Fortis: «Altro che declino, siamo
il Paese più virtuoso d’Europa»

nella foto: Marco Fortis

Sa di essere una voce fuori dal coro, ma, a maggior ragione, ribadisce le sue ragioni. Marco Fortis, economista, vice-presidente della Fondazione Edison, docente alla Cattolica di Milano, collaboratore de il Sole 24ore, non si stanca di dimostrare le sue tesi, nella speranza che in Italia e soprattutto in Europa si faccia un rapido dietrofront rispetto a quasi tutte le politiche di austerità adottate. Ne ha parlato anche a Bergamo, davanti agli imprenditori di Confindustria, dove ha snocciolato dati su dati per dimostrare che da un lato i conti del paese non sono poi così male, e dall’altro che la nostra manifattura, pur fiaccata da politiche incongruenti, è una forza mondiale di tutto rispetto, competitiva ed evoluta e non mostra i segni del declino, ma anzi di una positiva evoluzione. Le imprese, secondo Fortis, fanno abbondantemente il loro dovere, visto che nonostante la nostra presunta «specializzazione sbagliata», che la Commissione Europea continua a rimproverarci, l’Italia è uno dei soli 5 paesi del G20 (con Cina, Germania, Giappone e Corea) ad avere un surplus commerciale strutturale con l’estero per i manufatti. La manifattura italiana è la seconda d’Europa e la quinta al mondo per valore aggiunto.
Sempre secondo l’indice del commercio mondiale l’Italia è prima al mondo per competitività in tre settori: tessile, abbigliamento, pelli-calzature; ed è seconda dopo la Germania in altri tre settori: meccanica non elettronica, manufatti di base (cioè metalli, ceramiche, ecc.) e altri prodotti manufatti (cioè occhialeria, gioielleria, articoli in materie plastiche). L’Italia è inoltre sesta anche nei prodotti alimentari trasformati.
Il made in Italy dunque, non è più solo cibo, moda e mobili ma anche e soprattutto meccanica. In questo settore, che è sorretto da un’importante filiera metallurgica e dei prodotti in metallo, il nostro surplus con l’estero è il terzo al mondo dopo quelli di Giappone e Germania.
E ancora, secondo l’Indice Fortis-Corradini elaborato dalla Fondazione Edison, su circa 5.000 prodotti, l’Italia è risultata prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l’estero in quasi 1.000 prodotti. Tra i più importanti primi attivi con l’estero detenuti dall’Italia nel commercio mondiale vi sono quelli per: calzature in pelle, macchine per imballaggio, attrezzature frigorifere per supermercati, pasta, occhiali, elicotteri, yacht di lusso, pelli conciate, tubi in acciaio, pompe per liquidi, pomodori lavorati, mele. Tra i secondi posti vi sono: vini e spumanti, rubinetti e valvole, mobili, lavori in acciaio e alluminio, bulloneria, navi da crociera, forni e cucine, uva.
Se l’industria italiana va indietro, dice Fortis non è perché non sia competitiva o esporti poco, infatti il fatturato estero italiano corre. Se l’industria italiana è in crisi è perché l’eccessiva austerità ha spento la domanda interna di consumo e di investimento.
“Le imprese fanno ricerca – ha spiegato Marco Fortis durante l’incontro stampa che ha preceduto la Serata per l’imprenditore –  e innovano nonostante tutte le difficoltà del paese e la loro ridotta dimensione. Ma le politiche europee ed italiane fanno disastri”.
Così mentre gli Stati Uniti e il Giappone crescono, pur con alti e bassi, la politica del rigore senza sviluppo sta portando l’Europa, ma soprattutto l’Italia verso una grande depressione ed un autentico disastro occupazionale, che colpisce soprattutto i giovani.
“La UE – ha accusato Fortis – ha confuso la crisi di credibilità politica dell’Italia con una crisi di «fondamentali» economici ed ha  chiesto al nostro paese di applicare una cura fiscale «greca» assolutamente sbagliata nel nostro caso perché il debito pubblico italiano non era, né è oggi, così pericoloso da richiedere una politica fiscale restrittiva ed aggressiva come quella che è stata applicata in questi ultimi due anni e perché non si può chiedere ad un importante paese produttore come l’Italia di mortificare per un lungo tempo la propria domanda interna e di investimento, perché si mortifica così la stessa produzione e si distrugge capacità produttiva, innescando una pericolosa crescita della disoccupazione”.
Secondo Fortis non è vero che il debito pubblico italiano è il secondo più alto d’Europa dopo quello della Grecia. O, meglio, lo è solo in rapporto al PIL, un indicatore che ormai si sta rivelando sempre più inadatto.
“Il nuovo ministro Padoan – ha insistito – dovrebbe spiegare a Bruxelles che l’Italia è da oltre 20 anni in avanzo primario, eslcusi gli interessi, quasi sempre oltre al 2% del Pil, un record assoluto per l’Occidente avanzato, e che dal 2008 il debito pubblico è quello che è aumentato percentualmente di meno, tranne che in Norvegia e Svezia. E ancora: nel quadriennio 2012-2015 il rapporto deficit/PIl è stato sempre sotto il 3% e nel quadriennio 2012-2015 l’Italia sarà il paese UE non aiutato con il più alto avanzo statale primario in rapporto al Pil”.
La stessa Commissione Europea riconosce che nel medio-lungo termine, grazie soprattutto alle riforme pensionistiche l’Italia, presenta il più basso profilo di rischio finanziario del debito pubblico tra tutti i paesi UE.
Ma tutto ciò è vanificato dagli spropositati interessi. Di qui la proposta: “L’Unione Europea dovrebbe introdurre misure compensative, come eurobond, per sterilizzare gli interessi eccessivi di quei Paesi che si dimostrano in grado di mantenere il surplus statale primario sopra il 2% del Pil”. Togliendo questa zavorra il  paese sperimenterebbe un rilancio che lo farebbe uscire definitivamente dalle secche. 
Per Fortis è però essenziale interrompere l’autodenigrazione nazionale, basata anche su ignoranza e il diffuso potere dei burocrati, sia a livello nazionale che europeo.
“Il nuovo presidente del Consiglio Renzi – ha concluso – ha fatto tutte enunciazioni positive. Servono subito alcune mosse concrete, è importante fare subito qualcosa che ci permetta di presentarci all’Europa sotto una nuova veste, per reclamare una revisione di alcune delle misure prese. Il semestre europeo sarà sicuramente un’occasione importante: se riuscissimo a intervenire sul cuneo fiscale per quella cifra di cui si parla, 10 miliardi, se si potessero attivare le garanzie della Cassa depositi e prestiti, se si potessero fare alcuni tagli di spese improduttive di 7-8 miliardi, ci presenteremmo più forti. Con un prossimo governo stabile per 5 anni avremmo tutto il tempo per riprenderci”. 


Disturbi del sonno, la “Pallium”
apre una clinica a Dubai

nella foto: La delegazione di Confcooperative Bergamo alla fiera del Medical Congress & Exhibition di Abu Dhabi

Da Castelli Calepio a Dubai per avviare un’attività  ambulatoriale specializzata nella medicina del sonno insieme alla cooperativa sociale Pallium: è questo un importante risultato delle missioni all’estero di Confcooperative Bergamo che dopo un primo viaggio negli Emirati arabi sul finire dello scorso anno, è da poco tornata da Dubai con interessanti prospettive di internazionalizzazione per le cooperative associate. L’obiettivo del viaggio-missione era infatti quello di conoscere le strutture ospedaliere locali e le potenzialità occupazionali in campo sanitario: potenzialità legate alla mancanza di servizi e personale specializzato in certi ambiti, come nel caso della diagnosi delle patologie legate ai disturbi del sonno, attività multidisciplinare su cui la Pallium di Castelli Calepio si sta focalizzando. «Grazie a queste due missioni abbiamo potuto sondare il terreno e capire che a Dubai mancano servizi poliambulatoriali specifici, come per la diagnosi clinica dei disturbi del sonno – spiega Maria Claudia Cobianchi, presidente della cooperativa bergamasca specializzata in servizi socio-sanitari e moduli assistenziali di tipo infermieristico e ausiliario che si integrano con quelli ospedalieri -. Durante l’ultima missione abbiamo incontrato studi legali, assicurazioni e agenzie immobiliari per capire come procedere a livello burocratico. L’iter è già a buon punto e l’idea è riuscire ad aprire la clinica e avviare l’attività entro fine anno. Ora commissioneremo un’indagine di mercato per capire le esigenze della popolazione e il target di riferimento legato ai trattamenti e alle diagnosi che potremo effettuare nel nostro poliambulatorio che sarà specializzato proprio nella diagnosi dei disturbi del sonno, con un laboratorio in cui eseguiremo esami strumentali polisonnografici  e il controllo delle terapie impostate».
Le principali patologie d’interesse della medicina del sonno sono oltre alle insonnie anche i disturbi respiratori del sonno, l’eccessiva sonnolenza diurna e i disturbi della vigilanza. «In Italia si stima che ne soffra il 4% della popolazione adulta – spiega la presidente della cooperativa -. A Dubai però il il dato è destinato ad aumentare perché sono sempre di più le persone in sovrappeso, patologia correlata, e quelle che soffrono di diabete, due pericolosi “alleati” dei disturbi del sonno. L’idea è quindi quella di partire con un’equipe di medici italiani formata da pneumologi, cardiologi, otorinolaringoiatri, dietologi, neurologi, odontoiatri che possano consigliare il corretto iter terapeutico con l’attivazione di percorsi multidisciplinari facilitati».
Le missioni a Dubai hanno inoltre consentito di entrare in contatto con diverse strutture ospedaliere e di valutare le tante possibilità di collaborazione in loco. «Durante la prima missione siamo stati ad Abu Dhabi e alla fiera del Medical Congress & Exhibition – spiega il direttore Pieralberto Cangelli -. Abbiamo visitato ospedali, cliniche, centri di riabilitazione e centri di ricerca delle due città: tutte infrastrutture all’avanguardia e che a seguito del forte sviluppo socio-demografico di questi anni sono alla ricerca  di personale specializzato, dottori, infermieri e tecnici ospedalieri per la gestione di sale operatorie e servizi infermieristici avanzati e di riabilitazione. Gli Emirati Arabi sono ormai diventati un punto di riferimento per tutta l’area del Medio Oriente e sono sempre di più le cliniche e i centri di riabilitazione per la terza età e la disabilità che necessitano di nuovo personale direttivo, organizzativo e infermieristico, senza contare tutti quei servizi legati all’assistenza domestica».


L’impresa familiare
a un bivio

nella foto: Alessandro Minichilli

Le aziende familiari resistono meglio alla crisi e danno occupazione, ma possono ancora crescere e diventare grandi, arrivando a competere sui mercati mondiali. Solo l’11,7% delle più grandi imprese italiane ha effettuato almeno un’acquisizione negli ultimi 13 anni, dato che evidenzia un vero e proprio limite allo sviluppo. L’azienda familiare è a un bivio: “O le nostre aziende fanno acquisizioni o finiscono con l’essere acquisite, come mostra il lungo elenco delle operazioni perfezionate o avviate da gruppi francesi” – sottolinea Alessandro Minichilli, professore associato della Cattedra AIdAF-Alberto Falck di Strategia delle Aziende Familiari dell’Università Bocconi, tra i curatori dell’Osservatorio Aub.
La crisi e la stretta al credito impongono inoltre una rivalutazione del ruolo dei portatori di capitali terzi e del private equity. Bisogna inoltre infrangere il “soffitto di vetro” (glass ceiling) che soffoca ogni aspirazione alla carriera delle donne: cda e vertice in rosa detengono, dati alla mano, performance eccellenti.
La medio-grande impresa familiare tiene duro di fronte alla crisi e incrementa l’occupazione. Questione di dna?
“Di fatto la migliore tenuta occupazionale va alle imprese familiari (che rappresentano  il 58% di quelle prese in esame) che hanno incrementato i posti di lavoro  del 5,7%  dal 2007 al 2012, contrariamente alle multinazionali che registrano un calo del 4,5%.  Nelle aziende familiari esiste una sorta di “patto implicito” tra datore di lavoro e dipendente. Un legame che spinge gli stessi imprenditori a parlare di “collaboratori”, indice di un maggior coinvolgimento,  in una struttura in cui il dipendente non è  un numero”.
Quali sono  i punti di forza delle aziende familiari?
“Senza dubbio il coinvolgimento della proprietà ed il legame più stretto con i dipendenti. Le aziende prese in considerazione, spesso caratterizzate da una forte presenza della famiglia e del fondatore, sono ancora molto vicine alla nascita imprenditoriale e portano ancora con sé quei valori di creatività, design e innovazione che costituiscono la forza del prodotto e quindi del mercato stesso.  Oltre alle eccellenze nel campo della moda e del design, siamo secondi solo ai tedeschi nella produzione di macchine utensili ed è tutto merito delle aziende – quasi tutte familiari – nate dall’intuizione di brillanti ingegneri fondatori”.
Qual è il tallone d’Achille dell’impresa familiare italiana?
“Le questioni critiche riguardano la governance. La difficile congiuntura economica dell’ultimo triennio ha determinato un atteggiamento di maggior prudenza verso il ricambio al vertice: le successioni sono passate dal 5% del 2008 al 3,7 % del 2012. Il problema è che, a prescindere dalla congiuntura economica, le successioni al vertice sono più frequenti nelle aziende in maggiore difficoltà. Questo è un limite, perché il cambio al vertice non va fatto nei momenti di grande crisi, ma al momento giusto”.
Le aziende guidate da leader giovani hanno performance migliori?
“Sì, mostrano performance superiori rispetto a quelle con leader over 40 e over 50. Il fondatore amplifica i due estremi: porta ad una crescita aziendale grandissima fino a 40 anni (+11,5 punti percentuali rispetto alla media della popolazione), buona fino alla soglia dei 50 (+3,5), mentre al giro di boa del 60 si blocca (al +0,1) per invertire completamente la tendenza  tra i 60 e i 70 anni (-1,7) e segnare il tracollo oltre i 70 anni (-3,9)”.
A quanti anni è bene che il fondatore o il leader si faccia da parte?
“I dati mostrano come il momento giusto sia alla fine dei 60 anni e comunque mai oltre aver spento le 70 candeline. La successione va programmata per tempo e deve avvenire al momento giusto”.
Un altro limite da infrangere è quello del “soffitto di vetro” che soffoca la carriera delle donne. Superare il “glass ceiling” è davvero un’opportunità?
“Dall’Osservatorio emerge che le donne possono rappresentare una concreta opportunità per le aziende, oltre che un obbligo nella linea di successione. Le donne al vertice dell’azienda di famiglia sono state selezionate per la loro competenza e non per affiliazione. Le donne lavorano inoltre meglio in coppia e in team: le migliori performance si registrano nelle imprese con vertice e cda in rosa”.
L’atteggiamento di preclusione verso una strategia acquisitiva rappresenta il principale freno allo sviluppo delle aziende familiari?
“Oggi lo slogan “piccolo è bello” che ha da sempre accompagnato il modello imprenditoriale italiano mostra tutti i suoi limiti. Oggi, o le nostre aziende fanno acquisizioni o finiscono con l’essere acquisite, come mostra il lungo elenco delle operazioni perfezionate o avviate da gruppi francesi. Le acquisizioni consentono all’azienda di crescere in nuovi mercati e di consolidare i propri presidi. L’Osservatorio evidenzia come solo l’11,7% delle maggiori aziende familiari italiane abbia effettuato almeno un’acquisizione negli ultimi 13 anni”.
Quali sono gli ostacoli all’internazionalizzazione, soprattutto nei mercati emergenti?
“Si tende a misurare la distanza in termini culturali oltre che geografici. E’ una questione di approccio: se l’azienda multinazionale analizza i mercati basandosi sulla loro crescita, l’ azienda familiare, che tende a preservare al massimo l’autonomia decisionale, pensa che affacciarsi sul mercato asiatico presenti rischi elevati, quando in realtà non è quasi mai così”.
Quali sono le nuove sfide?
“Con la crisi e la stretta al credito prima o poi le aziende devono rivalutare il ruolo dei portatori di capitali terzi per preservare e valorizzare il patrimonio. L’apporto di nuove risorse finanziarie e conoscenze da parte di un private equity può fornire un aiuto concreto per uscire dall’impasse o per consolidarsi e crescere. Molte aziende italiane pur possedendo i requisiti per procedere all’apertura di capitale non colgono questa opportunità. Il nostro mercato è sempre stato estraneo a queste operazioni, anche se il private equity si sta timidamente facendo strada. I risultati non mancano: la media dei tre anni post investimento raffrontata con il triennio precedente all’operazione evidenzia la crescita delle imprese che hanno aperto il capitale ad un fondo”.


Parte da Lovere
la rivoluzione dell’ombrello 

nella foto: Diego Parisi

Si può essere creativi anche rivoluzionando un oggetto semplice come un ombrello. E’ il caso di Diego Parisi, 49 anni, di Lovere, padre di “Eccentrella”, il nuovo parapioggia con l’asta in posizione eccentrica rispetto alla copertura.
L’inventore bergamasco ha prima brevettato i prototipi e poi ne ha fatti fabbricare qualche migliaio in Cina e ora è pronto a lanciare il modello sul mercato nazionale.
Se le innovazioni servono per migliorare la vita quotidiana, il suo nuovo modello dal design accattivante si sta già conquistando un ruolo di primo piano. L’originalità è concentrata nella struttura: l’asta non più centrale, ma spostata a fianco permette di coprire dalla pioggia in modo totale. Gli ombrelli tradizionali, al contrario, riparano, più una spalla rispetto all’altra, che resta così più esposta alle intemperie. Questo perché la mano che tiene l’ombrello è decentrata rispetto al corpo. 
Parisi, come le è venuta l’idea di creare “Eccentrella”?
“E’ successo nel 2004. Passeggiavo per Bergamo, sotto la pioggia, proteggendomi con un ombrello convenzionale e quando mi specchiavo nelle vetrine mi accorgevo che avevo sempre la spalla sinistra bagnata. La mia compagna, perfino la borsetta fradicia. Non c’era una protezione totale dall’acqua. L’unica eccezione sono i modelli molto grandi che però nel contesto urbano sono ingombranti. Ho realizzato che mettendo invece l’asta dell’ombrello in posizione non centrale rispetto alla copertura, questo problema sarebbe stato superato”.
E così ha rivoluzionato il parapioggia…
“In effetti l’ombrello è leggermente più corto davanti rispetto a uno con asta centrale e quindi si evitano rotture nella parte anteriore della copertura soprattutto quando ci si scontra con altre persone. Possiede un ingombro minore rispetto a un ombrello più grande ad asta centrale, ma protegge allo stesso modo”.
Dal 2004 al debutto sul mercato attuale sono un po’ di anni …
“Ci sono passaggi ineludibili. Prima ho depositato il modello del telaio presso l’ufficio brevetti di Milano, una pratica semplice e necessaria. Poi ho presentato la stessa domanda ad Arlington, negli Stati Uniti. In questo caso, il procedimento è stato più lungo e costoso. Ma alla fine le Commissioni competenti si sono riunite e hanno confermato l’assoluta novità del mio prodotto rilasciandomi  l’utility patent nel 2009”.
La fabbricazione è avvenuta in Cina, perché?
“Negli Stati Uniti sarebbe costata troppo. Per questo ho optato per studio, sviluppo e  produzione in Cina. Le prime due fasi hanno richiesto oltre un anno, la produzione solamente tre settimane. In Asia la produzione ha costi ancora contenuti. E ciò mi permette di vendere “Eccentrella”, in Italia, a soli 19,90 (Iva inclusa) più un contributo per la spedizione, con consegna nell’arco di una settimana. La richiesta può essere fatta attraverso il mio sito aziendale www.eccentrella.com”.
Quali sono le caratteristiche tecniche e i materiali di “Eccentrella”?
“La copertura a forma di cupola, regolare e circolare, ha un diametro di 110 centimetri. L’asta è in alluminio, l’apertura a molla. La bilanciatura del telaio è perfetta e permette di tenere l’ombrello senza affaticare la mano. Le stecche hanno 12 misure diverse e sono in fiberglass. Il tessuto è blu o verde con manici abbinati. Non ho voluto nessuna fantasia, mi sono concentrato sul modello”.
Non teme la concorrenza? Oppure che qualcuno possa copiarle l’idea?
“L’azienda olandese Senz ha ideato un modello simile al mio, conosciuto come “The storm”, la tempesta, ma non ha una vera cupola ed è troppo basso. Anche Carpisa ha progettato un ombrello che si avvicina nell’idea al mio, ma è piccolo, pieghevole e non altrettanto bilanciato. Eccentrella è perfetta ed è destinata a essere l’ombrello del futuro”.
Prima però deve pubblicizzarlo. Oltre al web, quali saranno le sue piazze principali?
“La mia campagna parte ora e durerà un paio di mesi a Milano. Il centro, Duomo e San Babila, saranno battuti da un triciclo pubblicitario. Poi tra aprile e maggio sarò nelle vie centrali di Bergamo”.
La sua mente creativa ha in serbo altre novità?
“La meccanica è una scienza molto primitiva, ti permette di progettare invenzioni e di capire subito in che direzione andranno e se sono fattibili. In cantiere ho molte idee. Come una biro che ti permette di scrivere velocemente perché dotata di un inchiostro speciale, molto più scorrevole. E poi sto pensando di realizzare un monopattino monoruota che possa raggiungere i 16 chilometri orari. E ancora sogno di vedere ai piedi della gente delle scarpe da ginnastica con una forma molto particolare. Ma non posso svelare nulla. Non vorrei che la Nike ci arrivasse prima di me”.

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Scaglia: «Troppi ostacoli
al futuro dei giovani»

nella foto: Mario Scaglia

“È inutile piangersi addosso, bisogna darsi da fare. Il mondo è cambiato radicalmente e non si può pensare di agire come si è fatto negli ultimi trent’anni”. Mario Scaglia, 78 anni, Cavaliere del lavoro, una vita dedicata alla meccanica nell’azienda che presiede, la Scaglia Indeva di Brembilla, in fatto di economia la sa lunga. E appena si fa un timido accenno alla crisi, lui si mostra immediatamente refrattario ai luoghi comuni. “Troppo è già stato detto sull’argomento – esclama l’imprenditore -. Il punto è che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e ora ne dobbiamo sopportare le conseguenze. Cerchiamo almeno di tenere in piedi l’esistente”. Ma in un simile contesto, molti imprenditori preferiscono emigrare piuttosto che investire in un territorio che non dà frutti. E il rischio di un ulteriore depauperamento delle risorse rimaste è dietro l’angolo: “Oggi è impossibile pretendere che rimangano qui delle aziende che hanno alti costi strutturali e di manodopera con difficoltà burocratiche infinitamente peggiori di quelle che possono trovare altrove – dice Scaglia -. Servono condizioni che aiutino le imprese a sopravvivere, altrimenti ce la fanno solo gli appassionati come noi Scaglia, che cerchiamo di restare avvinghiati al nostro brandello di territorio. Però chi deve aprire un’attività ex novo di certo non viene da noi”.
Ma le opportunità qui non esistono o non sappiamo coglierle?
“Dipende. I miei figli in azienda a Brembilla stanno cercando quattro ingegneri anche neolaureati e non li trovano. Se si va a Milano ormai più della metà delle edicole è gestita da extracomunitari perché gli italiani non hanno voglia di alzarsi presto la mattina. Nei ristoranti delle grandi città idem, i camerieri sono quasi tutti stranieri, perché questi orari elastici all’italiano non vanno bene. Studiare è fondamentale, così come sapere l’inglese, ma non bisogna vergognarsi di iniziare dal basso. Poi, se uno è bravo, crescerà”.
Ci sono anche molti giovani che hanno idee creative e danno vita a start up di successo…
“Tanti ragazzi hanno delle buone idee ma hanno grosse difficoltà a metterle in piedi. Io non l’ho fatto personalmente, ma so cosa hanno penato i miei familiari per farlo, tra regole per l’agibilità, il capannone e via a seguire. In questo campo servono le riforme. Le idee ci sono ma o siamo più bravi, più furbi e intelligenti degli altri o altrimenti le possibilità in Italia non esistono. Ci sono tanti altri Paesi appetibili. Io ho due nipoti che stanno studiando negli Stati Uniti e mi dispiacerebbe che rimanessero là. D’altronde sono attirati da un sacco di possibilità che qui non abbiamo”.
Il problema dei finanziamenti da parte delle banche frena l’intraprendenza di molti imprenditori che vorrebbero mettersi in proprio ma che non hanno i fondi per farlo?
“Io non sono poi così sicuro che le banche siano tanto rigide come si dice. In fin dei conti le banche hanno bisogno di collocare il loro denaro. Ci sono degli azionisti che a un certo momento vogliono che il loro denaro ritorni. È ovvio che serve un minimo di garanzia. Non posso andare a chiedere un prestito senza niente in mano per dei progetti che non stanno in piedi”.
I programmi scolastici secondo lei sono troppo teorici?
“Non lo so e non li conosco. Però, per esempio, noi Scaglia abbiamo finanziato un corso di inglese di tre anni per i bambini della scuola materna di Brembilla. Così poi i bimbi portano a casa il dischetto ai genitori, lo ascoltano insieme, e poi chissà…”.
I tirocini in azienda per i ragazzi alle prime esperienze sono utili?
“Noi a Brembilla li abbiamo sempre fatti. Già quarant’anni fa, durante le vacanze, gli studenti venivano da noi a fare praticantato, così quando terminavano il ciclo di studi già avevamo collaudato i ragazzi, li avevamo preparati al lavoro. In questo piccolo paese c’è un pendolarismo attivo in entrata di 600 persone. Questi sono dei miracoli. A Brembilla negli ultimi trent’anni c’è sempre stata la piena occupazione. Oggi questa affermazione comincia un po’ a perdere colpi. Comunque le famiglie devono mettersi in testa che i loro figli devono studiare, andare all’università perché le figure professionali che servono di più sono gli ingegneri, i chimici, gli informatici”. 
Oltre a presidente dell’azienda di famiglia, la Scaglia Indeva di Brembilla, lei è anche Cavaliere del lavoro…
“Sì, un’onorificenza immeritata”.
Beh, dai, le farà comunque piacere…
“È un riconoscimento che si dà ai vecchi sciòr. Scherzi a parte, è un premio che inorgoglisce e dà la carica, la forza di continuare e di mantener vivo quell’entusiasmo che l’età tende un po’ a smorzare. Di recente, per esempio, ho deciso di creare una Fondazione dedicata a mio padre per incentivare la cultura del lavoro a Brembilla e nella sua valle”.
Tra circa un anno Milano si prepara ad accogliere l’Expo 2015. Pensa che l’evento riuscirà a portare una ventata di aria fresca anche all’economia bergamasca?
“Sicuramente l’Expo porterà una ventata per l’economia di tutto il capoluogo lombardo, non solo per l’indotto che genererà ma anche per le numerose opere che si stanno realizzando per agevolare questo evento. Vedi ad esempio la metropolitana milanese, la Brebemi, la Pedemontana, tutte opere la cui realizzazione è stata accelerata proprio in vista dell’Expo”.
Quali sono le potenzialità e i limiti di una città come Bergamo?
“In tutta sincerità, Bergamo in pieno pomeriggio è una desolazione con questi bar, anche belli, ma deserti e i negozi vuoti. È sempre stata una città dal carattere mitteleuropeo, un po’ rigida. Però di recente l’ho vista davvero morta. E quando è viva lo è solo grazie alle bancarelle. L’altro giorno, come spesso faccio quando vengo a Bergamo, ho messo il naso dentro la chiesa di San Bartolomeo per osservare ancora una volta bellezze come la pala del Lotto o Fra’ Damiano Zambelli, e ho incrociato tre stranieri che per guardare gli intarsi dovevano chinarsi con una pila in mano. Di bellezze ne abbiamo tante nel nostro territorio, ma dobbiamo valorizzarle di più. Bergamo deve  sprovincializzarsi”.
Il momento più difficile che ha attraversato in questi anni?
“Quando nel 2009 ho dovuto mettere in cassa integrazione un po’ di operai. Ho lottato fino alla fine per salvarli ma sono stato costretto a lasciarli a casa, seppur a malincuore”.
La più grande soddisfazione?
“Ne ho avute tante, sono stato molto fortunato anche perché ho avuto accanto una famiglia che mi ha sempre supportato. Ho fatto il pendolare tra Brembilla e Milano e mia moglie ha saputo gestire la situazione con grande dolcezza e tenerezza. Anche i  miei figli sono stati bravissimi: due sono riusciti a prendere in mano le aziende e a mandarle avanti meglio di me, il terzo fa l’avvocato penalista. C’è armonia tra noi e le tensioni, quando ci sono state, sono sempre state superate con molta civiltà e serenità”.

Ingegnere meccanico con il pallino dell’arte

Giunta alla quinta generazione, la Scaglia Indeva ha quasi due secoli di storia alle spalle (è stata fondata nel 1838) e un lungo bagaglio di esperienza in fatto di fornitura di macchine, sistemi elettronici e pneumatici per la movimentazione dei carichi in impianti industriali. Provenienti dalla Valle Imagna e abili artigiani della lavorazione del legno, dai rocchetti alle anime di bottoni, gli Scaglia si stabilirono a Brembilla già alla fine del Settecento. Fu l’inizio di una lunga tradizione che prosegue ancora oggi con successo. Laureatosi in Ingegneria meccanica al Politecnico di Milano nel 1958, Mario Scaglia è entrato in azienda nel 1960 e fino al 2003 ne è stato presidente e amministratore. Da quando ha lasciato le redini ai figli Stefano e Riccardo, l’imprenditore oggi coordina le imprese del gruppo con 750 dipendenti e 111 milioni di fatturato. Dal 2000 Mario Scaglia, che è un grande appassionato e collezionista di opere d’arte, è presidente della Gamec, mentre dal 1987 al 1993 lo è stato dell’Accademia Carrara. Sindaco di Brembilla dal 1975 al 1980, è presidente onorario della casa di riposo del paese e lo scorso anno ha ottenuto dal capo dello Stato Giorgio Napolitano il riconoscimento di Cavaliere del lavoro.


Il monito del rettore,
«siamo malati di presente» 

nella foto: Il Rettore dell'Università di Bergamo, Stefano Paleari con il professor Jürgen Renn, direttore dal Max Planck Institut di Berlino.

È un netto richiamo a riprendere l’orizzonte strategico, a governare e non limitarsi ad amministrare il cambiamento, a non lasciarsi sopraffare dalla “dittatura del presente” («siamo più follower, per dirla con il linguaggio dei social network, che leader») quello che il rettore Stefano Paleari ha lanciato nel proprio intervento per l’inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Università di Bergamo. La cerimonia, al teatro Donizetti, ha avuto come ospite d'onore il professor Jürgen Renn, direttore dal Max Planck Institut di Berlino, con cui l’ateneo cittadino collaborerà nei prossimi due anni, e 24 rettori di Atenei italiani e stranieri, impegnati in un successivo confronto sulla centralità dei territori.
La considerazione di fondo del rettore riguarda la visione del tempo, che «è ritornato ad essere quello scandito dall’orologio e non già dalla progettualità della persona. È un tempo sequenziale e non creativo». «Le nuove tecnologie – fa notare – ci rendono perennemente visibili, raggiungibili, contattabili. Spazio e tempo convergono in un solo punto: ovunque siamo in qualunque momento, una sorta di “agopuntura permanente”. Probabilmente facciamo più cose di prima, ma non le cose che vogliamo, probabilmente ci sentiamo più liberi, possiamo rispondere e agire comodamente seduti da casa; se non lo facciamo però ci sentiamo inadatti e impreparati. Quindi siamo obbligati a farlo e dunque siamo meno liberi». «Tutto ciò dimostra quanto la nostra vita sia totalmente immersa nella contemporaneità, piegata sul presente e sulle esigenze del momento. In una società di questo tipo è più difficile, ma non per questo meno importante, prevedere le tendenze di lungo periodo, vedere e rispettare i confini, i ruoli e le gerarchie. Siamo, in altre parole, ripiegati, fagocitati dalla cronaca, costretti a camminare con la testa bassa per evitare, aggiustare e contrastare gli ostacoli lungo il cammino. Guardiamo continuamente il grigio dell'asfalto e non ci rimane più il tempo per i colori dell’aurora e l’azzurro del cielo».

Il ruolo delle Università
nelle parole di Papa Francesco

«I cambiamenti imposti e le scelte economiche concomitanti hanno segnato profondamente l’Università italiana – ha ricordato Paleari nel proprio discorso – che vanta secoli di storia ma che solo da qualche decennio si è affermata sia come Istituzione di massa, sia come organizzazione per il sostegno della competitività degli Stati, anche di quelli “emergenti”, di fronte al diffondersi sempre più consistente del ruolo della conoscenza come chiave per lo sviluppo sociale ed economico. I cambiamenti introdotti raramente hanno tratto origine dalla domanda sul ruolo ultimo e sul fine dell’Istituzione universitaria. Si sono concentrati, cioè, sui mezzi e sulle contingenze finanziarie». E per esplicitare i fini ricorre al discorso di Papa Francesco a Cagliari, nello scorso settembre: «Il Santo Padre afferma che le università sono luogo di discernimento, di cultura della prossimità e di formazione alla solidarietà. Un luogo fisico, quindi, in cui i giovani apprendono la lettura critica del mondo e sono educati alla relazione con gli altri secondo principi solidaristici. Diciamo allora che l'Università è luogo di formazione delle coscienze prima ancora che di ampliamento e trasmissione sic et simpliciter del sapere».
A cosa servono le università in un Paese? È giusto che vi accedano tutti coloro che lo desiderano? È opportuno che si confrontino in termini quantitativi e qualitativi con quelle di altri Paesi e in che modo? È bene che competano come squadre indipendenti o è meglio che creino anche un nuovo tessuto connettivo comune pur nelle reciproche diversità? Sono quindi le domande che Paleari pone sul piatto del dibattito. «I quesiti posti – dice – sono un avviso per tutti. In primo luogo per il legislatore che, almeno in Italia, in questi anni, mentre decantava l'autonomia, la riduceva sempre più, per gli atenei virtuosi e non; mentre sosteneva la necessità di dare più risorse ai meritevoli, contraeva i finanziamenti erga omnes; mentre sosteneva nei principi il diritto allo studio, lo decapitava nei fatti riducendone gli interventi». Ma il messaggio va anche alla comunità accademica «che ha perso in gran parte la sua capacità progettuale, trasformata da soggetto spesso autoreferenziale in un comparto puramente esecutivo della Pubblica amministrazione».

Si teme lo scoglio senza accorgersi
che ormai ci si è incagliati

«E se l’Università – prosegue il rettore – si è sempre più configurata come organizzazione burocratica, venendo meno, almeno in termini organizzativi, alla sua funzione cosmopolita, lo si deve proprio alla “dittatura del presente” che ha distrutto il confine tra attività di governo e amministrazione. Che oggi si distinguono difficilmente ma che sono assai diverse. Governa chi può guardare all'orizzonte, amministra chi evita gli scogli. Di norma le due attività, entrambe indispensabili, competono a soggetti differenti. In Italia, invece, non solo nelle Università, da troppo tempo si amministra senza governare o si governa senza amministrare. Si guarda allo scoglio, o appena oltre, senza accorgersi che ormai ci si è incagliati. Non è questione di vento ma di nave, equipaggio e gerarchie. E di reciproca fiducia».
Tra gli esempi degli effetti di questo “eterno presente” sull’Università italiana c’è il dibattito sul numero di Università.

Meglio dei campus
è l’inserimento nel tessuto della città

Paleari sceglie le parole del filologo Vittore Branca – primo rettore dell’Università cittadina dal 1968 al 1972 – pronunciate a conclusione del suo mandato rettorale per evidenziare lo scarto e le opportunità contenute nella nascita di nuove Università, spesso in città con una lunga storia civica, come risposta alla crescita abnorme degli Atenei esistenti. «Dall’Ottocento e sino a questi ultimi anni è prevalso il concetto di concentrare le attrezzature universitarie – diceva Branca -; e questo indirizzo si è rivelato in tutta la sua inconsistenza con la creazione – come è successo negli Stati Uniti – di grandi “campus” universitari che si sono rivelati veri e propri ghetti avulsi dal tessuto sociale. Da molto tempo sostengo che l’Italia ha un patrimonio immenso di piccole città storiche o di quartieri storici in grandi città che, per il loro tessuto urbanistico non possono accogliere la vita della civiltà industriale e tecnocratica… Ebbene, una funzione che non li sconvolge o deturpa ma, anzi, ne sfrutta la suggestione storica, artistica e culturale è proprio quella di cittadelle degli studi, specie a tipo umanistico».
«Il discorso di Branca, di fatto – fa notare Paleari -, dà anche l’avvio alla seconda fase che è quella della crescita del numero di Università italiane. Il numero di Atenei, pari a 39 nel 1950, è 52 alla fine degli anni Ottanta e 78 all’inizio del nuovo secolo. E, in alcuni casi, come spesso avviene alla fine di un ciclo, si assiste a fenomeni di eccesso, l’apertura cioè di nuove Università e sedi più per rispondere a pressioni politiche e corporative che a precise esigenze di decongestionamento delle grandi sedi. Le politiche degli ultimi anni hanno posto fine a questa fase senza tuttavia indicarne una nuova o, anche peggio, ricercando soluzioni sbrigative e anacronistiche».

Un  quadro semplice di regole
per il futuro del sistema universitario

Se è vero che l’obiettivo è quello della qualità da realizzarsi con numeri non elitari, «una nuova terza fase evolutiva del sistema universitario italiano non può quindi nascere come ripiego alla miopia politica, né come inganno ideologico», sottolinea Paleari. Ciò che occorre, anche alla luce della sempre maggiore dinamicità delle relazioni e mobilità giovanile è «seppellire un’ampia stratificazione di norme e cavilli e costruire un nuovo e semplice quadro di regole che porti evolutivamente le Università a promuovere ciò che è necessario, prestando attenzione alle proprie vocazioni e alla capacità di attrarre oltre che di essere in sintonia con un sistema territoriale. Questo percorso può portare anche a modificare il perimetro attuale degli Atenei italiani, forse anche il numero, ma non secondo una logica contabile bensì seguendo un preciso indirizzo sotto il profilo della scelta politica». «Le Università possono quindi specializzarsi e assecondare nuove dinamiche territoriali – spiega -, sempre in una logica di competitività internazionale, e a diverse specifiche finalità da assolvere possono anche corrispondere differenziati assetti organizzativi».

Più delle classifiche
conta la “qualità diffusa”

Una tale visione porta a rivedere il valore delle “classifiche” o ranking universitari, dove la leadership è erroneamente valutata come in una competizione sportiva e/o aziendale. «Negare la natura prettamente sportiva e aziendale dell’agire universitario non significa però rifiutare stimoli e incentivi – precisa Paleari -. Un’Università che si chiude al confronto, al bisogno di crescere e di premiare i migliori, è destinata a morire non già per decreto del Governo ma sotto il profilo sociale, perché non è più riconosciuta come tale». La nuova idea di Università «è quindi la consapevolezza del ruolo in un quadro di obiettivi competitivi. Dove il concetto di competere – rimarca – è quello della sua etimologia, ovvero quello di mirare a un obiettivo comune, dove ognuno si spende per ottenerlo. La competizione fra Atenei è quella che conduce a una migliore qualità, quella che porta anche il peggiore a essere migliore di prima. Concorrere significa gareggiare insieme e, possibilmente, non decidere a tavolino e al di fuori di un insieme di regole chi alla fine “vincerà”». «La nuova Università sarà migliore non se avrà portato un’Università italiana nelle prime dieci in classifica e oppresso tutte le altre, ma se avrà creato le condizioni per il miglioramento di tutti, che poi è il compito di ogni Istituzione sociale. Vorrei che anche per le Università valorizzassimo e apprezzassimo la “qualità diffusa” piuttosto che le sole “torri d’avorio” e che vi fosse una classifica internazionale che misurasse la bontà media dell’alta educazione. Questo non significa ovviamente non sostenere le eccellenze, concentrare i talenti e valorizzarne il merito».