litri necessari per kg) rispetto alla media mondiale (15.400 litri): per la maggior parte (10.000 litri) si tratta di acqua piovana, fonte rinnovabile e sostenibile».


Carne, cala il consumo ma non per tutti allo stesso modo

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Il calo del consumo di carne c’è, ma non per tutti allo stesso modo. Lo ha evidenziato la ricerca “Gli italiani a tavola: cosa sta cambiando” realizzata dal Censis nel settembre-ottobre 2016, utilizzando i dati sulla dieta come chiave per raccontare i cambiamenti in atto nella società.

Il periodo preso in considerazione è quello degli anni della crisi (2007-2015), nel quale si evidenzia una riduzione da parte delle famiglie della spesa per i consumi alimentari del 12,2% e, in particolare, del 16,1% quella per la carne «l’alimento che nei decenni passati segnava simbolicamente l’ingresso delle famiglie nel benessere», sottolinea lo studio. Il fenomeno viene però analizzato più nel dettaglio e allora si scopre che, nella crisi, le famiglie meno abbienti, quelle operaie e quelle in cui il capofamiglia è in cerca di occupazione, che mediamente consumano meno carne rispetto a quelle degli imprenditori, hanno subito una più intensa riduzione della spesa, accentuando il divario. Si è perciò instaurata, secondo la ricerca, «la logica socialmente regressiva del “meno mangi carne, più devi ridurla”».

Carne, consumi a confronto

  • nel 2015 la spesa per acquistare la carne per i membri di famiglie operaie è stata dell’11,8% inferiore rispetto a quella delle famiglie di imprenditori, mentre la differenza si fermava al 6,9% nel 2007. Sempre nel 2015, le famiglie con a capo un disoccupato hanno sostenuto una spesa per la carne del 29,1% inferiore rispetto alle famiglie degli imprenditori, mentre era inferiore del 18,2% nel 2007;
  • in termini di variazione percentuale, nel periodo di crisi le famiglie operaie (-20,0%) e quelle con a capo un disoccupato (-26,7%) hanno ridotto la spesa per la carne in misura maggiore rispetto alle famiglie degli imprenditori (per le quali si registra un -15,5% di spesa in meno).

Sul consumo di carne bovina, in particolare, dai dati emergono tagli ancora più significativi nel periodo della crisi proprio da parte delle famiglie che già in precedenza consumavano quantità inferiori di questo alimento:

  • le famiglie operaie sostengono nel 2015 una spesa per la carne bovina del 16,7% inferiore a quella delle famiglie di imprenditori, mentre il divario era dell’11% nel 2007. Le famiglie con a capo un disoccupato registrano una spesa per consumo di carne bovina del 30,8% in meno rispetto a quelle degli imprenditori, divario raddoppiato rispetto al 2007, quando era del 15,7%;
  • in termini di variazione percentuale della spesa per la carne bovina, le famiglie operaie tagliano del 38,5%, quelle con capofamiglia in cerca di lavoro del 46,1%, mentre quelle degli imprenditori del 34,3%.