San Pellegrino, taglio del nastro alle nuove terme

È stato il presidente della Lombardia Roberto Maroni al tagliare il nastro delle Terme di San Pellegrino rinnovate e rilanciate dalla Stilo Immobiliare Finanziaria del Gruppo Percassi. L’inaugurazione è avvenuta nella serata di giovedì 18 dicembre e dal 19 la struttura si è ufficialmente aperta al pubblico. L’intervento restituisce alla cittadina brembana quel servizio storico che l’ha resa famosa ed è un ulteriore tassello per il suo rilancio turistico. Il complesso, che unisce sapientemente passato e futuro, ha richiesto 25 milioni di investimento e otto anni di lavoro. Si sviluppa su 4mila metri quadri di superficie coperta, altri 5mila di spazi esterni, 15 vasche a differenti temperature, 5 tipologie di saune, 3 di bagni vapore, stanze del ghiaccio e del sale, una zona massaggi e un’altra relax. La gestione è affidata a Qc Terme.
«Stasera si dà una prima attuazione a un importante Accordo di programma, su cui ha investito la Regione. Un accordo che ha coinvolto pubblico e privato con un bell’esempio di leale collaborazione tra Istituzioni e tra Istituzioni e privati per questo vitale intervento di riqualificazione di una struttura molto importante per San Pellegrino e per tutta la Valle Brembana» sono state le parole di Maroni, che ha aggiunto: «L’impegno della Regione c’è stato, sono già stati messi 10 milioni, ci sono altri 8 milioni che devono essere ancora investiti e confermo che le risorse che ha messo la Regione in questo accordo rimangono e ci saranno, nonostante i tagli ingenti che, come Regione, stiamo subendo».


Quando Bergamo era terra di ulivi. Anche Petrarca se ne fece inviare uno

Immagine mostra: Roma in tavola nel MedioevoRiferiscono i biografi di Francesco Petrarca che nell’aprile del 1357 il poeta, indossate le inusuali vesti del giardiniere, trapiantò nel verziere della Basilica di Sant’Ambrogio un ulivo che si era fatto inviare dalla finitima Bergamo. Poco sorprende che l’audace tentativo di acclimatazione dell’arboscello alle brume milanesi non fosse coronato da fausto esito. L’umanista ritentò l’esperimento un paio d’anni più tardi, nel glaciale marzo del ’59, ma anche stavolta la pianticella rinsecchì nel volgere di qualche settimana. “Sono fermamente convinto che codesta terra sia ostile a quest’albero”  – concluse scorato il dafneo cantore, irriso dal rigoglioso verdeggiare dell’oleacea sui colli appena al di là dell’Adda.

La Milano dei cimenti botanici petrarcheschi non doveva differire molto da quella magnificata una dozzina di lustri prima nel De magnalibus Mediolani di Bonvesin de la Riva. Ad onor del vero il panegirico del Magister di Porta Ticinese andrebbe sfrondato da qualche iperbole di troppo, frutto della già all’epoca proverbiale inclinazione meneghina alla spacconeria. La megalopoli da duecentomila abitanti di cui scrive Bonvesin in realtà albergava, a prestar fede all’autorevole storico Jacques Le Goff, non più di ottantamila anime. Ed il cronista medievale l’aveva probabilmente sparata grossa anche nel computo di macellerie e forni del pane – enumerati in oltre quattrocento per ambo le categorie – se è vero che oggi ne bastano meno di un terzo per sfamare più di milione e trecentomila bocche. E’ comunque indiscutibile che proprio in quei decenni la roccaforte dei Visconti avesse imboccato una spedita ascesa verso la supremazia sul quadrante nord-occidentale della Penisola. “Terrestrium decus urbium” – l’aveva incoronata non senza calcolo politico il Petrarca, parafrasando fedelmente l’epifrasi bonvesiniana di “più splendida tra tutte le città del mondo”.

Nel corso della quasi decennale permanenza a Milano il poeta ebbe ricorrenti contatti con Bergamo ed il suo contado, freschi di assoggettamento alla serpe del blasone visconteo. Tra il 1357 ed il 1359 sono documentati almeno tre suoi soggiorni presso la rocca di Pagazzano, all’epoca circondata da secolari foreste che gli dovevano ricordare la silva ingens dell’Appennino parmense nei dintorni dell’amata Selvapiana. Durante l’ultima di queste villeggiature il cantore rese visita anche al capoluogo, su invito di un fervente ammiratore che vi risedeva. Le cronache narrano che al suo arrivo alle porte del centro abitato il Petrarca fosse accolto da una grande folla, tra cui spiccavano il governatore della provincia ed i podestà del comune. Per l’occasione fu anche imbandita una tavola degna di un re, ignorando forse che il frugalissimo ospite aborrisse i convivi troppo fastosi e le vivande elaborate.

Nonostante la benevola gaffe del nostri antenati, è comunque assai verosimile che la Bergamo di quei giorni non fosse affatto dispiaciuta al padre dell’umanesimo, antesignano tra gli estimatori del decoro urbano. Da ormai più di vent’anni le autorità municipali avevano infatti bandito dalla cerchia delle mura le torme di porci – al tempo abituali ospiti di ogni agglomerato – di cui il vate mal sopportava “la turpe vista e l’ingrato suono” (l’avanguardista Milano avrebbe adottato un analogo provvedimento solo due secoli più tardi). Con ampio anticipo su ogni altro comune Italiano di pari rango, nella nostra città era altresì elevato divieto di gettare lordure in strada dalle case e dalle logge, tutte le vie erano lastricate e le cloache fluivano ordinatamente nel sottosuolo.
Gli ulivi di cui il poeta aveva trapiantato i virgulti costituivano una nota tutt’altro che occasionale del paesaggio bergamasco dell’epoca. In particolare le alture tra Ponte San Pietro ed il capoluogo, secondo la descrizione che nel XII secolo ne forniva Mosé del Brolo, ne erano coperte  per estesi tratti, assai fitti tra Mozzo e Longuelo. Anche l’antica toponomastica di Città Alta comprendeva almeno un paio di riferimenti a poggi minori indicati come uliveto, segnatamente in Borgo Canale e nei pressi di Rosate. Per quanto a quei tempi tra i grassi alimentari primeggiasse incontrastato il lardo, l’imposizione ecclesiastica di un draconiano regime di magro per circa un terzo dell’anno assegnava un ruolo di rilievo anche agli oli vegetali. Tra questi quello di oliva si distingueva quale articolo di gran lusso, negoziato ad esorbitanti multipli di prezzo (sei volte tanto, secondo quanto rilevava qualche secolo più tardi Donato Calvi nell’Effemeride) dei più diffusi succedanei – l’olio di noci e quello di lino.
La diffusione della nobile pianta nel nostro circondario, consolidatasi nell’alto medioevo, si dimostrò ben altro che effimera. Ancora un secolo e mezzo fa il botanico Lorenzo Rota, nel suo Prospetto della flora della provincia di Bergamo, annotava che l’ulivo“percorre vigorosissimo la sponda bergamasca del Sebino, e s’avanza per ben quindici miglia verso Bergamo sulle colline di Gorlago e di Scanzo abbellendo di sua mansueta verdura la Valle Caleppio, e ricompare sull’amena costiera che sovrasta all’Adda tra Foppenico e Vercurago”. Ma proprio in quei decenni il diplomatico britannico John Bowring riferiva in una relazione sull’economia lombardo-veneta che sui nostri colli gli uliveti erano in via di espianto per essere rimpiazzati da più remunerative piantagioni di gelso, su impulso delle spietate leggi di mercato dettate dall’incipiente rivoluzione industriale. E rimorde davvero che ai nostri giorni solo pochi ettari di terreno restino ormai appannaggio della progenie dell’arboscello che, strappato ai feraci poggi di Bergamo, in spregio alle premure petrarchesche si lasciò morire di struggimento tra le fredde caligini dell’altera Milano.


Unione San Lucio, una festa tra premi e solidarietà

Al ristorante Papillon di Torre Boldone si è rinnovato – domenica 16 novembre – l’appuntamento annuale con la festa del patrono San Lucio Martire della Pia Unione tra gli alimentarisiti bergamaschi, storico sodalizio che fa capo all’Ascom e che promuove momenti di incontro, solidarietà, cultura e spiritualità. La giornata si è aperta con la messa ed è proseguita allegramente a tavola per gli oltre 120 partecipanti, tra i quali è poi avvenuta l’assegnazione a sorteggio di ben 49 cesti di prodotti alimentari messi a disposizione dalle aziende sponsor. Come in passato, il ricavato della sottoscrizione benefica sarà utilizzato per progetti solidali sul territorio.


Scuole di panificazione, sfida a colpi di farina e creatività

Per valorizzare la farina di frumento da filiera locale, l’Aspan ha messo in gioco gli allievi del terzo anno delle scuole di panificazione bergamasche, coinvolgendo proprio le nuove generazioni nella sfida di creare prodotti capaci di interpretare l’evoluzione del gusto, nel rispetto della tradizione artigianale. Il concorso “Bread in school” ha vissuto la fase centrale durante fiera Campionaria, quando nello stand-laboratorio dell’Aspan si sono cimentate nella preparazione delle proprie ricette inedite quattro classi in altrettante serate. Ecco i protagonisti e le loro creazioni.


Salone del Mobile, a spasso tra creatività e nuove soluzioni

Il nostro viaggio tra gli espositori alla fiera di Bergamo, tra nuove soluzioni per l’arredamento, pezzi di design e creatività. Dopo la pausa infrasettimanale, la manifestazione riprende venerdì 21 novembre e si conclude domenica 23.In programma dimostrazioni di cucina, seminari ed eventi fashion.

 


Raspelli: «Un vino da scoprire? Il Valcalepio»

Edoardo Raspelli Bergamo, la conosce bene. Sa quali sono i suoi punti di forza e di debolezza sul fronte alimentare, immagina che l’Expo possa cambiare qualcosa ma senza farsi troppe illusioni. Il celebre giornalista enogastronomico parla in questa chiacchierata a cuore aperto, a tratti persino cruda e disillusa ma sincera, di cibo, del suo rapporto complicato con il maestro Veronelli, del Valcalepio troppo sottovalutato, di certi giudizi su cucine e ristoranti fai-da-te a suo parere inutili, di un Natale in cui non ha l’abitudine (sorpresa!) di regalare leccornie.

Raspelli, il food italiano è a una svolta: quali vantaggi e quali rischi vede nell’operazione Expo?
“Gli scandali che si sono susseguiti negli ultimi mesi non mi fanno sperare molto: non vorrei che i 25 milioni di visitatori (ma oggi si è scesi già a 20!) fossero solo un’ipotesi. Nel 2013 in Francia sono andati 45 milioni di turisti, da noi 23. Siamo sicuri di non aver sperato troppo (e faccio corna e bicorna)? Sarei felice poi se le attrezzature e i padiglioni continuassero a vivere ben oltre la fine di ottobre 2015”.

C’è qualche prodotto italiano, sottovalutato, che potrebbe invece essere rilanciato proprio grazie a questo grande evento?
“Forse l’ortofrutta, che è misconosciuta anche in casa nostra: vini, oli e formaggi, invece, sono da sempre sugli scudi”.

A Natale il food è sempre di moda: cosa regala di solito Raspelli ai veri amici ?
“Potrà sembrare strano, ma non faccio regali, se non qualche cosa in famiglia: detesto gli obblighi, soprattutto a Natale che, come tutte le feste religiose, non sento più da anni”.

Una bottiglia di vino: ci aiuti a scoprire qualche chicca meno conosciuta?
“Il Valcalepio, la Valcamonica: non hanno certo la fama e la grandezza (e nemmeno la qualità) di Langhe o Toscana, ma danno l’occasione di bere e di scoprire le buone curiose bottiglie della propria terra, del proprio territorio, delle proprie tradizioni”.

Bergamo è la capitale dei formaggi Dop: quale produzione ama di più?
“Mi piacciono le produzioni meno note, a parte naturalmente il Taleggio e tutti i piccoli grandi prodotti delle montagne: ma nella Bassa, inaspettati, ci sono la mozzarella di latte di bufala e caprini assolutamente straordinari”.

Proprio Bergamo, in occasione di Expo, varerà un Fuori Expo riproponendo la grande figura di Veronelli, i suoi vini da collezione e le sue battaglie. I vostri rapporti non sono stati sempre idilliaci: che tipo era il Gino visto da un competitor, ma anche da un uomo che gli è stato vicino come Raspelli?
“Con Veronelli mi legava un rapporto di odio-amore come tra padre e figlio: mi ha insegnato tante cose ma gli sono anche stato utile. Mi fece anche una querela dopo una critica garbata (querela che Gino perse: era a proposito dell’olio denocciolato). E pensare che oggi il giornalismo è morto e quasi tutti quelli che scrivono sono diventati organizzatori di eventi con cuochi, ristoratori e produttori (su cui, ovviamente, guadagnano). Lui era, comunque, un grande: chi, dopo di lui, ha la voglia ed il coraggio di scrivere che quel dato vino non gli piace?!”.

C’è un prodotto, un piatto della memoria, di cui Raspelli non potrebbe fare a meno?
“Bendaggio gastrico a parte, il mio poker ideale va dai gamberi crudi, al bollito misto (con la lingua), fino a  trippa e cassoeula…Peraltro da qualche tempo ho un incubo ricorrente: mi ritrovo ad assaporare carne di un essere vivente ucciso….”.

Ai tempi di Tripadvisor, pensa che certe guide ne escano ridimensionate? Non crede che il pubblico della rete sottovaluti certe “deviazioni” di una valutazione fai-da-te?
“Tripadvisor serve solo come una guida del telefono: per me è totalmente inutile. La critica è critica: nel giudicare una partita di calcio, il canto di un tenore, un balletto, un libro, bisogna essere esperti e disinteressati. La stessa cosa per cibi, ristoranti ed alberghi…”.

Cosa, durante un pranzo o cenone di Natale, non deve mai mancare a tavola?
“Agrumi, frutta secca e panettone: anche se non ci credo più, per il giorno di San Biagio, il 3 febbraio, tengo sempre una fettina di panettone aperto a Natale, da assaggiare”.

Infine, c’è un prodotto o un vino della nostra enogastronomia che è diventato un “cult” e che proprio non sopporta?
“Panna, rucola e aceto balsamico, quest’ultimo, badate bene, non tradizionale: li trovi ormai ovunque”.

 


Lo chef bergamasco che ha conquistato le Cayman

Adriano Usini BigNei pressi di George Town, nell’arcipelago delle Grandi Antille, si snoda una distesa di finissima sabbia bianca corallina lunga sette miglia. Questo luogo incontaminato dove vige l’esenzione fiscale fin dai tempi di re Giorgio III d’Inghilterra rappresenta, grazie alla massiccia presenza di alberghi di lusso, un’ambita meta turistica. E di certo Adriano Usini non poteva scegliere di meglio per consolidare la sua esperienza lavorativa all’estero. Originario di Caravaggio, questo cuoco 44enne oggi è il capo chef del ristorante “Ragazzi” di Grand Cayman, la maggiore delle tre isole che compongono il territorio britannico d’oltremare delle Cayman Islands.

Salone arioso dall’aspetto accogliente e pareti di legno chiaro rallegrate da opere d’arte ispirate al mondo marino, questo locale italiano offre una serie di specialità che vanno ben oltre i cliché culinari a cui i turisti sono stati a lungo abituati. Accanto a grandi classici come lasagne alla bolognese, fettuccine al pesto e gnocchi ai quattro formaggi, nel menù si possono trovare gustosi piatti di pasta fresca, dalle orecchiette con broccoli e gamberetti a originali casoncelli in salsa di funghi e olio di tartufo. Tra i secondi spiccano carpaccio, insalata caprese, scaloppine al limone, pollo al Marsala, fritto misto, il tutto accompagnato da focaccia e grissini fatti in casa. C’è poi una vasta selezione di vini che, oltre alle classiche marche francesi e austriache, propone una vasta gamma di etichette italiane, dal Prosecco al Chianti, al Barolo.

Con 755 recensioni e un certificato di eccellenza conquistato nel 2014, Ragazzi si piazza al terzo posto, su 52 ristoranti presenti a Seven Mile Beach, tra le preferenze degli internauti di Tripadvisor. Ben 506 utenti giudicano questo locale “eccellente”, 188 “molto buono”, 38 “nella media”, 12 “scarso” e 11 “pessimo”.

Com’è iniziata la sua passione per la cucina?
Ho frequentato la scuola alberghiera a Clusone. All’età di 17 anni, mi sono imbarcato su una nave della Princess cruise per una esperienza di sei mesi all’estero, tra Stati Uniti, Canada, Alaska e Caraibi. Poi sono tornato in Italia e ho lavorato per sette anni a Milano al ristorante Orti di Leonardo e poi al Salotto in piazza Duomo. Nel gennaio 1997 mi sono definitivamente trasferito alle isole Cayman.

È vero che gli stranieri hanno una visione stereotipata della cucina italiana?
«I nostri clienti sono in larga parte americani e devo dire che hanno gusti abbastanza particolari. Sono convinti, per esempio, che tra le specialità italiane ci siano spaghetti con le polpette, pollo alla parmigiana e la pasta Alfredo, ovvero un facsimile delle nostra pasta burro e formaggio con la differenza che loro mettono la panna al posto del burro e ci aggiungono pollo o gamberetti. In effetti sono ricette italiane ma con delle variazioni abbastanza pesanti che, secondo il mio punto di vista, rovinano la classicità della cucina italiana basata su cibi leggeri e molto digeribili».

Ci sono dei piatti tipicamente italiani che ancora non è riuscito a far apprezzare agli stranieri?
«Non apprezzano la semplicità di una bella aglio, olio e peperoncino».

Quali sono i piatti forti del suo ristorante?
«Il nostro menù è basato principalmente sulla pasta fresca, in particolare ravioli fatti in casa. Abbiamo qualcosa di simile ai casoncelli ma cucinati con funghi freschi saltati e olio di tartufo. Ci sono poi le orecchiette alla pugliese con broccoli al posto delle cime di rapa, qui impossibili da trovare, e gamberetti. E ancora gnocchi fatti in casa ai quattro formaggi, panna, brandy e pistacchi tostati».

Ha mai dovuto piegarsi alle esigenze dei clienti cambiando in corsa qualche sua ricetta?
«I piatti sono tutti molto apprezzati ma ho dovuto cambiare tutte le ricette originali per andare incontro ai gusti dei nostri clienti».

Cosa ne pensa delle recensioni di Tripadvisor?
«A volte sono utili perché ci sono critiche molto costruttive. Il dramma è quando scrivono commenti quei clienti americani che hanno un’idea distorta della cucina italiana. È la tipologia di clientela più pericolosa per la nostra reputazione perché magari va in giro a dire che le nostre non sono ricette italiane originali soltanto perché sono differenti da quelle che trova abitualmente nei fast food vicino casa».

Ha una famiglia che le sta sempre vicino?
«Sì, qui a Grand Cayman ci sono mia moglie Katiuscia, anche lei di Caravaggio, e i nostri tre splendidi bambini: Alessandro, 13 anni, Mattia (8) e Leonardo (2). Sono tutti e tre nati a Cayman e parlano perfettamente inglese e italiano, Alessandro anche lo spagnolo. I miei genitori, invece, risiedono tuttora a Caravaggio, vado a trovarli ogni anno tra luglio e agosto quando qui è bassa stagione».


Capo o leader? Come perdersi tra mille teorie

Sono trascorsi quasi sette anni da quando ho cominciato a scrivere regolarmente di tematiche legate alle Risorse Umane e il tema del leader, con le sue infinite sfaccettature, è stato uno dei primi affrontati in questo spazio. A distanza di anni, mi stupisce molto vedere che l’argomento continua ad essere oggetto di grande interesse e discussioni e che non abbia smesso di scaldare gli animi umani. La prova inconfutabile di ciò che dico è l’inarrestabile proliferazione sul web di articoli, blog e vademecum sulla leadership e sulle differenze tra l’essere “capo” e “leader” sul luogo di lavoro. Sono ormai evidenti a tutti le differenze tra i due ruoli in questione e in maniera molto stringata vale la pena ricordare quelle che ne caratterizzano i tasselli fondamentali, anche se lo scotto da pagare è che assomiglino ad una sorta di litania già sentita: un capo pensa di conoscere tutto, un leader ha sempre voglia di imparare; un capo prima parla e poi ascolta, un leader prima ascolta e poi parla; un capo critica, un leader incoraggia; un capo individua le debolezze dei suoi dipendenti, un leader ne scopre le qualità; un capo dice “io”, un leader dice “noi” e ancora, un capo pretende risultati, un leader richiede impegno ai propri collaboratori. Per quanto mi riguarda, ho letto più volte queste liste di buone prassi, consultando anche innumerevoli siti web con la speranza di trovare un po’ di illuminazione, ma quello che ho scoperto non mi ha offerto un contributo aggiuntivo, anzi ha confermato sempre di più quello che penso in materia di leadership: il modo migliore di essere un leader è quello di dare l’esempio, anzi il buon esempio.

Tutto il resto, almeno per me, rischia di essere solo un calderone di belle parole e teorie interessanti, difficili da calare nella propria realtà. Tutti, almeno una volta nella vita, hanno incontrato un capo, un leader, un responsabile, qualcuno alla guida di altre persone che ha detto agli altri di fare o non fare una certa cosa e poi, lui stesso si è comportato in modo diametralmente opposto, dando il cattivo esempio. Non c’è davvero nulla di peggio per il morale di un gruppo che essere guidati da individui che praticano la filosofia del “fai quello che dico io, non quello che faccio io“; e quando questo accade, vi è inevitabilmente una perdita di entusiasmo e di motivazione dei membri della squadra. Così, che piaccia o meno, uno dei modi più efficaci per costruire la credibilità con la propria squadra, è quello di dare l’esempio. Come? Considerato che la letteratura si prodiga in interminabili consigli e suggerimenti e considerato che non voglio far torto a nessuno, vi dico cosa ha insegnato a me l’esperienza personale. Innanzitutto, per essere un leader bisogna conoscere non solo il proprio lavoro, ma anche il lavoro dei propri collaboratori; ciò significa che non è necessario essere dei tuttologi o dei tecnici, ma avere voglia di studiare, di chiedere e di confrontarsi anche su terreni che interessano poco o sui quali non si è ferrati. Questo è un ottimo modo per costruire la fiducia e continuare a sviluppare le proprie conoscenze e competenze.

Bisogna poi rispettare e far rispettare agli altri quella che io chiamo la “catena di comando”; uno dei modi più rapidi, per causare un deterioramento strutturale, favorire la confusione e l’offesa personale, è quello di sostituirsi ai propri interlocutori diretti. I membri della squadra devono rispettare la leadership a tutti i livelli, per evitare sovrapposizione di ruolo e confusione a cominciare dallo stesso leader che non può scavalcare nessuno. Anche perché se non lo fa lui, perché dovrebbero farlo gli altri? Al tempo stesso è necessario fermarsi e ascoltare gli altri: un leader vero, anche se è costantemente impegnato a fornire direttive e trovare strategie, non deve mai dimenticare di fermarsi per ascoltare ed ottenere un feedback da chi lavora con lui; e questo fa davvero la differenza. Infine un leader deve saper mettere in campo una corretta supervisione del lavoro, senza cadere nel controllo eccessivo; deve comunicare la “mission”, la visione d’insieme, i valori e gli obiettivi e poi fare un passo indietro e lasciare che la sua squadra si attivi. Essere telecomandati e non poter essere utili in nessun modo, fa del lavoratore un individuo frustrato che non si sentirà mai rispettato fino in fondo. Spesso chi è alla guida di un gruppo di persone non ha capito che le persone non vogliono essere gestite, ma essere guidate; e se proprio ha il desiderio di gestire qualcuno, cominci a gestire se stesso, che è il primo fondamentale step per passare da capo a leader riconosciuto.